Su Il Conoscente di Umberto Fiori: Olindo, o Delle masse

Il Conoscente: la svolta (non solo) stilistica di Umberto Fiori

Leggere Fiori: una smaterializzazione, un senso di spaesamento, di impersonalità. Questo Fiori lo sa bene e ne ha fatto la sua cifra stilistica, la quale deriva forse da una necessaria presa di coscienza della limitatezza umana, della mancanza di una profonda comunicabilità tra individui, del crollo generale delle speranze in un mondo nuovo. Se, infine, l’io non esiste e non può essere filtro della realtà, allora ecco che si cerca di ripiegare in una realtà-prima-del-soggetto: fatta di marciapiedi, di case, di facciate. Tuttavia, ne Il Conoscente (Marcos y Marcos, 2019) Fiori sembra darci conto di un qualcosa che si è spezzato, di una sorta di epifania che, considerando che la prima parte del poema era già inclusa nell’edizione mondadoriana di tutte le poesie del 2014, si rivela tutt’altro che fulminea: sarà stata, anzi, lunga e sofferta.

Luoghi e soggetti di tutti e di nessuno

Ma non è lo spazio questo per addentrarci nell’opera di Fiori affrontando questioni di poetica che ci porterebbero lontano. Fermiamoci ad un passaggio della terza parte, al sottocapitolo intitolato proprio Olindo, la metafora personificata che dà il titolo a queste breve intervento. Fiori e questo misterioso personaggio, il Conoscente (se sia chi conosce o un personaggio x delle relazioni di Umberto Fiori, anche questo andrà indagato in altra sede), cominciano un viaggio verso un luogo altrettanto misterioso, che potrebbe avere la fisionomia di un centro abitato della Brianza, considerando che il paese si chiama Urate, la smaterializzazione fioriana però non raggiunge solo gli individui, ma anche i luoghi e situazioni: il Bar Sport dove si addentrano i due personaggi è il classico bar della piazza di tutti, o quasi, i paesi de “la nostra bella Italia”, dove le chiacchere, le opinioni, le ciaccole dell’abitante medio italiano si sciorinano come panni al sole. È qui che Fiori sfodera la sua violenza, quella violenza latente ma spesso presente nelle sue poesie: è proprio Olindo che si prende una sberla non indifferente da un Fiori-personaggio che sbraita contro il povero Olindo.

“Giusto: troppo gentile…”
confermo io. Mi accosto. “Troppo, troppo
gentile, sì. La gente come te”
dico aprendogli in faccia cinque dita
“tànghero parassita,
altro che brindisi! – a frustate
bisognerebbe prenderla,
come i tuoi antenati lerci e gozzuti
per secoli. Ma forse anche la frusta
si tirerebbe indietro per il disgusto”.1

Ci si chiede, giustamente, ma la gente come te chi? Quale gente, e com’è Olindo? Il Conoscente ce ne dà una descrizione puntuale, che mina le nostre fondamenta concettuali e ideologiche, ed è proprio questo che voglio ancora indagare: la frattura.

Le masse: odio, distanza, razzismo, militanza

“Più che un eroe.
Gli uomini grandi e superbi,
ubriachi di Onore e di Virtù,
di forza e di illusioni,
con il vento dei secoli
si sono rattrappiti, si sono estinti.
È il signor Olindo che ha vinto.
Quest’uomo schivo e semplice ha trionfato
sugli sguardi sprezzanti, sugli scettri,
su plettri e aedi, sulle imprese gloriose,
sul coraggio, sui multiformi ingegni.
Secolo dopo secolo, il suo regno
si è fatto mondo. Ora non ha rivali.
Tu ti rivolti. Fai male, Fiori. Ragiona:
se è tanto forte, dovrà pur avere
qualche cosa di buono.
E poi: non era forse in nome suo
che lottavate? Il popolo, le masse…
Eccoli: Olindo. E adesso che comanda
invece di rallegrartene
lo insulti e lo aggredisci. Alla fine,
caduta l’ipocrisia,
viene fuori la vecchia spocchia di classe,
la puzza sotto il naso che una volta
ti toccava nascondere.
Altro che fratellanza, democrazia…
Che cosa sei nel profondo, si è visto:
un reazionario, un razzista”.2

Il conoscente sa, il Conoscente vede, anche nel profondo. Fiori è stato un militante rivoluzionario: contestazione negli anni Sessanta e Settanta, figlio di partigiano, voce e chitarra degli Stormy Six, gruppo molto seguito dagli ambienti del marxismo intra ed extraparlamentare, con canzoni come La Fabbrica e Stalingrado. Il Conoscente poggia lo scalpello sul punto di frattura dell’ossidiana degli intellettuali di sinistra: abbiamo lottato noi, i rossi, i giovani universitari, i professori, gli scrittori, i critici, noi portatori di principi democratici ed egualitari, noi abbiamo lottato perché Olindo, il popolo, avesse il posto nel mondo che gli spetta, per la sovranità popolare. Molto probabilmente una fila infinita di cagate. Solo probabilmente, però. Poiché è indubbio che i principi democratici abbiano una validità di fondo, che vogliano rendere giustizia all’individuo, chiamandolo per nome, sottolineando il ruolo che gioca, concedendo a tutti non le stesse possibilità, ma quelle che necessitano nella loro unica e irripetibile esistenza. È tutto bellissimo. Sembrerebbe quasi che, sì, ce l’abbiamo fatta: la sovranità è del popolo, l’opinione pubblica incide considerevolmente sulla politica, sulla gestione dello Stato. Il nostro voto alle urne è il nostro sigillo. Eppure qualcosa ce lo siamo dimenticato, qualcosa è andato storto: per il benessere dell’individuo medio è necessario che qualche altro individuo resti con l’acqua alla gola. E allora? E allora cosa vogliono dire quei principi, libertà, uguaglianza, solidarietà… Ogni istante della nostra esistenza lo si vive in funzione di una necessità. Il moralismo, l’etica, il progresso, il futuro, gli sbagli del passato, il presente da costruire… Non sono forse delle riduzioni? Non sono forse quei discorsi, iniziati secoli e secoli fa, che hanno poi costruito una realtà fittizia proprio su di essi?

La vittoria di Olindo

Olindo ha vinto, e l’oppressione ha cambiato volto, ha cambiato nome, si è mimetizzata. Lo sa il Montale della Bufera: in questa tregenda d’uomini più nessuno è incolpevole.3 E allora basta, che il velo cada e lo spettacolo volga al termine: nuovi principi, nuovi discorsi, più veri, aderenti, spietati… Non credete sia inutile tirarsi dietro lo strascico di un’ideologia che appare troppo evidentemente sviata, decostruita, vuota, incoerente e ipocrita? La sinistra dei diritti civili lotta per delle battaglie giuste, ma è solo questo ciò verso cui guardare? Soluzioni economiche, lavorative, amministrative, concerete soluzioni non se ne cercano? Ci siamo persi nel nostro stesso discorso, e le parole, i principi, sembrano quasi più idee platoniche, esistenti solo in un mondo esterno, estraneo al nostro, e calate su quello assumono il carattere dell’ipocrisia, della favola, del buon pensiero che di reale, purtroppo, non ha nulla.

Il bene
Dentro di me, lo sento farsi veleno,
schiuma, favola, predica; sento un vuoto
abbrancarmi da dietro, da capo a piedi
crescere nelle vene, farle pietra.
Sento la terra sfuggire sotto le ruote,
abbandonarmi. La voce del Conoscente
è una punta di trapano che si insinua
nell’anima, casello dopo casello.4

Il trapano del Conoscente sa dove insinuare la sua punta: e lo sa Fiori, anche, che con la voce del suo personaggio così perturbante e ambiguo si scava da sé, e riconosce alcune verità che fanno male, che ci fanno dubitare di noi e del nostro buon operato, della falsa coscienza che abita in potenza ogni azione e può cambiarla di segno. Fiori lo sa, Fiori è si spogliato: mi torna in mente il manuale La poesia italiana nel Novecento di Fausto Curi, quando dice che «Ciò che davvero conta è che ciascuno deve essere consapevole che l’orizzonte storico nel quale si manifesta la “verità” della poesia è e non può che essere, nel nostro secolo, quello del “disincanto”»5. Il disincanto, la caduta del velo, Fiori l’ha sentita, e questo romanzetto autofinzionale in versi sembra essere una confessione tra sé e sé, la resa dei conti tra le due forze: quella ancorata alla favola bella dei principi e della virtù che rendono grande l’uomo, e quella critica e spietata che riconosce in quei principi l’illusione di secoli e secoli di figure discorsive.


1 U. Fiori, Il Conoscente, Milano, Marcos y Marcos, 2019, p. 175.

2 Ivi, pp. 181-182.

3 Cfr. La primavera hitleriana, in E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, pp. 256-257.

4 Ivi, p. 185.

5 F. Curi, La poesia italiana nel Novecento, Roma, Laterza, 1999, p. 43.


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In copertina e in corpo testo: Denis Trushtin