Breve storia delle voragini – racconto inedito di Mauro Tetti | Opera morta

L’opera morta è la parte emersa di uno scafo. È lo spazio che occupiamo su una nave, mentre sotto di noi l’opera viva, i motori, le eliche si affaticano e ci trasportano senza farsi notare. La parte vivente della nave si muove a noi indifferente, come noi lo siamo a lei, dimentichi di essere ospiti, niente più di un carico.  
A meno che tempeste, rocce, iceberg non intervengano a ricordarcelo.
È nell’indagine sul rapporto del reale con tutto ciò che è occultato sotto e intorno a noi, con ciò che si intravede nelle fratture che crepano la parte visibile del mondo – il rapporto, il conflitto, tra opera viva e opera morta –, che risiede il senso profondo di questa rubrica di racconti inediti. Per questo intendiamo superare etichette, distinzioni e concetti di genere, accogliendo tutte le possibilità che il racconto offre: dalla narrazione realistica al fantastico e al weird, dal racconto impegnato a quello intimistico, dalla microfiction alle commistioni con la saggistica.
I fari che guideranno la nostra ricerca sono la letterarietà e la sperimentazione. Con letterarietà intendiamo l’uso consapevole e coraggioso della lingua e la ricerca di una propria voce di scrittor* (che può essere urlata, sussurrata, persino negata). E poi la sperimentazione: propendiamo per autor* che osano, che offrono punti di vista inediti, disturbanti, profetici.
Breve storia delle voragini di Mauro Tetti è il secondo racconto di Opera morta. Il primo è L’ultimo Gaijin di Cesare Sinatti.

A cura di Claudio Bello e Daria De Pascale


J’ai peur du sommeil comme on a peur d’un grand trou,
tout plein de vague horreur, menant on ne sait où.

Charles Baudelaire

(Roma) Mira si era svegliata con le allucinazioni. Venivano da un sogno e il sogno veniva da un libro.

Era sceso il tramonto sul Parco delle Terme di Traiano, la voce delle bambine tremava e si perdeva tra le foglie. I lampioni ravvivavano piccole nuvole di insetti. Gli operai chiudevano l’area archeologica e ridevano per qualche battuta sconcia. C’era stata altre volte al parco, le capitava di percorrere le stradine asfaltate intorno alle terme, per poi sedersi su una panchina e aspettare che intorno a lei tutto si animasse: signore nascoste come ladri dietro i cespugli, chine sui gratta e vinci; un giovane soldato in congedo incollato alle labbra dell’innamorata; un bambino che gioca con un grosso verme della terra stringendolo nel pugno fino a farlo scoppiare; o i turisti con le bandierine che tornano agli alloggi, verso Termini, alcuni di loro pronti a scomparire dietro porte mai aperte, in qualche rientranza nascosta della città. Ho fatto un sogno, le aveva detto il signore canuto dietro il banco dei libri, parlava sottovoce e allargava le mani sopra i volumi esposti: Sempre lo stesso sogno, era una casa dove conoscevo ogni stanza come se ci abitassi da sempre, ma sono sicuro di non aver mai visto niente di simile. Sopra i mobili c’era uno strato di polvere e tutti i pavimenti e i muri erano bucati, comparivano aperture più o meno profonde che non portavano a nulla. L’uomo non era più sicuro, così aveva detto a Mira: Non sono più sicuro se l’ho sognato o se l’ho letto qui. Lo diceva porgendole un volume ingiallito, Histoire des mes abîmes di Sinforiano Séquélas. Questo?, aveva chiesto Mira, inclinando il capo e sorridendo, attratta dall’eleganza con cui l’uomo maneggiava i libri. Quanto costa? Se mi dà cinque per oggi ho finito, aveva risposto l’uomo, la cui espressione, invece, non era mai cambiata.

Qualche giorno dopo la lettura del libro, Mira aveva iniziato a sognare la casa, ogni notte le stesse stanze, gli stessi varchi aperti sul pavimento, gli stessi spifferi.

Michele l’ha osservata per un po’ fingendo di essere turbato, ha aspettato che finisse di parlare per chiedere altre informazioni sull’uomo che le aveva venduto il libro, Chi era questo? Perché me lo stai raccontando? Lei l’ha bloccato infastidita. Michele non avrebbe capito, chiuso nel vortice degli impegni universitari, i convegni, gli articoli, i matematici messicani da recuperare all’aeroporto, i dolori alla cervicale, la puzza di piscio dei colleghi più anziani. Mira, devo essere in dipartimento per le nove, ha detto. Mira, devo andare. È richiesta la mia presenza. Dormo ancora un po’, ha detto lei, rigirandosi di lato. Invece dovresti tornare in facoltà, è imbarazzante, ha risposto Michele.
Come era arrivata fino a lì? L’università, il dottorato, le stanze in affitto, Cagliari, Roma, la metro all’alba, le biblioteche, l’infatuazione per il professore. Eppure all’inizio era diverso: lui, brillante direttore del dipartimento di Logica e Filosofia, già preside in pectore appena cinquantenne, l’aveva seguita durante la tesi e gli anni di ricerca con una certa attenzione, le aveva insegnato a comprendere l’algebra, l’algebra quantistica, la fisica, la poesia. Gli occhi di lui brillavano quando vicino alla piccola finestra, nell’aula male illuminata del dipartimento, parlava di Heisenberg e della notte delle intuizioni nell’isola vergine nel Mare del Nord, in quel 7 giugno 1925, davanti alla distesa d’acqua pronta a esplodere. Forse piangeva quando spiegava il principio di indeterminazione, o recitando Shakespeare, immaginando il folle Lear che tiene in braccio Cordelia e si dispera e parla:

So we’ll live,
And pray, and sing, and tell old tales, and laugh
At gilded butterflies, and hear poor rogues
Talk of court news, and we’ll talk with them too —
Who loses and who wins; who’s in, who’s out —
And take upon’s the mystery of things,
As if we were God’s spies.

Mira si sarebbe accucciata in un angolo della stanza in quei momenti, ad ascoltare il professore e la sua poesia invisibile, immaginando di essere invisibile lei stessa.
Quando Michele è uscito di casa, Mira ha preso a masturbarsi ferocemente sotto le lenzuola, senza pensare a lui o al suo corpo, ma a qualcosa di più grande e cerebrale, l’insieme delle cose pensate nella vita, la casa di Sinforiano, le notti a Helgoland, Cordelia, la voce di Lear e Cordelia morta, i libri letti e gli infiniti libri da scrivere.

Sul tavolino del soggiorno Mira teneva qualche titolo segnato sulle carte, insieme a note, citazioni, vecchi appuntamenti e impegni universitari, risalenti a qualche mese addietro; la breve Histoire des mes abîmes di Sinforiano Séquélas, un vocabolario della lingua francese, e una lista di nomi legati a patologie neurodegenerative o a intossicazioni da sostanze, didascalie, sintomi. Non suonavano strani quei nomi, si aggiravano da giorni come una nuova luce sulle pareti, ne era attratta: allucinazioni da perdita, sonno, morfina, febbre. Era passata una settimana prima che Michele tornasse, ma quella sera era diverso, era sceso un silenzio immobile, una lucina rossa aveva lampeggiato per qualche secondo fuori dalla finestra su via Merulana, un ubriaco in strada aveva urlato che gli si stava fermando il cuore, ma la voce si era persa in un gorgoglio tremendo. Michele si è alzato per pisciare e si è fermato sulla catasta di fogli sparsi sul tavolino del soggiorno: in alcuni comparivano forme geometriche; vicino ad altre carte c’era il libro, il nome di Sinforiano Séquélas. Michele l’ha preso e aperto in un punto a caso. Era buio. A fatica ha letto alcune righe barrate a matita: Je me sens emporter. C’est comme être hors d’une grande pièce et se voir à travers un trou dans le plafond, ou comme être Dieu observant d’en haut. Ma lentamente Mira era scivolata nella stanza buia, senza fare rumore la sagoma si è bloccata nel silenzio, immobile all’ingresso del soggiorno. Non parlava. Michele l’ha intravista e come per riflesso ha lasciato cadere il libro. Se fosse entrata facendo rumore, ha pensato lui, se d’improvviso si fosse gettata su di me con l’intenzione di mettermi paura, non avrebbe avuto l’effetto desiderato. Invece quell’ombra è rimasta lì per confondermi, senza dire una parola o muovere un muscolo, come una giacca appesa che si scambia per la sagoma di un ladro, immobile nella semioscurità dell’appartamento. Nelle ore successive i piccoli rumori della città erano entrati nella camera da letto amplificati e continui: una bottiglia che rotola sull’asfalto, un altro gorgoglio di bocche, due prostitute che giocano con un coltello: Michele non ha più dormito, credendo di sentire non distante dal cuscino il tum tum continuo di un tergicristalli.

Aumentavano così le attenzioni per la nuova vita di Mira, che da qualche tempo ruotava esclusivamente intorno al libro. Sfogliare, leggere, memorizzare, non un semplice interesse che cresce dentro, ma qualcosa di più simile alla conquista: ora dopo ora, giorno dopo giorno, la necessità di possedere le immagini, gli spazi tra le parole, i vuoti. Aumentavano così anche gli stati di delirium, o qualsiasi cosa fossero, deprivandolo del sonno naturale fino a sfinirlo. Michele ripensava alla triste vicenda di una collega americana: se Mira continua ad assentarsi in dipartimento penseranno che ha fatto la fine di Karen, o peggio, se l’insonnia persiste sarò io a fare la fine di Karen.
(Nashville, Vanderbilt University) Era il 2016 e Karen Taylor, ordinaria di Filosofia, iniziava ad accusare i primi sintomi di quella che successivamente fu riconosciuta come grave psicosi. Durante un seminario si alzò in piedi per un intervento e parlò per qualche minuto in una lingua che nessuno dei presenti conosceva; nei giorni successivi Karen fu vista alla 221, la Central Library dell’istituto, circondata di libri e in preda a un delirio di voci allucinatorie, mentre sosteneva di essere in contatto con l’anima di Henry James. Karen scrisse senza sosta per due settimane, cadde svenuta sopra una pila di fogli e non disse più una parola. Il romanzo fu pubblicato con il titolo The Last James, per gentile concessione dell’editore scientifico che la seguiva durante gli anni di ricerca. Pochissime le attenzioni al libro, e solo in un articolo si accennava al fatto che il romanzo avesse uno stile incredibilmente vicino a quello dello scrittore newyorchese. Michele ripensava alla vicenda con un senso di sconforto per la povera Karen, la cui storia fino a quel momento non aveva suscitato in lui alcun atteggiamento compassionevole, anzi.
Guardava il traffico serale nella città, gli occhi indeboliti dalla stanchezza, ora ogni gesto o pensiero era rivolto altrove, fuori da sé e tra le quattro mura di un sogno. Fingeva di dormire e puntualmente si alzava diretto verso il bagno, ma giunto al tavolino del soggiorno si chinava sulle carte illuminando con la luce bianca del telefono, metteva gli occhiali e leggeva. E più leggeva e più era attratto da quel racconto, tanto che Mira iniziava a rilevare nuove note ai margini che non ricordava di aver scritto:

Qui si racconta di Sinforiano Séquélas di Montignac, minatore a Monteponi dal 1869 al 1874 (Sardegna sud-occidentale). La Società Monteponi Miniere fu creata nel 1850 da un gruppo di imprenditori genovesi decisi a investire nell’attività estrattiva nei territori dell’Iglesiente. Dopo alterne vicende che la vedono protagonista di investimenti e di partecipazioni ad altri gruppi societari, si fonde nel dicembre del 1961 con la Montevecchio. Pochi seppero del grave incidente avvenuto il 23 settembre 1873: tacquero le autorità di polizia mineraria e l’azienda titolare della concessione (Miniere di Monteponi). Alle ore 15,30 un’enorme frana si staccò dal pozzo principale, ostruendo l’uscita di una delle gallerie a settantacinque metri di profondità. Uno degli addetti al tornichello morì sul colpo, il petto perforato da un manico che era parte dello stesso attrezzo di lavoro; altri tre minatori rimasero intrappolati in quella prigione sotterranea. La mole di materiale roccioso ostruì per quindici metri in altezza l’unico accesso alla galleria. Una squadra di soccorso si mise al lavoro nonostante la società mineraria ritenesse impossibile attuare un piano di salvataggio, considerando le vittime già morte sotto le macerie. Ai lavori si aggiunse l’abile caporal maggiore della miniera di Monte Agruxau (Società Vieille Montagne) Sinforiano Séquélas, nato in Francia (Montignac), appena ventinovenne e richiamato nelle miniere di Iglesias come sostituto. Il giovane Séquélas non ascoltò la direzione, propensa a sospendere i soccorsi, e proseguì il massacrante lavoro di scavo, aprendosi un varco attraverso una seconda galleria di un pozzo adiacente. Passarono quattro giorni e Sinforiano scrisse il proprio nome con le unghie sulla parete di roccia, cadde a terra stremato e privo di coscienza: il varco era stato aperto. Alle ore 11 del 27 settembre venne liberato il primo dei tre minatori sepolti, gli altri due videro la luce alle ore 18. Per novantotto ore chiusi in un pozzo nero di miniera, soffocati da un principio di carboniemia, ma sopravvissuti. Del caporal maggiore Sinforiano Séquélas dissero: «In mezzo allo sbigottimento del personale dirigente e operante delle miniere di Monteponi, non esitò un momento di prestarsi alla pietosa opera e seppe tanto maestrevolmente continuare nella direzione immediata dei lavori, compiendo la fausta liberazione dei tre infelici minatori».

Tutto ciò che seguiva aveva una forza violenta e dirompente, traboccava dalle pagine imprimendosi come un’allucinazione unica e distinguibile, con la certezza che andando avanti la realtà si sarebbe fatta più criptica. Invece poi il culmine dell’esperienza di lettura coincideva con brevi apnee e ischemie transitorie che davano alla mente la sensazione di capire ogni cosa: gettavano luce su tutto ciò che lo circondava e sui propri pensieri. Si aprivano piccole aperture nel pavimento, intorno si creava il vuoto. Quando la sagoma di Mira si è ripresentata all’ingresso del soggiorno, nella penombra, lui ha continuato a sfogliare il libro seduto per terra, fuori dalle finestre solo i lumi dei lampioni e un silenzio innaturale, come se la città fosse in un altro luogo; come se le abitazioni intorno fossero state sostituite da una foresta priva di vita, dove gli alberi si ergono immobili e senza respiro, e ogni animale è fuggito portando via i suoni, lasciandosi dietro un vuoto pneumatico. Mira si è seduta accanto a Michele sul pavimento, lui non si è mosso, fingendo di continuare a leggere e tradurre. Ne so qualcosa, ma non molto, ha detto Mira. Carte, date, nomi di strade, una casa che mi appare in sogno continuamente. Quest’uomo. È solo la vita di un uomo. No, ha alzato la voce Michele, aprendo un nuovo buco nella quiete. È come un… non riusciva a pronunciare quella parola. Ti consiglio di smettere, ha detto lei, allungando le mani sul libro. Non pensarci neanche. Ora mi dici tutto.
Ma nella mente di Mira solo un nome e altre parole enigmatiche battevano fino a procurarle dolore: Sinforiano. Non so altro, ha detto Mira. Sto facendo delle ricerche, ho contattato medici, ho assunto farmaci. Non cambia molto.
E la casa, quella del sogno?, ha chiesto Michele.
Uguale, ha risposto Mira. La casa è sempre la stessa, ogni dettaglio si ripete pari pari al racconto.
Fissava gli occhi agitati di Michele, ormai riusciva a guardarci dentro: ogni debolezza attraversava la carne e traboccava dalle orbite per mostrarsi e perdersi. Mentre parlava ha allungato velocemente il braccio fino a sfilargli il libro dalle mani. Non toccarlo, ha intimato lui. Lascialo qui. Il silenzio della stanza e della città ha amplificato il volume delle voci e il battibecco si è trasformato in un’emissione di suoni fuori tono, in un attimo erano uno addosso all’altra e il suono è diventato un grido. Michele stringeva i polsi di Mira immobilizzandola sul pavimento. Se mi tocchi ti ammazzo, ha detto lei. Lui continuava a stringerla, più forte di prima e senza guardarla negli occhi. Preso da nuove forze fino a quel momento sconosciute ha trascinato Mira nella camera da letto. I fogli su cui Michele aveva iniziato a tradurre si sono sparsi sul pavimento. Cosa vuoi fare?, ha chiesto Mira, ma tutto si perdeva in un filo di voce che faticava a uscire. Michele si è mosso con gesti violenti, ha sfilato la chiave dalla serratura e si è chiuso dietro la porta, accasciandosi sul pavimento. Il respiro di Mira era così forte da attraversare i muri.
Per tre giorni e tre notti, che potevano pure invertirsi o andare alla rovescia, per quel che importava, per tre notti e tre giorni la porta è rimasta chiusa a chiave.
Staremo così per sempre, ha pensato Michele, le porterò acqua e cibo ogni giorno. Ha raccolto i fogli e li ha ordinati in una nuova pila che appariva inspiegabilmente più alta delle precedenti. Ha aperto il libro e atteso che il cuore riprendesse a battere a un ritmo più naturale, ha messo gli occhiali e ricominciato a scrivere sui bordi bianchi delle pagine:

In un resoconto del 1874, scritto in seguito al peggioramento delle condizioni dei minatori e al grave incidente dell’anno precedente, vengono elencate alcune delle malattie più frequenti che affliggevano gli operai. Una parte di questo resoconto era sparita per anni, chiusa in qualche cassetto senza motivazioni, riemersa poi dal nulla grazie alla stessa azienda titolare delle concessioni, che evidentemente ritenne inutile il protrarsi della censura. Nella parte nascosta del testo appare il nome di Sinforiano Séquélas. Ecco le prime righe: «Il progresso e la consapevolezza dei diritti umani deve incentivare la lotta per modificare gradatamente le condizioni di lavoro dei minatori. Affinché rimanga il ricordo, perenne, incancellabile, negli occhi di chi ha vissuto, giorno dopo giorno, nelle viscere della terra, e combattuto ad armi impari contro il costante pericolo dei crolli nelle gallerie a centinaia di metri di profondità, dei gas velenosi e delle terribili malattie invalidanti e mortali». Nell’elenco appaiono nomi impronunciabili come: silicosi, fibrosi polmonare, enfisema polmonare, bronchite, dolori reumatici, scabbia; e ancora, in diversi soggetti analizzati si sono manifestate allucinazioni uditive e visive: da qui inizia la parte nascosta del resoconto. In un paziente in particolare, il giovane Sinforiano Séquélas, di anni trenta, sono state riscontrate diverse manifestazioni di questo stato allucinatorio.

Il primo giorno Mira ha pianto, nella stanza chiusa si aprivano buchi che sembravano inghiottirla, i fori più piccoli apparivano come solchi pieni di pupille e materia biancastra, si muovevano simultaneamente per guardare in tutte le direzioni; i più grandi non avevano fondo e davano le vertigini. Michele ha continuato a leggere tutti i sintomi allucinatori di Sinforiano, gli spostamenti nei labirinti di roccia del sud Sardegna, gli incidenti, il salvataggio, i sentieri che l’uomo aveva percorso negli ultimi anni di vita, la malattia mentale. Il secondo giorno Mira ha smesso di piangere, ha chiuso gli occhi e ficcato la testa tra le ginocchia, ha chiesto a Michele di liberarla, le allucinazioni non sembravano diminuire ma ora erano meno fastidiose. Nei muri bianchi e uniformi della stanza, privi di strutture, il cervello di Mira cercava ripetizioni visive per dare senso a ciò che vedeva. A quel punto partivano nuovi sogni a occhi aperti. Michele ha letto a voce alta una nuova nota nel testo:

Séquélas è convinto di abitare in una casa in cui è difficile distinguere alto e basso, il soffitto dal pavimento; su ogni lato è incastrato in maniera incomprensibile un appartamento uguale e perfettamente simmetrico, così il paziente abita ora in sette appartamenti legati fra loro, e passeggia in ognuno di essi senza capire quale sia la struttura originaria. Séquélas sostiene che l’appartamento sia pieno di spifferi e che il tempo non esista, «Si aprono voragini» afferma; riferisce che ogni angolo della casa diventa un pozzo, ogni anta o porta un mondo nuovo da esplorare. Il paziente ora ha paura perfino ad aprire una porta o ad attraversare un qualsiasi varco, convinto che al di là ci sia il vuoto; è costretto a lanciare piccoli oggetti dentro i buchi prima del suo passaggio, e spesso gli oggetti lanciati non vanno lontano ma ricadono ai suoi stessi piedi, altre volte in testa. È in preda ai deliri della geometria.

Il terzo giorno Mira era in perfetta sintonia con le allucinazioni che riempivano la stanza di buchi profondissimi, non rispondeva più ai richiami di Michele, intenta a giocare nella sua prigione con le visioni che la mente produceva. Michele era sfinito, si è seduto ancora dando la schiena alla camera dove la teneva rinchiusa, ha sussurrato qualcosa e scarabocchiato alcune formule su un foglio. Devo lavorare, ha detto, pensando di trovarsi in un’aula universitaria. Ha girato la chiave nella toppa. Mira ha aperto lasciandolo cadere sul pavimento freddo. Ha raccolto alcune cose, pc e telefono, ha messo Histoire des mes abîmes dentro lo zaino e si è diretta verso l’uscita con l’intenzione di non rivederlo mai più. Michele le veniva dietro carponi, chiedendo scusa come un mendicante chiede un tozzo di pane. Stai tranquillo, ha detto Mira con una calma imprevista, ma la voce nascondeva altri pensieri. Intanto si apriva un solco profondo al centro del soggiorno, una fenditura pulsante con i bordi curvati verso l’interno. L’allucinazione era condivisa da entrambi. Ti consiglio di non caderci dentro, ha detto Mira, è molto profondo, dentro ci vivono le anime dei codardi. Aveva il viso rilassato di chi ha di nuovo la situazione sotto controllo. Michele si è avvicinato alla parete per non venire risucchiato dal buco. Rischiava di scivolare fino all’orlo, con le gambe che penzolavano nel vuoto. Non si sa come ma riusciva a sentirlo, il terribile buio che si allungava verso di lui per afferrarlo.

Fuori dalla casa la città pullula di esseri: nei cimiteri fosforescenti centinaia di gatti inarcano la schiena per un combattimento disordinato che precede l’accoppiamento; due suore scalze invitano i turisti a entrare nei corridoi stretti di un convento, dove nelle pareti hanno murato gli scheletri degli anonimi annegati nel Tevere, sotto di loro uno stanzone vuoto e inaccessibile dove i lampadari sono fatti di ossa umane e pendono dal soffitto carichi di ragnatele; sui ponti, la sera, i suonatori d’armonica soffiano con le bocche insanguinate. Da qualche parte un uomo precipita, da qualche parte una donna scrive di lui.

(Breve storia delle voragini fa parte di una biblioteca in costruzione. Sinforiano Séquélas è apparso anche qui)


Mauro Tetti nasce nel 1986 a Oristano, è laureato in Lettere moderne. Nel 2010 la compagnia Riverrun di Cagliari porta in scena il monologo teatrale Adynaton. Nel 2013 vince il premio Gramsci con la raccolta di racconti intitolata Bestiario. A pietre rovesciate (Tunué 2016) è il suo primo romanzo. Ha curato la parte letteraria delle guide (Sant’Elia, Giorgino) della collana Nonturismo di Ediciclo Editore (2020, 2021). Ha tenuto workshop e laboratori di scrittura nell’ambito di progetti culturali legati al territorio (Roma). Altri racconti sono pubblicati su «minima&moralia», «L’inquieto», «TerraNullius», «Nazione Indiana». Nostalgie della terra (Italo Svevo Edizioni 2021) è il suo ultimo romanzo.