Fuori di sé. Le Api di Raos, lo straniamento, l’opera.

Le api migratori di Andrea Raos. Una nota critica di Matteo Cristiano.

Qualche mese fa, sulla bacheca di non mi ricordo chi, viene condiviso un post della casa editrice [dia·foria che annuncia la ristampa di un volume che, nel suddetto post, viene esposto come un (ormai) classico della poesia degli anni Duemila. Io ho un’attrazione particolare verso i poemetti e i libri poetici narrativi, dal respiro unitario… Forse l’ho già detto: a mio parere, il futuro della poesia non può che essere narrativo. Scrivo all’editore, acquisto, unboxo: Le api migratori, di Andrea Raos. Definiamolo, per comodità, un poemetto, una narrazione in versi. Partendo da un episodio realmente accaduto, la fuga inaspettata di uno sciame di api geneticamente modificate negli anni ’50, Raos ci cala nella percezione delle api, le segue nei suoi tragitti, nei suoi incontri, ne registra alcuni episodi e, soprattutto, gli stati d’animo.

Le api migratori escono dalla tipografia nel 2007, ma la storia che fa da cornice al testo risale agli anni ‘50. Una storia di mutazioni genetiche, e la mutazione, sulla quale giustamente insiste Gherardo Bortolotti, è la filigrana che determina tutto il prodotto. La mutazione come cornice e come paradigma. La storia, però, sta fuori dal testo: è relegata al retro della copertina, quasi fosse accessoria, una premessa secondaria. È forse, infatti, più pregnante quell’ultima riga del retro della copertina, non casualmente sottolineata dal corsivo: Events occur in real time. A questo ricolleghiamo ancora Bortolotti che chiama in causa il film di mostri come genere cui Raos sembra qui guardare da vicino. E infatti, la narrazione si svolge con modi cinematografici e quasi teatrali, con la ricostruzioni di scenari, focalizzazioni, cambi di scena. E che lettori e lettrici debbano figurarsela, questa narrazione, è quasi imposto dall’autore, che prima ancora del titolo della prima sezione ci dice: «Immagina, lettore, un pianeta / una sfera. Neve. Brulica. Nera. / Ora.»

Per tutta la questione linguistica e formale del testo rimando a Bortolotti a mani basse: impeccabile. Quello su cui vorrei soffermarmi io è, invece, il grande senso di solitudine e impotenza che emerge dalle pagine. E non tanto per il sapore a volte languido, patetico, utile sempre a quell’effetto di straniamento generato dalla mostruosità della mutazione espresso in moduli disarticolati ma spesso lirici, di certi passaggi della narrazione. Piuttosto, l’ape[i] banalmente non ha una casa. Lo sappiamo fin dall’inizio: «Non possono nidificare». Ma immagini simili ricorrono fino alla fine del libro e producono un senso di soppressione. C’è un nucleo irrisolto che riguarda la relazione tra soggetto e insieme di soggetti che rappresenterebbe la comunità di appartenenza. 

On Queue I, 2023
Singular V, 2022

Nel segno della mutazione, si svolge quest’altro paradosso: l’insanabile contrasto tra la natura violenta dell* api di Raos, condannate da un peccato originale, e la continua volontà di rifondazione, la tensione verso l’arnia, quasi sempre associata all’arma e sempre inclusa in stringhe contrastive della serie arma-arnia, non arnia ma arma, arnia non arma ecc. L’entropia regna. Ed è chiaro che trovare il senso unitario è qui impossibile. Palinsesti di interpretazioni si sovrappongono, contraddizioni, non detti, fittissime trame intertestuali amplificano la rete di significati.

Cerchiamo, allora, di mostrare come si svolge questo filo rosso che attraversa tutto il libro e che vede, in sostanza, un conflitto irrisolto tra l’ape e lo sciame. La manipolazione del genoma di queste specie di api si configura quasi come un nuovo big bang, una nuova creazione. Anche qui troviamo una forma di ribaltamento: la creazione del mondo avviene a seguito di un intervento umano – creazione che per di più è sfuggita al controllo del suo stesso creatore (quasi un Leviatano hobbesiano), anch’esso investito di un peccato che non viene redento nel libro. Questa nuova forma di vita nasce senza memoria, senza storia: «È questa vita? È vita non sapere?/ […] non capire, ricordare, porta alla memoria, trasporto di nulla?». E il clima di creazione primordiale, sempre screziato dal fondo aberrante della mutazione, si concretizza nel lessico geologico, dai crateri ai frantumi, le esplosioni, e tremare della terra, la lava, e la chiamata in causa del tempo nell’ordine dei  «milioni di millenni […]/ per completa frantumazione».

Da qui, dall’esplosione primordiale, l* api di Raos si muovono nel mondo distruggendo e uccidendo, incarnando una violenza primordiale che è la violenza propria dell’aberrazione, dell’errore. È particolare il fatto che la prima vittima dello sciame mutante è un orso, o meglio un cucciolo di orso. Come a riprendere quell’idea di soppressione, di trauma funebre prematuro. Tant’è che si insiste su questo punto anche più oltre, a pagina 45, in modo molto più esplicito: «Nascono morti dalla nascita quei pochi / che nonostante tutto nascono». Anche quando l* api incontrano la Madre orma, voce non ben verificata, questa si rivolgerà ad ess* in modo assertivo e mortificante, denunciando la dannazione che l* interesserà per sempre:

Siete soli al mondo, lo sapete,
siete nudi e vuoti, eppure ora
uscite, menomati, meno amati.
Uscite geneticamente modificati,
api, non è colpa mia se siete.
Uscite, è fato. È sete.

Insomma, io credo che il fuoco di questo libro giri intorno alla questione della relazione individuo-società, anche considerando un volume particolare indicato nelle note dell’autore, non a caso proprio La società degli individui di Norbert Elias, un libro che si interroga sui due termini (individuo/società) evidenziando la loro implicita relazione e inscindibilità: considerare gli individui al di fuori delle relazioni di socializzazione impedisce la piena comprensione di questo; allo stesso modo, considerare la società come ente ipostatizzato nel quale gli individui che la compongono sono relegati sullo sfondo, come semplici tasselli passivi di un mosaico, non può arrivare a descrivere nel profondo le dinamiche di quella. Pare ci sia, allora, un dato preliminare, implicito in tutta questa mitologia fallita: il paradigma che lega gli individui all’insieme di relazioni che essi formano e dai quali sono formati non è più accettabile. Uno strappo che è dato irrevocabilmente, e che porta ad interrogarsi sul nuovo possibile paradigma da costituire.

Neighbourhood I, 2020

Non è certamente recente il parallelismo tra la civiltà umana e quella delle api: in realtà, il funzionamento delle arnie e degli sciami è stato quasi sempre una struttura esemplare per l’umanità. Perché le api vengono viste come totalmente soggette al bene dello sciame. Il problema è che l’appropriazione della forma di vita dell’ape da parte della civiltà umana è, come sempre, potenzialmente ideologica, antropocentrica e specista, e cito Raos, che a sua volta credo stia parafrasando  (la strofe è in corsivo):

Il farsi sciame delle api
è frutto d’apprendimento, non è innato;
è in seguito ad evoluzione
che si è inciso nel loro patrimonio.
Sfuggite a questo processo esistono tuttora, forse ignare,
api solitarie, relitti delle ère, che non sciamano.

Già dalla seconda sezione, La favola delle api, il paradigma dello sciame viene a mancare, e l* api protagonist* della sezione, e delle successive, sono come degli esuli che si ritrovano a fondare una nuova civiltà, proprio come negli spin-off della mitologia classica. Quest’ape non sciama, non si unisce alle altre ali che si muovono alla mattina alla ricerca di cibo, «Ma io non sciamo»[i], ripetuto due volte, e così incontra un* altr* ape che, come lui/lei, non sciama. E la favola pare avere un lieto fine, come si addice alle favole. Salvo quella costante insoddisfazione, il costante fallimento che aleggia nelle pagine del libro, spesso anche esplicito. Infatti, la quarta sezione, nell’estate dove si incontra Lucano (invertita nell’ordine temporale rispetto alla sezione successiva, la primavera), le citazioni lugubri dell’autore della Pharsalia mettono come in discussione la secessione delle api, che si sono create una nuova dimora in un antro, sottoterra. Non è un caso che il riferimento sia proprio a Lucano, autore di un poema che si focalizza appunto sulla guerra civile e sui suoi disastrosi risultati a livello di tessuto umano. È come se Lucano redarguisse le api di essersi scisse dal loro corpo/massa, nonostante in loro vi sia una costante tensione all’unione:

Sensazione di sé, certo… Quella stessa che pure ci persegue,
anche noi due, da quando siamo distaccate dallo sciame,
e che vorremmo adesso che cessasse, né tornare.
Non essere più io né noi ma pura massa; non forma ma materia,
sì, mucchio di pietre.

Ma la coppia di api ha preso una decisione, è consapevole di ciò che ha fatto:

Siamo state scagliate dentro il vento, alla tempesta.
Noi non ci volevamo scindere, ma nonostante questo
la violenza di cui siamo stati attive testimonianza
ci ha indotte a riflettere sul gruppo
di cui eravamo parte dalla nascita.

Così ce ne siamo staccate, noi due, in due,
a causa dell’amore che ci spinge altrove.

E si badi, quest* due api non sono relitti rimasti accidentalmente fuori dal sistema di riproduzione della civiltà delle api: è la violenza subita e testimoniata che induce le api di Raos a ripensare la propria forma di aggregazione e di riproduzione della specie. La coppia si smarca da un paradigma, appunto, un paradigma che è ormai innaturale, violento, e che non permette ad esse di manifestarsi. Si potrebbe pensare che sia l’amore, la forma della relazione che funga da nuova civilizzazione (il che, in una visione alienata dalla cognizione umana, sarebbe rivoluzionario, poiché la scelta consapevole di abbandonare la forma sociale sciame per instaurare la forma coppia può essere paragonato alla rinuncia alla famiglia tradizionale, in ambito antropologico, per fondare un nuovo nucleo relazionale che fondi una nuova civiltà…), ma il testo ci dice che non è solo questo, c’è dell’altro. Più avanti, sempre con Lucano, le api dicono:

[…] è troppa pena
questo amore che giustificò il distacco,
non ne fu la causa vera, c’era dell’altro, e mai più vero.
[…]
Non è l’amore individuale
il contrario della violenza collettiva, non la annulla;
non l’assenza di violenza
atto d’amore.
Counterpoint, 2019

Sembra infatti che l’amore non basti, lo smarcamento dalla forma della violenza collettiva non ha il potere di negarla. Ma questa opposizione non si risolve, «L’amore non ha niente a che vedere, / lo sapevi? Non ricopre, non scopre, / non è niente. Un’aria portavoce.». Così si conclude il libro, come a negare la possibilità di conciliazione.

Ma non è, credo, il focus di Raos quello di indicare una via per la nuova società, via che nei primi anni del terzo millennio aleggiava nell’aria senz’altro, e già da tempo. Raos ci propone un oggetto che cerca di forzare le nostre reti cognitive per uscire da un binarismo scadente, quello di società e di individuo, facendo emergere una insofferenza che può dirsi collettiva, generazionale: quella di non riconoscersi nella forma sociale in cui ci si trova gettati. Ma non è eroica e priva di sforzi la fuoriuscita dalla logica tradizionale: la lacerazione dell’individuo che si emargina dalla società è vissuta nel profondo, nella coscienza e nella biologia, e l* api ce lo dimostrano. Il paradigma della mutazione allora cerca di essere una lente speciale che permette di modificare lo spettro del reale e uscire dai binari, per prendere coscienza di problematiche sovraindividuali. Si torna, quindi, alla mutazione linguistica, alla chiave del libro, ovvero alla concretizzazione dell’abbandono della grammatica (intesa in senso largo, normativo, come può essere la grammatica della convivenza sociale) in favore di nuove norme.

C’è però un’altra questione che innerva le pagine di questo volume. È la questione, in atto, della poesia stessa. Le opere riuscite sono quelle in cui forma e contenuto sono in una relazione (che può essere, si badi, tanto di congruenza quanto di conflittualità) che non potrebbe darsi altrimenti. Senza scomodare Lukàcs o Fortini, mi pare comunque di dover ricordare che l’organicità stilistica, feticcio della poesia contemporanea, non è sufficiente per fare un’opera. I libri che esibiscono spiccate facoltà stilistiche e formali ma che riproducono su pagina episodi, oggetti, riflessioni fine a sé stesse (e non è difetto della sola lirica tout court) e slegate da tutto ciò che non è nel testo, non arrivano a quella pienezza estetica che dovrebbe generare l’esperienza dell’opera. I libri di poesia che escono quotidianamente si fanno leggere con piacere (circa), ma una volta finito il libro quello che resta non è che qualche verso “fatto bene” e qualche figura metaforica ben riuscita. Se finisco di leggere Raos, ho bisogno, necessito di leggere Elias, di rapportarlo a Bourdieu, di tornare al G8, di ricostruire un discorso che si svolge in decenni sulle questioni della comunità (si pensi al dialogo di Blanchot con Nancy), di riprendere le riflessioni della Neoavanguardia (per esempio, ma per forza di cose bisognerà andare anche a Gleize) e verificare le strumentazioni formali del testo. Usciti dal libro di Raos, e dalle opere riuscite, ci si ritrova nell’arena di un conflitto con la realtà, modificata dall’esperienza della realtà dell’opera (ed è sintomatico come, in Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali, a pagina 9 si legge «Spero ti scardini la vita»). Perché non può esserci un’opera che sia tale senza che vi sia un match (non tinderiano, si legga conflitto) con la realtà materiale e storica: non può esserci, implicitamente, lo sappiamo, ma questo non può concedere di glissare il mondo, di pensare di reinventarlo candidamente. Che tanta poesia contemporanea, di stampo pseudo orfico sapienziale, metafisica, ancora attratta da un sublime romantico, non intenda affrontarlo questo conflitto, o quanto meno individuarlo, non è cosa che necessita esplicitazioni. E che la lirica sia ancora lontana dal manifestare realtà o dal trasmetterla, lo nota anche Luca Mozzachiodi in un articolo sul centenario di Giovanni Giudici, intimando di «diradare le nebbie del sublime» per calarsi, di petto, nella quotidianità dell’esistenza.

Beach things IV, 2022
Singular II, 2022

Questo libro intercetta già le questioni che due anni dopo verranno esposte in Prosa in prosa, antologia di cui Raos fa parte. Diciassette anni dopo, anche alla luce delle discussioni e della teoria di Prosa in prosa e successive (se si può dire che ce ne sia stata, ma prego l* lettor* di farmelo presente nel caso fosse mia deficienza), credo che la situazione sia sostanzialmente immutata. Mi sembra che la scrittura di ricerca sia rimasta impantanata in questioni pressoché irrisolvibili: il superamento della soggettività, referenzialità al grado zero, l’autonomizzazione della lingua, disarticolazione come innesco semantico… tutte questioni importantissime – ma che nella prova delle opere danno, a mio parere, pochi buoni risultati, pochissimi memorabili, nonostante siano strumenti entrati ormai nella cassetta degli attrezzi base della teoria. Dall’altra parte (tracciando due macrocategorie di comodo, certo, ma che pure agiscono nel campo), nelle scritture assertive, liriche, della linea e dello stile che si vuole, fanno libri. Libri che, per chi voglia fare critica con in testa quei due severi tirati in causa prima, fanno perdere tempo prezioso. Mancano proposte organiche, ricerche che apportino riflessioni concrete alla problematizzazione delle poetiche. Dico una cosa con estrema sincerità, non me ne voglia nessun*: è stancante leggere sempre le stesse cose. Il libro di Raos mi interessa perché ha una serie di significati inespressi che emergono grazie all’integrità dell’opera, al suo doverla leggere materialmente in verticale in alcune parti (tecniche combinatorie che rientrano anche in altri libri di Raos), a dover rintracciare le voci che si affastellano con una disposizione tipografica tutta da scoprire. È una struttura triplice: oggettuale (come forma libro), narrativa, linguistica. E la collaborazione delle componenti è uno scontro di particelle atomiche che va tutto ricostruito. Aggiungici le variabili semantiche del contenuto, ci fai un sei mesi di ricerca come minimo.

Per confessare un’ultima riflessione che porto dietro dal primo approccio alla contemporaneità poetica (vista nel lungo periodo, dal secondo Novecento), credo che anche la vulgata contrapposizione tra la poesia di ricerca e la lirica (che tiene dentro quasi tutto), debba essere criticamente disinnescata. Ma soprattutto, certa poesia, soprattutto delle generazioni più attempate, deve arrendersi al fatto che la postura da poeta lirico, dalla lunga tradizione decadentista, a gran parte della mia generazione risulta nient’altro che ridicola. Lo diceva Pintor nei primi anni ’40 che le nuove generazioni non hanno di bisogno di oracoli e teologie poetiche. Le zone interessanti stanno nell’ibridazione non artificiosa degli strumenti e nella non esclusività dei materiali. I residui di crocianesimo che la cultura poetica italiana riproduce hanno ancora il monopolio del gusto diffuso, e alimentarlo non può che far stagnare la media poetica in un lirismo bucolico tragico-sentimentale che nasconde i tentativi più organici.


L’apparato iconografico comprende le opere di Gabrielle Raaff, South African, b. 1970.
Le sue opere si possono trovare nella galleria online Uprise Art con sede a New York.

Matteo Cristiano (he/him), 1997, è dottorando presso l’Università di Firenze con un progetto su poesia e impegno nel secondo Novecento. Si occupa di poesia del Novecento e contemporanea attraverso paradigmi socio-culturali di ambito marxista. Per lay0ut cura, insieme ad altr*, la rubrica di poesia inedita e poetica Presa d’aria.