Marco Villa

My dog looks weird 🙁 tre inediti di June Scialpi da Retriever per Presa d’aria

Benvenut* in Presa d’aria, rubrica di poesia inedita e poetica a cura di Matteo Cristiano, Riccardo Innocenti, Dimitri Milleri e Noemi Nagy. La prima puntata è dedicata alla poetessa June Scialpi (1998), che ci ha permesso di entrare nel suo laboratorio alchemico e prelevare alcuni testi da Retriever, un suo progetto inedito. Di prose, creature, impegno e altro June ha poi discusso insieme al nostro Riccardo Innocenti.

Tre inediti di June Scialpi, da Retriever

Volere

Ciò che desidera è uno spazio sicuro. Gli viene concesso uno spazio neutrale un territorio incontrollato. Può essere concesso in alternativa uno spazio non pericoloso al di là del pericolo che teme. Ciò che desidera è uno spazio privato. Gli viene concesso uno spazio comune che non è di nessuno. Ciò che desidera è uno spazio fisico. Che gli venga concesso allora uno spazio anti-materico immateriale metafisico. Uno spazio avocalico ch prt prblm d cmnczn se ciò che desidera è uno spazio dialogico. Se ciò che desidera è desiderare uno spazio allora non gli venga concesso nessuno spazio. Lo spazio che desidera lo potrebbe desiderare grande così gli verrà data una cuccia. Potrebbe voler cucinare nello spazio che desidera e si farà in modo di privare lo spazio di fornelli e suppellettili. Ciò che desidera è lo spazio per sé stesso e ciò che può essere concesso è una costante conferma della presenza di un secondo soggetto. Una prassi dello spazio che funzioni ha bisogno di uno spazio insoddisfatto oppure soddisfatto a un livello intermedio ma mai completamente nel dettaglio mai sul serio. Lo spazio che cerca lo spazio del desiderio è lo spazio dell’essere eternamente nel desiderio per uno spazio.

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Se la lontananza è come il vento allora la lontananza somiglia al movimento di una massa d’aria atmosferica. Alcune lontananze potrebbero avere luogo a causa di instabilità atmosferica. La sua lontananza sembra spesso avere a che fare con questioni di impossibilità all’apparire, o perdita di oggetti casuali. Si osservano lontananze costanti e periodiche e occidentali e catabatiche. Le lontananze polari, invece, sono incontrovertibili. Quando prova il riporto, a camminare all’indietro, sembra allontanarsi ancora di più con l’oggetto nella bocca. A tal proposito verranno coniati dei modi di dire sulla lontananza e quando si dirà “si sta alzando vento” si potrà anche dire “si sta alzando lontananza”. Il problema della lontananza è che non si può testare, c’è un alto rischio di perdita delle coordinate del soggetto. Di contro: quanta lontananza si può catturare con una turbina eolica?

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Eppure esistono esseri mimetici in grado di sopravvivere alle proprie somiglianze. Eppure gli umani finiscono spesso per soccombere al peso delle discendenze. Eppure corre il rischio nell’affanno di diventare qualcosa di diverso: piuttosto che riconoscersi.

Eppure la letalità dei suoi sforzi non pone fine a tutti i tentativi di sopravvivenza. Ha sviluppato la capacità di inanimarsi. Poi di parlare secondo imitazione. Ha appreso delle frasi, conosce dei comandi. Si ricorda l’odore delle cose degli altri, le sagome dei visi.

Vorrebbe essere apprezzato in forme sorprendenti. Eppure si è reso una cosa inedita nell’ambiente circostante, e anche così – o proprio per questo – ho finito per non ricordarmi più nulla. Esseri che sopravvivono alle proprie somiglianze e muoiono prima di somigliare o senza somigliare affatto.

Eppure riconosco i posti dove è stato e dove i corpi sono stati, qui è dove ha parlato di morte come una destinazione, dove ha calato dall’alto qualcosa che lo fa guaire, qui è dove ricordo che lui ha detto affinché io dicessi.

Intervista a cura di Riccardo Innocenti

R. I: Questi testi sono tratti da un libro al quale stai lavorando, Retriever. Ti va di presentarci brevemente il progetto?

J.S: Il progetto è in fase larvale, oltretutto differisce abbastanza dai miei lavori precedenti, sia nella forma che nella prassi della scrittura (ammesso che di prassi si possa parlare), perciò mi è difficile parlarne esaustivamente o in maniera sensata a questo stadio. Direi che per ora si tratta di una serie di testi che provano a dare un inquadramento teorico di un oggetto, una cosa, sondandone molte e diverse implicazioni: letterarie, ermeneutiche, grammaticali, semiotiche, e così via, in un rapporto quasi giocoso, dove gli elementi stanno l’uno all’altro in continua definizione e disconferma dell’oggetto stesso. I testi hanno una cornice, che non funziona mai come un legame o un limite, ma una traccia dalla quale ci si può allontanare fino a perderla. Mi interessa sondare le forme di un testo, la capacità che ha di rivelare o nascondere i suoi intenti operativi, i suoi funzionamenti e disinneschi, e osservarne le reazioni durante la fruizione.

R. I: Rispetto a quelli contenuti nei tuoi libri precedenti, Il Golem. L’interruzione (Fallone 2022) e Condotta del simbionte (La Collana Isola 2023, illustrazioni di Majid Bita), questi testi presentano una dimensione argomentativa che convive con quella lirico-espressiva. Mi pare che la poesia italiana contemporanea si stia dimostrando ricettiva verso scritture al contempo saggistiche e poetiche, penso all’attenzione tributata a Anne Carson e a Maggie Nelson, alla traduzione di Tonight I’m Someone Else ad opera di Sara Verdicchia e pubblicata da Pidgin con il titolo Stanotte sono un’altra. In questi testi a cavallo fra personal essay e poesia si indaga molto la soggettività dell’autrice, le sue modalità di relazionarsi con la cultura patriarcale, la derealizzazione che deriva dalla crisis, nel tentativo di costruire un io relazionale, che non sia solo se stesso. Il tuo Retriever vuole dialogare con questa tradizione? Pensi che esista/si stia costituendo una tradizione italiana? Se è questo il caso, quali sono gli elementi formali e contenutistici che ti intrigano di più di questo tipo di scritture?

J.S: Non penso che Retriever si ponga in diretto dialogo con questa tradizione, se si tiene conto dell’intento. Può accadere che lo faccia, però, se si pensa a come spesso i testi possano intrattenere rapporti che vanno al di fuori dei propri progetti. È anche vero che sono legata a questa tradizione e alle sue articolazioni, in primis come lettrice. I libri che citi tu, con le loro caratteristiche spesso rizomatiche e proteiformi, sono stati fondativi, soprattutto quando si pensa al femminismo e ai queer studies, o agli studi post-coloniali, perché hanno permesso la restituzione di un pensiero critico che fosse veramente intersezionale, in grado di non rinunciare alla complessità pur collocandosi in prospettive incarnate, precise. Oltretutto sono libri che tendono a smantellare la forma accademica, in un certo senso chiusa, del saggio, e non si vergognano nel “mischiarsi” ad altri generi. Da questo punto di vista, sicuramente sono stati essenziali quando ho scritto cose come Vita sessuale segreta delle donne trans e ho sentito la necessità di partire da una posizione personal per parlare di criticità sistemiche e istituzionali; ma quello è appunto una sorta di piccolo reportage/saggio. Potrebbe essere che una tradizione italiana si stia costituendo, attorno a questi testi, già da tempo, ma credo sia più facilmente rintracciabile al di fuori degli ambiti della poesia.

R. I: I testi di Retriever saranno tutti in prosa e tu sei anche autrice di racconti (fra i quali segnaliamo L’animale (https://sporerivista.wordpress.com/2023/05/15/lanimale/) e il recente Bambina (https://palinwebmagazine.it/mandos/). Penso che uno degli aspetti più interessanti delle scritture della nostra generazione sia il completo sdoganamento della prosa, magari affiancata nello stesso libro da testi in versi. A mio parere questo fenomeno richiederebbe una riflessione di tipo semiotico-formale ed estetica. Ricorri alla prosa in poesia per perseguire effetti che non potresti ottenere in versi? Mi piacerebbe che tu parlassi del ruolo della scrittura poetica in prosa nel contesto della tua pratica artistica.

J.S: Nella bandella di Prosa in prosa (Le Lettere 2009, Tic 2020) Andrea Cortellessa scrive “Eppure la prosa come forma del limite è stata una delle poche vie di fuga che abbiano consentito alla nostra scrittura poetica, negli ultimi decenni, di non rinchiudersi nel repertorio di se stessa”. Ho l’impressione che nel mio caso, l’approccio alla prosa in ambito poetico sia solo la conseguenza di qualcosa intorno a cui ho gravitato a lungo, sprovvista di un’idea che ne legittimasse in qualche modo la pratica o la ricerca (non sto dicendo che sia essenziale, sto dicendo che soffro della sindrome dell’impostore). Quando penso alla prosa, comunque, generalmente penso alle prose, cioè piuttosto al modo in cui la forma si adatta a un progetto. Le prose che si alternano alle poesie all’interno di Condotta del simbionte sono una cosa totalmente differente dalle prose di Retriever, e mi viene difficile persino accomunarle. Lavorando a Retriever sto provando a ragionare intorno a questioni di postpoesia, affinché il testo non diventi un mezzo di espressione del sé, e che la prosa non sia solo un appiattimento della lingua, ma un progetto della stessa in grado di funzionare non solo a livello estetico, ma anche pragmatico, cioè nel rapporto tra i segni e il loro contesto sociale e comunicativo. Penso che spesso ci si imbatta in faccende critiche che tendono a fossilizzarsi su alcune questioni specifiche (il soggetto o l’io-lirico, ad esempio), assumendole quasi a parti principali o prominenti di un discorso o della critica stessa, incapaci di un’analisi che tenga conto di queste parti come elementi paritari di una funzione-testo più grande. Da questo punto di vista mi pare che la prosa possa far emergere al meglio, quasi in maniera paradossale, questi inghippi.

R. I: Nella sua prefazione a Tu devi prendere il potere (Interlinea 2023) di Pietro Cardelli, Stefano Dal Bianco parla di come, nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, in pieno riflusso, molt* poet*, e fra quest* alcun* attivissim* sul piano politico, rifuggirono la politicizzazione della poesia per concentrarsi su problematiche esistenziali. Lasciando la politica, vissuta come pratica quotidiana e antagonistica, fuori dalle soglie della poesia. Cosa ne pensi di questo tipo di reazione a un cambiamento storico-culturale? Come vivi il rapporto fra attivismo politico e scrittura?

J.S: Avverto sempre un certo stridore quando si parla di queste questioni. Un po’ perché noto che si tende a pensare spesso al rapporto tra politica e scrittura come a qualcosa di unilaterale, sollevando sempre gli stessi quesiti: Cosa può fare la scrittura per la politica? Quando un testo è politico? Credo che l’attivismo si veicoli facendo attivismo, e la scrittura possa essere in questo senso una sorta di paratesto rispetto alla pratica, ma che non possa sostituirla. Credo sia più interessante chiedersi come o cosa ci permetta di costruire nei testi la nostra pratica di attivismo. O non per forza solo la nostra. Penso a No Archive Will Restore You, altro testo attribuibile al personal essay, dove Julietta Singh, partendo dall’invito gramsciano di compilare un inventario delle tracce storiche depositate nella propria vicenda individuale, si scontra con la difficoltà – se non proprio l’impossibilità – di costruzione di tale archivio. Un archivio fatto di detriti storici e politici, ma anche fisici e sentimentali, di cui la scrittura può restituire solo un tentativo di recupero, una sommaria premessa.


June Scialpi (1998) ha pubblicato Il Golem. L’interruzione (Fallone Editore, 2022) con il quale ha vinto il Premio Flaiano Poesia Under 35 e la plaquette Condotta del simbionte (La Collana Isola, 2023) illustrata da Majid Bita. Alcuni suoi racconti sono apparsi su Spore Rivista e Mandos, inserto cartaceo di Palin Magazine. Si interessa di studi queer e transfemminismo. Collabora con diverse realtà online.