Diaphora #1 — Platone poeta d’amore?

1. Diaphora: margini della poesia

Si potrebbe scrivere una storia della filosofia occidentale partendo dall’aneddoto per cui Platone avrebbe dato alle fiamme i suoi scritti poetici giovanili prima di volgersi alla ricerca filosofica sotto il magistero di Socrate. È Platone stesso, d’altronde, a parlare di una “antica contesa” o “differenza” (palaia diaphora) tra poesia e filosofia, nel momento in cui tenta di fondare, in prosa, un genere adatto a contenere le pratiche discorsive ibride del dialogo, all’incrocio tra scienza, retorica, mito ed estasi iniziatica. Sul solco di questa differenza si muoverà Diaphora, nuova rubrica che, affiancandosi a Neolatina, proporrà nuove traduzioni poetiche dal greco e dal latino, concentrandosi su testi al margine della tradizione filosofica, in cui una sutura sembra ricomporre la frattura tra poesia e filosofia così drasticamente incarnata nella vita e negli scritti di Platone.

2. Platone e gli epigrammi dell’Antologia Palatina

Una serie di tradizioni testuali differenti, in massima parte confluite nell’Antologia Palatina – una collezione stratificata nei secoli tra l’età ellenistica e il medioevo bizantino – ci tramanda un piccolo corpus poetico attribuito al filosofo Platone. Il genere di questi componimenti, in tutto una trentina, è l’epigramma, forma che conosce la massima fioritura in epoca ellenistica, e che si contraddistingue per la concisione con cui uno spunto poetico di corto respiro è fissato in pochi raffinatissimi versi.

Che gli antichi abbiano pensato di poter rubricare sotto il nome di Platone poesie che, all’occhio moderno, risultano più o meno palesemente contraffatte, è già di per sé fatto degno di interesse. L’aspra condanna alla poesia imitativa condotta su basi etiche, teologiche e ontologiche nella Repubblica, insieme al ritratto irriverente dei cantori di tradizione omerica nello Ione, resta in un rapporto di aperta problematicità con la natura mimetica degli stessi dialoghi platonici e con il malcelato ardore poetico che accende i passi più alti di opere come il Fedro, il Fedone e il Simposio.

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Anselm Feuerbach, Symposium, 1869.

Per spiegare questo nodo all’apparenza insolubile, la tradizione antica sembra quasi aver ricostruito dal sintomo il trauma, in una serie di notizie biografiche – dal sapore tanto autoschediastico quanto seducente – sulla conversione di Platone dalla poesia alla filosofia, che Diogene Laerzio ci tramanda nella sezione del libro III delle sue Vite dei filosofi dedicata alla giovinezza da Stürmer und Dränger di un Platone tragediografo e seguace di Eraclito:

C’è chi dice che abbia gareggiato nella lotta ai giochi istmici […] e che si sia dedicato al disegno e a scrivere poemi, dapprima ditirambi, e poi anche lirica e tragedie. E dicono che fosse debole di voce […] Filosofò dapprima nell’Accademia, poi nel giardino nei pressi di Colono […] seguendo la dottrina di Eraclito. Ma poi, quando era sul punto di partecipare con una tragedia agli agoni drammatici, dopo aver ascoltato Socrate davanti al teatro di Dioniso, bruciò le proprie opere dicendo:
 
       “Oh, Efesto, soccorrimi: Platone ha bisogno di te!”

Con questo verso di invocazione al dio eracliteo per eccellenza, personificazione del fuoco, dovrebbe essersi conclusa la carriera stricto sensu poetica di Platone. Tuttavia, in un altro aneddoto inserito da Diogene nella narrazione, è riportato un sogno apparso a Socrate alla vigilia dell’incontro con quello che sarebbe diventato suo allievo, nelle cui immagini si vede inscritta la sorte del giovane Platone, destinato a liberare la propria indole poetica in un distacco dall’insegnamento del maestro:

E si dice che in sogno Socrate si sia visto sui ginocchi un piccolo di cigno, che, subito messe su le penne, avrebbe spiccato il volo cantando dolcemente; e il giorno dopo Platone si sarebbe aggiunto al suo seguito, e Socrate avrebbe detto che era lui quell’uccello.

Ma incurante – fortunatamente per noi – di dare organicità e coerenza alla massa di aneddoti raccolti, più avanti nel racconto Diogene riporta la notizia dell’amore di Platone per un giovane di nome Astro, con cui il filosofo avrebbe speso lunghe notti a contemplare la volta celeste. E secondo la sua fonte, un certo Aristippo (che purtroppo sembrerebbe non combaciare con il cirenaico contemporaneo di Platone), proprio a questo giovane sarebbero dedicate alcune poesie d’amore. Ma sia qui che nell’Antologia Palatina, agli epigrammi per Astro si aggiungono, tra gli altri, quelli per Dione, Fedro e Agatone, ed è proprio il name-dropping così apertamente ammiccante alla biografia del filosofo a destare maggiori sospetti di pseudoepigrafia, oltre alla vicinanza al genere dell’epigramma erotico il cui pieno sviluppo sarebbe stato successivo alla morte dell’autore.

Rimanendo agnostici sulla questione dell’attribuzione, qui di seguito proponiamo una nuova traduzione degli epigrammi riportati da Diogene. Un Platone che, armato delle più recenti conquiste della filologia, fosse stato in grado di confutare i suoi plagiari avrebbe sicuramente trattato con lieve ironia la faccenda. Ma ci piace pensare che, genuinamente toccato dalla bellezza di alcuni dei componimenti, avrebbe concluso in aporia il dilemma dell’attribuirseli o meno.

3. Contemplando gli astri con Astro (I)

Che lo scafato Platone potesse invaghirsi di un giovane dal pretenzioso nome di “Astro” preferiamo lasciarlo credere al compilatore. A un uomo che trovava bello il difficile, e che le forme andava a cercarle nell’oltrecielo, semmai si adatterà di più l’ipotesi di un senhal alla maniera degli elegiaci (ma nomi in codice e segnali di luce rimarranno un topos della tradizione epigrammatica fino alle sue riemersioni in età moderna, come nel caso del Campanino). In contraccambio, ci prendiamo la libertà di rendere il “πολλοῖς” del primo componimento con “infiniti” piuttosto che con “molti”: non solo perché più poetico, ma anche perché la cosmologia moderna, ben più di quella antica, contempla l’infinità dei corpi astrali.

4. Astro catasterizzato (II)

Astro, in vita e in morte, è la stessa stella sotto due nomi diversi: al mattino è Lucifero e inaugura la vita, mentre alla sera, col nome di Vespero, illumina il riposo ai trapassati. Non è poi un caso che questo corpo celeste, emblema, nella logica di Frege, della distanza che separa senso e denotazione (avendo nomi diversi con sensi diversi per uno stesso referente oggettivo), e che pertanto apre lo spazio alla poesia e alla sua rottura del principio di non contraddizione, sia noto ai Romani col nome di Venere.

5. Passione politica e pianto d’amore (III)

Sempre tramite Aristippo, Diogene ci tramanda un epigramma erotico-funerario dedicato alla morte di Dione, personaggio di spicco alla corte dei tiranni siracusani e discepolo di Platone, nonché suo alleato nel tentativo di instaurare un governo filosoficamente ispirato in Sicilia. Entrato in conflitto col tiranno Dionisio II, Dione si sarebbe ritrovato a guidare la fazione a lui avversa nella guerra civile che dilaniò per alcuni anni la città di Siracusa; ma, una volta preso il potere, Dione non ebbe modo di tradurre in realtà la città ideale del maestro: perse tragicamente la vita per mano di un certo Callippo di Atene, altro membro della cerchia platonica che fino a quel momento aveva capeggiato con Dione la rivolta.

L’epigramma, criticato dagli studiosi avversi all’attribuzione per l’oscurità dei passaggi logici, instaura nei primi due distici un confronto tra le Troiane dell’epos omerico, nate nella grandezza ma destinate da subito al pianto per i loro figli e compagni sconfitti, e la sorte repentina di Dione, colto da morte “dopo aver compiuto il sacrificio trionfale di opere belle”. Il paragone, pertanto, sembra implicare che il destino di Dione sarebbe perfino più lacrimevole di quello delle Troiane, perché spezzato proprio nel momento dell’impresa più virile; è chiaro infatti che le “opere belle” si riferiscono al tentativo, fallito, di attuare a Siracusa il modello politico della città ideale teorizzata da Platone nella Repubblica. Ma nell’ultimo distico si assiste a un trasferimento del compianto dall’ambito pubblico – il riconoscimento di Dione in patria – a quello privato. A questo punto, però, il paragone iniziale sembra ribaltarsi. Dione, travolto da un destino eroico, è glorificato, mentre il pianto muliebre tocca a chi resta in vita: possiamo supporre che sarà l’innamorato Platone, relegato alla condizione elegiaca dell’amante infervorato dalle imprese eroiche dell’amato, a versare un pianto paragonabile a quello di Ecuba e delle donne di Ilio su cui si apriva la poesia.

È pertanto sulle polarità tra attività e passività, maschile e femminile, ideale e reale, privato e politico che si gioca questo affascinante componimento, che riesce fresco pur nel suo riuso – forse maldestro – di immagini di repertorio; efficace soprattutto la stretta finale, che ha il suono di una fulminante confessione.

Le fonti, secondo Diogene, riportano che l’epigramma fosse inciso proprio sulla tomba di Dione a Siracusa. La tomba in questione – per chi se lo chiedesse – attende ancora di essere trovata.

Gli epigrammi

I.

Contempli gli astri, mio astro; oh, se io diventassi

       cielo, e con infiniti occhi potessi guardarti!

II.

Astro dapprima lucevi in mezzo ai viventi, aurorale;

       ora, morto, riluci a sera con i defunti.

III.

Lacrime e lutto per Ecuba e per le donne di Troia

       ha filato la Moira già da dentro la culla;

ma a te, Dione, giunto al trionfo di splendide imprese

       gli dèi sparsero al vento vaste e vane speranze.

E giaci nell’ampia patria, onorato tra i cittadini,

       tu che hai fatto impazzire d’amore il mio cuore, Dione.

I.

ἀστέρας εἰσαρθεῖς ἀστὴρ ἐμός· εἴθε γενοίμην

       οὐρανός, ὡς πολλοῖς ὄμμασιν εἰς σὲ βλέπω.

II.

ἀστὴρ πρὶν μὲν ἔλαμπες ἐνὶ ζῳοῖσιν Ἑῷος,

       νῦν δὲ θανὼν λάμπεις Ἕσπερος ἐν φθιμένοις.

III.

δάκρυα μὲν ῾Εκάβῃ τε καὶ ᾽Ιλιάδεσσι γυναιξί

       Μοῖραι ἐπέκλωσαν δὴ τότε γεινομέναις·

σοὶ δὲ, Δίων, ῥέξαντι καλῶν ἐπινίκιον ἔργων

       δαίμονες εὐρείας ἐλπίδας ἐξέχεαν·

κεῖσαι δ᾽ εὐρυχόρῳ ἐν πατρίδι τίμιος ἀστοῖς,

       ὦ ἐμὸν ἐκμήνας θυμὸν ἔρωτι Δίων.

Edizioni

Fava, Domenico: Gli epigrammi di Platone, Milano 1901.

Page, Denys Lionel: Further Greek Epigrams, Cambridge 1981.


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