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Figure da un sogno d’inverno – un racconto di Giuseppe Nibali

🎄 Quest’anno gli auguri di natale lay0ut li fa tramite un racconto inedito di Giuseppe Nibali: buona lettura 🎄


Pensierini per Natale

Dolce Natale a tutti voi.
Questo ha pensato e ora aspetta di arrivare da un lato all’altro del tragitto. È stanca ma ripensa alle sue mani tutte e due nel sangue, ai guanti azzurri grinzati, ché la vernice non se ne andava nemmeno sfregando e lei si era sentita soffocare, le narici sentiva come fossero di un toro buttare fuori sabbia e cenere.
Poi ha tremato e tu pensi: ha freddo, ha paura. Ma invece tremava e basta, come tremano gli umani, a un certo punto, di colpo, senza motivo.
Nella metro non sente che il dolore della luce: la mascherina la soffoca, naso e bocca sono pieni di muco verde. Adesso ha freddo, adesso sì che ha paura, ma incessante legge le notizie del Corriere tra le pubblicità del panettone: uccideranno tutte le nutrie. Nel silenzio in questi anni si sono riprodotte e adesso come specie aliena le cacceranno. Cerca altre informazioni, trova solo testate locali che riportano la notizia. Il sistema la reindirizza mentre la metro ferma in Duomo ed escono quelli dei regali all’ultimo minuto. Un animale, sullo schermo, è fermo in una smorfia orrenda, una coppia sul vagone ride e la nostra ragazza, la nostra meravigliosa protagonista che tu sai essere infreddolita e forse bella, che tu hai già edificato nella tua testa grazie a una più fitta attività neuronale nelle cellule a griglia, dove ha sede la creazione delle immagini, ecco, questa li guarda. Sta lì per una cosa come dieci secondi mentre superano i pali di trattenuta in rosso mattone e spariscono alla stazione Duomo, in centro a Milano.
Perché li ha guardati? Quali ricordi le hanno ferito il cranio? Non è la sua fermata ma vuole scendere, cosa la muove, ti chiedi. Forse pensi a un amore perduto, oppure al sangue che le legava i polsi.
Tranquillizziamoci.
Niente succederà in questo testo. Le sue mani nel sangue non devi considerarle un problema, non è un giallo, non ha ucciso. È infermiera. Non lo vede lei il sangue come tu lo vedi. Lei lo guarda e vede il lavoro e dentro il lavoro lei vede le ferie e i turni, le reperibilità, gli straordinari. I rumori che senti tu quando sei steso in sala operatoria e l’anestesista somministra il Propofol o il Diprivan sono la sua sala ricreativa, le macchinette davanti alle quali fare due chiacchiere.
Su Instagram divani cromaticamente assortiti, una grande stanza, poi la coppia, lei ha il pancione, il marito spinge e compare una bambina, dietro, con i palloncini, è scritto ERICA;
un cane a cui il padrone abbaia, la sua reazione esilarante;
una veduta aerea di Santorini;
la nuova gelateria, tra Corso Como e l’Isola;
bisogna studiare bene il greco: leggere Anacreonte, Plutarco, leggere Archiloco e Alceo, bisogna capire Saffo, quando ripartirà il contagio bisognerà ficcare la testa dentro i libri, ripassare a memoria quello che ha studiato al classico: Pòle tréikié ti dé me
Vede anche altro, ma non c’è tempo per questo. Porta Venezia. La metro è ripartita, il contraccolpo la riporta al racconto sul nuovo collega. Le hanno detto di Luca, quel ragazzone simpatico, dai che parla sempre, ma sempre di cazzi. Ecco, sua madre è stata uccisa dal padre.
Così le hanno detto.
E che è stato tipo un presepe, con le lucine che non si fermavano, che lui pensava si dovessero fermare, mentre chiamava la polizia e scriveva 113. E intanto che le raccontavano intubavano quella della stanza 107, e intanto che la intubavano lei creava nella mente la casa semidistrutta, come adesso sta facendo, sulla metro, sola in una fiume di persone, e vede l’amplificatore spaccato in terra, le carte, le carte che si hanno in casa chiuse dentro i cassetti, e non le sa nessuno. E nessuno davvero ne ha coscienza finché non sono sciaminate alla pazza per il cotto duro del pavimento. Durante le disgrazie. Il divano poi: calpestato dalla mandria di gnu passata di lì. Poi, finalmente, il presepe, eccolo lì. La prima cosa illuminata sono i piedi, ma sono luci intermittenti e fanno gioco al nostro discorso, così puoi immaginarle accendersi e spegnersi mentre saliamo dalle scarpe industriali da ginnastica fino al collo grasso.
Deve esserci stata una corsa, del movimento, perché la scarpa sinistra è per metà sfilata. Forse è stata la mossa fatta mentre la teneva alla gola, forse un inciampo. Sopra ha i pantaloni della tuta, acetati, neri, lisi. Un maglione pesante che però lascia scoperto il collo e poi lo stesso collo strozzato dalle lucine nere.
L’ultima volta che si accendono ci mostrano ancora qualcosa: gli occhi aperti inespressivi, l’umido sulle tempie e agli angoli della bocca. Lei si è figurata quanto ha potuto. Così è successo a noi.
Deve risolvere questa cosa delle nutrie. Fa sempre così, ogni inferno che crolla lei è convinta di poterlo risolvere. Ci sarà qualche cazzo su internet, qualche associazione, un sit-in? Non riesce a trovare nulla da nessuna parte. Instagram non ne fa menzione, Facebook è tutta una sequela di auguri e foto di famiglia. Avrebbe dovuto studiare meglio il greco. Si rimprovera, nella mente si colpisce. Le arriva un messaggio, lo sente in cuffia, sbircia le notifiche, sono già due: “Ehi”, “Sei uscita?”.
Non risponde.
Loreto. Torna su Facebook: Ancora profughi al confine tra Bielorussia e Polonia, per questo pensa a Lampedusa. Al Natale a Lampedusa, a cosa deve essere, per gli isolani e per i migranti che lì svernano e come Ibis riposano le ali nere.
Raccontano tutti sempre la stessa storia: lo dice Walter Siti, per esempio, prima in articolo e dopo lo ha ripreso in quel pastrano impubblicabile che è Contro l’impegno, ché Siti pensa che bisognerebbe astenersi dall’impegno e per dirlo pubblica una cosa impegnata. E questa cosa pubblicata è stata letta anche dalla nostra protagonista e adesso lo ha incamerato e ripete l’operazione mentre guarda una famiglia piena di buste di regali. Sono berberi, e quindi il velo, l’arabo come prima lingua ma marocchini, algerini, qualcosa del genere. Raccontano tutti la stessa storia, si diceva, i reduci.
Nella storia di A siamo nel deserto libico, venti persone dentro un camion che balla per le buche sulla strada. Il bambino è una bambina, una femmina, Myriam si chiama; non fa che piangere. La madre una donna velata, la nostra protagonista non crea il volto, per questo non lo leggi, ma la immagina dolce. Il guidatore è un uomo brutto, la barba scura macchiata di bianco, la panza sudata sotto la camicia giallastra in tinta col deserto che sotto le ruote sbuffa sabbia. Il pianto della bambina sta innervosendo il guidatore, si tortura la barba, parla, bestemmia, guarda ossessivamente nello specchietto il deserto, senza che nessuno si palesi e così io, la nostra protagonista, tu che leggi, sappiamo tutti che cosa sta per succedere: scende poco dopo, spalanca la porta, punta alla tempia della donna una pistola e le dice di scegliere, o le ammazza o lei abbandona la bambina. Nella scena successiva la bambina non è sul pullman, ci immaginiamo un fagotto lasciato sopra un sasso. I ragazzi hanno anche loro memorizzato la scena, la useranno nei loro racconti.
Nella storia di B siamo nel deserto afgano, trenta persone dentro un camion che balla per le buche sulla strada. Il bambino è un bambino, un maschio, Brahim si chiama; non fa che piangere. La madre una donna velata, la nostra protagonista non crea il volto, per questo non lo leggi, ma la immagina agitata e stanca. Il guidatore è un uomo brutto, la barba scura macchiata di bianco, l’ascella sudata della camicia giallastra in tinta col deserto che sotto le ruote sbuffa sabbia. Il pianto della bambina sta innervosendo il guidatore, si tortura la barba, parla, impreca, guarda ossessivamente nello specchietto il deserto, senza che nessuno si palesi e così io, la nostra protagonista, tu che leggi, sappiamo tutti che cosa sta per succedere: scende poco dopo, spalanca la porta, punta alla tempia della donna una pistola e le dice di scegliere, o le ammazza o lei abbandona la bambina. Nella scena successiva la bambina non è sul pullman, ci immaginiamo un fagotto lasciato sopra un sasso. I ragazzi hanno anche loro memorizzato la scena, la useranno nei loro racconti.
Turro.
È la sua fermata.
La Metro la lascia in una galleria del vento. Riparte.
Lei supera veloce il negozietto Sikh e la prima rampa di scale sulla destra. Davanti all’edicola si chiede se comprare o no un pacchetto di cicche. Visualizza una risma di banconote, l’apparecchio che le ha dato una dentatura perfetta. Il pensiero è interrotto dall’uomo che vuole venderle gli ombrelli. Un re magio piovuto in questa epoca che non capisce, dove il mercato capitalistico è vendere ombrelli quando piove. La nostra protagonista pensa alla sensatezza di questo gesto. Perché non vuole farlo? È tardi, ha freddo. È molto stanca. I contagi continuano ad aumentare. Fa gli scalini a due a due, come sempre le succede quando è sola, quando nessuno può guardarle il culo nella salita.
Nevica forte su Viale Monza. Doveva prendere quell’ombrello. Doveva comprare le cicche.
Superato il Carrefour gira a destra e prende Via della Torre, usa la sciarpa per coprirsi la testa e due passanti la guardano come fosse straniera, lanciati nella corsa sotto il buio rischiarato dai fanali. Ha fatto di nuovo la strada più lunga. Deve attraversare il ponte, passare dal monumento dei martiri di Gorla. Cinque metri di bronzo, un uomo incappucciato offre alla patria il cadavere di un giovane. Era il 20 novembre del ’44. Morirono duecento bambini, dice, Ecco la guerra, dice.
La neve ha cominciato a posarsi bene in terra.
La nostra ragazza come te non conosce il male, sa bene che tutto questo accade, ha fatto i compiti di scuola, per la mamma e per se stessa, ma non lo capiva.
È solo molto stanca. Sente secco il sangue che ha sulle mani. La stanca il lavoro, la sensazione di aver cominciato a lavorare troppo presto.
Forse lo stai pensando anche tu, che potevi rilassarti, passare con mamma più tempo, friggere le pittule per San Giuseppe e invece ti ha divorato un’ansia che non ti conoscevi. E adesso sei qui, come lei, a Milano e affretti il passo da una stazione metro all’altra chiudendoti nel giubbotto pesante.
Sai tutto e tutto ti interessa, hai letto anche tu che hanno iniziato l’eradicazione delle nutrie in Lombardia. Cominceranno ad ucciderle in provincia di Lecco. Continueranno a Monza e nel milanese. Si muoveranno bonificando le acque e da pozza a pozza arriveranno a liberare la Martesana.
Anche a te questa notizia ha fatto tenerezza.
Ci hanno insegnato l’empatia e noi l’empatia l’abbiamo capita, ma non capiamo il sangue sulle mani.
Hai anche tu, come lei, un’infarinatura dei fatti principali della storia e della filosofia, leggi libri comprati in Feltrinelli, ma ti stupisci ancora quando accade il male.
Non stupirti. Allunga il giro. A casa qualcuno ci aspetta. Aspetta te, me, la donna che qui ha pensato, l’infermiera. E questo è sufficiente.
Non ci diciamo cattolici, non andiamo a messa ma a Natale sentiamo che qualcosa di bene debba accadere. Se accade il bene possiamo dimenticarci della volta che abbiamo succhiato il nero la prima volta, bambini.
Non ti mentire.
Non dirti che non è successo.
Conosciamo dall’interno l’animale che siamo. C’è quel momento, eri in piscina o a scuola, stavi mangiando, correvi, studiavi, eri da nonna, da zia, a casa quando ti sei inginocchiato e alla fonte hai chiesto di bere il nero tra i muschi e qualcuno ci ha detto, che le forze sarebbero venute meno, che potevamo esplodere e paralizzarci ma noi abbiamo continuato, poi: respira, respira, e un po’ del nero lo abbiamo vomitato, il resto si è sedimentato.
Ma ci stiamo distraendo.
Lei intanto è arrivata al fiume. Si sporge per guardarlo. Dentro si agitano corpi nel buio. Ci sono i corpi e ci sono le tenebre.
Vuole tornare a casa. Salirà le scale due alla volta. Sicura che nessuno le guardi il culo. Ci abbracceremo a lungo, senza parlare. Non mi racconterà del suo lungo viaggio e così sereni raggiungeremo gli altri amici. Non è successo niente e niente dirà per tutta la sera.
Perdonate l’antifrasi, è vero. Nulla di quello che ha visto è accaduto. Non succede niente di ciò che si vede.

Copertina: Collage di Martina Santurri


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