L’alterità che ci ossessiona – Inediti di Federica Defendenti

Hinterland

Mentre mi dici dalla panchina in piazza
fede sta roba dà sta roba toglie
tra foglie e crepe del selciato faccio avanti e indietro.
per non farsi mancare niente prima ti sei fatto un coso
(come si dice) sul dorso della mano dietro il bar.
nessuna giustificazione, aggiungi:
ho un lavoro ho tutto quanto me la cavo bene
guarda da qui si vedono le torri di rozzano, della tivvù le luci.
mi hai detto non so come faccio a non farla finita. io non ho risposto

Baby Business

non vedo per quale motivo mi guardi strano.
da dove ti lascio in stand by, sul fondo del desktop
più o meno invisibile ad occhio umano mi dici che sto diventando
una macchina: comprendo il pensiero la gentilezza questa
necessità di sciogliermi un qualche presunto gelo ma non rispondo:

forse ci diseguaglia ci stacca come serve
(difficilmente ci farà secche) la cura di questo baby business:
un moccioso a cui dar retta fatto di dati
contabili bandi jetpack upgrade
non ci farà secche dicevo e anche se fosse che importa

online dating

spargiamo pezzi per non perderci
dici è un cliché pure questo:
lo scambio tra maglioni lasciati e shampi.
una diversa piattaforma ogni tre mesi su cui
[parlarci
giusto per cambiare aria fingerci entrambe altrove
in giro per le vacanze in un nuovo luogo del web
[dove consumare.
per vederti meglio adesso simulo l’odore
del tuo pavimento in legno, del freddo alle tempie
[di quando
a vicenda ci rasavamo sul tuo balcone.
mancano i soldi per il biglietto, forse
la voglia pure di levarci lo schermo adesso
[guardarci in faccia.  

sexting

spargiamo pezzi per non perderci
dici è un cliché pure questo.
forse è il motivo per cui abbiamo scelto
una diversa piattaforma ogni tre mesi su cui
[parlarci
giusto per cambiare aria fingerci entrambe altrove
in giro per le vacanze gratis, in un nuovo luogo
[del web dove consumare.
per vederti meglio simulo l’odore
del tuo pavimento in legno, del freddo alle tempie
[di quando
a vicenda sul tuo balcone ci rasavamo.
mancano i soldi per il biglietto, forse
la voglia pure di levarci lo schermo adesso
[guardarci in faccia

inediti-federica-defendenti

Un prosaico duetto. Nota ai testi

A emergere da questi inediti di Federica Defendenti è una scrittura implacabile nel suo iperrealismo paradossale – paradossale poiché assai distante dalla dizione piana e oggettivizzante dell’oggidiana “lingua media” poetica, come pure dai tentativi più o meno confessional di compensare il maggior grado di opacità semantica del discorso in poesia con l’attivazione della funzione emotiva, per dirla con Jakobson.

Questa scrittura, al contrario, è come orchestrata sulla frizione fra corpo e forma, due ordini di realtà cui corrispondono altrettante serie di scelte lessicali, metrico-sintattiche, ma anche ideologiche. All’interno di blocchi strofici tendenzialmente brevi, Defendenti si adopera affinché il gergo urbano, diciamo giovanile, di questi anni, entri in cortocircuito con le forme della tradizione poetica ereditate dal Novecento: magistrale è il secondo verso di Hinterland, «féde sta ròba dà sta ròba tòglie», un endecasillabo con accenti sulle sedi pari eccetto il primo (e al verso successivo si scrive «faccio avanti e indietro», generando una curiosa analogia con l’”indecidibilità” ritmica che lo precede). Endecasillabico è anche il segmento «sul dorso della mano dietro il bar», e si penserebbe persino al Caproni di «Amore mio, nei vapori d’un bar», se non fosse che il ricorrere delle parentetiche è chiara marca sanguinetiana, così come l’organizzazione testuale e il “tono” complessivo. Il Sanguineti di Purgatorio de l’Inferno o di Reisebilder, naturalmente, ma demarcandone l’avvenuta e irreparabile separazione storica, a partire dall’assenza di un’utopia – perlomeno in potenza – condivisibile: le vite sconfitte dal tardocapitalismo, cioè quasi tutte, nascono sotto le insegne del «there’s no way out», si nascondono dietro il bar, si impasticcano anche quando «ho un lavoro ho tutto quanto me la cavo bene». S’incistano poi in un chiasmo di media elettrici che è quasi d’antan («le torri di rozzano, della tivvù le luci»), non hanno risposte né giustificazioni all’ordinario sfacelo delle cose (D’altra parte, sempre Sanguineti: «li ho sentiti davvero, io, che dicevano: perché vivi, tu? e dicevano: come ti giustifichi? dicevano: ma ti giustifichi, tu?», P. I. 17).

Tutti e tre i testi (di cui uno sdoppiato, ma vedremo) esibiscono numerose fagocitazioni della prosa del quotidiano, non soltanto nel lessico stricto sensu, ma anche nel riarrangiamento di formule idiomatiche e in un certo uso dell’indiretto libero per tradurre le conversazioni ordinarie. Se Hinterland ha una chiusa sospensiva e apodittica a un tempo, «io non ho risposto», i verba dicendi e i relativi disturbi della comunicazione ricompaiono iterati anche in Baby Business: «non vedo per quale motivo», «mi dici», «ma non rispondo», «non ci farà secche dicevo». Rovesciando la celebre formula di Zanzotto, potremmo dire che la parola di Defendenti si presenta a chi legge come declinata al caso accusativo «in assenza di risposta»: vi è un impianto fortemente nominale che apre al commento “in presa diretta” o alla dichiarazione epidittica, mai alla sintesi risolutoria né alla provvisoria conciliazione esistenziale che ne deriverebbe. È questa una lingua della reificazione senza riscatto dei corpi e degli oggetti che passa attraverso architetture cibernetiche, illusionismi digitali, slang ipercontemporanei più “mostrativi” che narrativi – e non stupisce che il miracolo senza idillio del contatto possa avvenire soltanto, ancora, per un cortocircuito tra corpo e forma, per esacerbazione morbosa dei sensi sebbene nei termini di un’enunciazione “fredda”. Il campo semantico della «macchina» e il «presunto gelo» a essa associato sembrano, in effetti, aver colonizzato in maniera persino eccessiva le due strofe, eppure è la chiusa, anche in questo caso, a svelare il fondo sarcastico-nichilistico del discorso.

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L’ultimo testo è pubblicato in due versioni, online dating e sexting, biforcazione di un processo di editing. Pubblicarli entrambi (e a fronte) è un modo per dire che questo processo è ancora in corso. Di diverso fra le versioni, oltre al titolo e a poca punteggiatura, c’è il terzo verso («lo scambio tra maglioni lasciati e shampi» in o.d., «forse è il motivo per cui abbiamo scelto» in s., meno “cosale” e più evidentemente metariflessivo); un «adesso» in più o in meno al settimo; un’inversione sintattica al terzultimo («a vicenda ci rasavamo sul tuo balcone»/«a vicenda sul tuo balcone ci rasavamo»).

Qui l’autrice, nel consueto tono dialogico-ragionativo, rievoca la relazione con un altro indefinito personaggio attraverso i «pezzi» che entramb* hanno lasciato dietro di sé: i soli frammenti tangibili, concreti, di una relazione che si dà in prevalenza nello spazio liminale del web, uno spazio dallo statuto ontologico incerto e che pure, nonostante la tanto discussa ambiguità del “virtuale”, non può dirsi meno “reale” dei «maglioni», degli «sciampi», del «pavimento in legno» o del «freddo alle tempie». All’ambiguità dello spazio corrisponderà, quindi, un’analoga contraddittorietà del rapporto fra il sé e l’altro da sé, un legame sospeso fra il desiderio dei corpi di toccarsi e l’insufficiente «voglia di levarci lo schermo». Nell’aprosdoketon ritorna, accompagnato dagli spettri dell’inconscio, il fantasma della tradizione poetica occidentale che moltiplica la “doppiezza” della costruzione ricordandoci che lo stesso «schermo» è parola bifronte: il dispositivo che in questo momento vi permette di leggere è omonimo del «nascondimento» dantesco, un topos che da più di settecento anni ci permette di scrivere (che a utilizzarlo sia una donna non può che renderci felici). Dentro o dietro lo schermo, che mostra e che nasconde, si dispiega un più che prosaico duetto, la controversia esistenziale messa in pagina da Federica Defendenti.

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Che si dica o meno «io», poco importa. A me sembra, come il miglior paradigma post-lirico ci ha insegnato – riprendendo una definizione di Enrico Testa tuttora estremamente fertile –, che qui l’«io» si dia soltanto nel rapporto con l’alterità che lo ossessiona fino ad assediarlo, e gli permette nondimeno una più matura articolazione del proprio “posizionamento” nella rete di relazioni che costituiscono il reale. In un alternarsi antinomico di bisogno e dipendenza (da una fonte di “gioia”), intensità e raggelamento (di un più generale “sentire”), ricerca eccitata e allontanamento/occultamento (del corpo desiderato attraverso lo schermo), Defendenti ci trasporta dal secondo Novecento agli anni di Instagram. Leggere i suoi testi mi ha fatto ripensare a una canzone e alla puntata di una serie tv. La canzone è Betty dei Baustelle, un brano contenuto nell’album L’amore e la violenza (il titolo dell’album è citato all’interno dello stesso brano): «che cos’è la vita senza/ una dose di qualcosa/ una dipendenza». L’episodio è il quarto della terza stagione di BoJack Horseman, intitolato Un pesce fuor d’acqua (Fish Out of Water). Verso la fine dell’episodio, in una scena che molti di voi ricorderanno, BoJack si trova alla fermata dei taxi di una cittadina subacquea e stringe un biglietto ormai illeggibile, rifiutato dalla destinataria: «Kelsey, in questo mondo terrificante, tutto quello che abbiamo sono i legami che creiamo». Queste tenzoni esasperate e disperate sembrano, in fondo, dirci questo – non ci resta che l’altro.


Federica Defendenti (1997 ) vive in provincia di Pavia. Frequenta la facoltà di Lettere Moderne all’Università di Pavia, co-dirige la rivista “Inchiostro” e collabora come redattrice per “Birdmen Magazine”. Lavora part-time come bracciante agricolo.
Suoi testi sono comparsi su “Il foglio clandestino” e sul blog di Interno Poesia. Nel 2021 si è classificata terza al concorso “Poesia di strada”.


Copertina e fotografie in corpo al testo © Wolfgang Tillmans

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