La guerra delle immagini – Intervista a Kevin B. Lee

Bottled Songs è un progetto in fieri pensato e realizzato dal duo di artisti multimediali composto da Kevin B. Lee e Chloé Galibert-Laîné, un epistolario digitale aperto e plurale che, sulla scorta dei carteggi di Chris Marker e la ricerca saggistica e visuale di Harun Farocki, cerca attraverso due sensibilità e sguardi differenti di leggere e avvicinarsi alle immagini propagandistiche prelevate da video e film prodotti dall’ISIS. Nelle prime due parti, che saranno proiettate per la prima volta a Milano martedì 2 aprile al Cinema Beltrade nell’ambito della rassegna Indocili curata dall’associazione Tafano, Chloé Galibert-Laîné e Kevin B. Lee si confrontano a distanza, rispondendosi vicendevolmente attraverso i loro desktop, sulle posizioni e implicazioni dei loro sguardi quando gettati su delle sequenze di prigionieri siriani catturati dai militanti dell’ISIS o su un film di propaganda jihadista che nel linguaggio e nelle forme rassomiglia angosciosamente a un blockbuster hollywoodiano. I due desktop-documentary si interrogano sullo statuto ambiguo di queste immagini, che si muovono tra testimonianza diretta e messa in scena, lembi di realtà e manipolazione digitale, in una continua messa in discussione della carica trasfigurativa e conoscitiva di chi guarda. Come cavare un senso da queste immagini disturbanti? Come attraversare questa complessità di lettura? Ne abbiamo parlato con Kevin B. Lee, filmmaker, artista, critico e autore di oltre 360 video-essay che esplorano l’universo del cinema e dei nuovi media.


Luca Mannella: Un film come Bottled Songs 1-2 torna terribilmente attuale nel contesto di permanente fruizione mediatica della guerra, immagini che assediano ogni giorno i nostri sguardi (pensiamo subito al conflitto russo-ucraino, al genocidio israeliano in Palestina). In un contesto di terrore generalizzato, sembra che anche il vostro film nasca da una paura: il fatto di non saper leggere le immagini prodotte da un’organizzazione terroristica. Cosa ne pensi di questa complessità di lettura?

Kevin B. Lee: I video di Bottled Songs sono esattamente un documento collettivo sulla “difficoltà di leggere la complessità” dei contenuti mediatici che producono stati di terrore, come io e Chloé abbiamo sperimentato quando per la prima volta abbiamo studiato i video dell’ISIS. È vero, queste indagini sono caratterizzate da modalità narrative che aumentano l’insicurezza e la destabilizzazione in chi guarda, nonostante avessimo moltissime risorse per analizzare queste immagini. I video utilizzano tecniche di indagine desktop, con internet e software di montaggio video, attingendo al contempo a un background di storia del cinema e di analisi forense dei media. Si potrebbe pensare che queste risorse possano aiutarci a trovare un senso alle immagini inquietanti che incontriamo. Ma grazie a questo progetto mi sono reso conto che una certa pratica di analisi dei media fondata su una lettura ravvicinata delle immagini, che è quello che ho imparato in università e messo in pratica per molti anni come critico cinematografico e video-saggista, non è sufficiente. Diventa importante considerare le condizioni sociali, economiche e politiche in cui le immagini vengono prodotte, quanto il valore di verità che contengono. Questo coinvolge la produzione capitalista di stati di terrore sui media, in cui i servizi di informazione e le piattaforme di social media traggono profitto dalla diffusione di contenuti disturbanti per il consumo compulsivo dell’utenza, come abbiamo mostrato in Bottled Songs 1: The Observers.

LM: Le sequenze che analizzate sono immagini chiamate a «testimoniare contro sé stesse» (Harun Farocki)1. Con la differenza fondamentale che, a dispetto di qualche anno fa, la manipolazione delle immagini digitali e la loro circolazione su internet sembra far parte dello stesso processo creativo. Il vostro sembra quasi un tentativo di raggiungere una verità in un mondo di iper-immagini. Cosa ne pensi?

KBL: Apprezzo molto il saggio di Farocki a cui fai riferimento, e la sua convinzione che un’immagine possa ancora fornire prove documentarie che testimoniano una verità sottostante. Ma qual è questa verità quando le immagini vengono sempre più manipolate o generate artificialmente? Questo potrebbe essere il motivo per cui la mia citazione preferita nel saggio di Farocki è quella in cui dice che «un’immagine presente si relaziona con un’immagine assente»2. In altre parole, un’immagine dovrebbe suscitare la consapevolezza di ciò che sta al di là di sé per avvicinarsi a un grado superiore di verità. Ma è più facile a dirsi che a farsi.

guerra-delle-immagini-intervista-kevin-b-lee
Un frame da Bottled Songs 1: The Observers

LM: Perché siamo inevitabilmente attratti dalle immagini che ci spaventano? In cosa consiste il processo di decostruzione della paura che mettete in atto nel film?

KBL: Vivere attraverso i propri dispositivi online riduce le distanze e abbatte le barriere tra noi e il mondo. Questi dispositivi ci permettono di incontrare il mondo, compresi i suoi pericoli e i suoi traumi, con il rischio di esporci contro la nostra volontà. Non è un caso che alcuni degli esempi più conosciuti di desktop-cinema siano film horror come Unfriended o Host. Per quanto riguarda la decostruzione di questa paura, penso a un’altra citazione nel saggio di Farocki, quando riflette sulla sua ricerca sui film sull’Olocausto. Scrive: «Fui dunque molto grato per quelle immagini che mantenevano una certa distanza»3, ed è facile immaginare il perché. Ho provato a utilizzare questo sguardo a distanza per decostruire un video dell’ISIS in Bottled Songs: Looking into the Flames, trasformando il film in un elenco di inquadrature, analizzando i tagli di montaggio e confrontandolo con i film propagandistici di un secolo fa. Erano tutte tecniche con cui mi sentivo a mio agio, dato il mio background da studioso di cinema. Ma non posso dire di essere completamente soddisfatto del risultato, perché queste tecniche differenti mantengono un campo d’astrazione. Se vogliamo utilizzare tecniche in grado di creare una distanza critica dai materiali disturbanti, dovrebbero in qualche modo avvicinarci a una realtà materiale, fisica e connessa alla vita umana.

Un frame da Bottled Songs 2: Looking into the Flames

LM: Il desktop-documentary è un genere aperto, dove si guarda il film e allo stesso tempo viene mostrato il processo di analisi, come dentro un laboratorio del pensiero. Ci puoi parlare di questo filone, quali sono le sue potenzialità? Quali strumenti pensi ci possa dare?

KBL: Quando ho iniziato a usare il desktop-documentary, esso si presentava come un mezzo intuitivo, persino inevitabile, alla realizzazione di documentari in un’era in cui gran parte della vita viene esperita in uno stato virtuale mediato dagli schermi dei computer e dei telefoni. Mi piace il modo in cui riesce a visualizzare l’atto di creazione di senso come un processo, e come ogni clic del mouse, ogni scroll, ogni finestra aperta diventi una traccia dei pensieri del protagonista. I miei primi desktop-documentary, come Transformers: The Premake e la mia prima collaborazione con Chloé Reading // Binging // Benning, utilizzano il desktop come piattaforma per esplorare le possibilità dello spettatore e della critica online contemporanea di generare nuove dinamiche di potere attraverso il cinema, che si tratti di Hollywood o di un festival di cinema sperimentale. Ma con il progetto Bottled Songs penso di aver raggiunto un certo limite, perché ho iniziato a sentire quanto il desktop fosse claustrofobico rispetto a questo tipo di media, e ogni metodo digitale che utilizzavo in qualche modo intensificava la sua presenza tossica sul mio schermo. Questo potrebbe spiegare perché alla fine di Bottled Songs: The Observer Chloé “esca” dal desktop. Il nostro lavoro successivo si è concentrato di più su come il desktop riesca a dialogare con una pratica documentaristica più fisica e in carne ed ossa. Questo potrebbe ricollegarsi con il desiderio di Farocki di una “immagine assente” che si relazioni con l’immagine presente.

LM: Bottled Songs 1-2 è un carteggio digitale, l’incrocio di due sensibilità diverse attorno allo stesso tema. Qual è per voi il valore di riflettere collettivamente sulle immagini?

KBL: Chloé e io abbiamo iniziato a collaborare per imparare l’uno dall’altra delle pratiche per comprendere i mezzi di comunicazione di organizzazioni estremiste, e per offrici un sostegno reciproco mentre eravamo immersi in contenuti così angoscianti. Il dialogo può avvenire in modi e gradi diversi. La nostra pratica è stata influenzata da Chris Marker, come se ci stessimo scambiando lettere o cartoline durante i nostri viaggi virtuali attraverso l’universo online dell’estremismo. Se potessi rifare i video, vorrei che ci fosse di più uno scambio tra noi due all’interno del film, simile a quello che Jean-Luc Godard e Anne-Marie Melville mettono in pratica in Ici et ailleurs. Questo film è più attuale che mai, non solo perché parla del conflitto in Palestina, ma perché mette in discussione l’etica del suo impegno per esprimere solidarietà ai politicamente oppressi. È irritante e scomodo affrontare le contraddizioni che emergono quando si cerca giustizia contro le atrocità, ma da questi esempi del passato si impara che prima o poi bisogna confrontarsi con esse. Ora sto finendo un nuovo film che è il mio seguito a Bottled Songs, in cui mi confronto con protagonisti di diversa provenienza, ciascuno dei quali ha lavorato con i video dell’ISIS in modi diversi. È una sfida dialogare a partire dalle loro prospettive divergenti e talvolta contraddittorie, ma per capire come co-esistere con i mezzi di comunicazione di organizzazioni terroristiche, vale la pena lottare per questa molteplicità di punti di vista.


guerra-delle-immagini-intervista-kevin-b-lee

Chloé Galibert-Laîné è filmmaker e ricercatrice francese. Attraverso il suo lavoro indaga l’intersezione tra cinema e media online. I suoi “desktop-documentary” sono stati selezionati fra i più importanti festival, come IFFRotterdam, IDFA e Berlin Critic’s Week.

Kevin B. Lee è un filmmaker, artista multimediale e critico. Ha prodotto oltre 360 video essay che esplorando il cinema e i nuovi media. Il suo Transformers: The Premake è stato nominato tra i migliori documentari del 2014 da Sight & Sound.


  1. Le immagini sono chiamate a testimoniare contro sé stesse, in Harun Farocki. Pensare con gli occhi, Luisella Farinotti, Barbara Grespi, Federica Villa (a cura di), Mimesis, Milano, 2017. ↩︎
  2. Ivi, p. 140 ↩︎
  3. Ivi, p. 140 ↩︎