Il nostro sangue non è mai perso – Intervista a Angel Hubris

Angel Hubris è un’artista con sede a Brooklyn, New York. Nata in Albania, si trasferisce in giovane età negli Stati Uniti insieme alla sua famiglia. La sua ricerca artistica esplora i temi della sessualità, dell’identità, del dislocamento geografico e della liberazione sociale e sessuale. Cresciuta a metà fra il contesto albanese e americano, Angel Hubris ha riflettuto a lungo su un interrogativo riguardante la sua doppia identità, cercando di indagare quale fosse il rapporto fra la sua persona, l’Albania e gli Stati Uniti. Inoltre, Angel Hubris cerca ancora di capire come entrambe le sue identità abbiano potuto coesistere durante il processo educativo di stampo patriarcale che ha ricevuto. In occasione di un evento legato al progetto artistico “My Contribution” – presentato l’8 ottobre del 2021 alla Destil Creative Hub di Tirana – abbiamo quindi parlato con lei della sua riformulazione della bandiera albanese attraverso il sangue mestruale. 

Intervista a Angel Hubris (precedentemente Ada X.) a cura di Gresa Hasa, originariamente pubblicata per la rivista albanese Shota.
Qui nella traduzione di Xhejn Xhindi. 


Gresa Hasa: Come descriveresti questa tua opera? 

Angel Hubris: Il titolo originale dell’opera, in albanese, è “Gjaku ynë nuk humbet kurrë. Ky gjak mbetet në flamur”, che significa: “Il nostro sangue non è mai perso invano. Questo sangue rimane nella bandiera”. Si tratta di una bandiera albanese in poliestere prodotta in serie, delle dimensioni di un metro per un metro e mezzo circa, composta di uno sfondo rosso acceso con al centro un’aquila nera a due teste. È ricoperta di macchie scure che variano in dimensione, forma e opacità. Le macchie sono il risultato dell’accumulo del mio sangue mestruale in un periodo di due anni. La bandiera, a causa del sangue, ha anche una componente olfattiva: emana un odore che mi ricorda l’alito di un cane misto al forte aroma del kaçkavall [tipico formaggio diffuso fra la Turchia e i Balcani, NdT]. 

GH: Da dove nasce l’idea? 

AH: Ci sono due artefatti culturali che hanno influenzato fortemente l’opera. Il primo è una canzone di Adelina Ismajli (cantante kosovaro-albanese) intitolata “Skenderbe”. Il secondo è il “Kanun di Lekë Dukagjini”, e cioè un canone di disposizioni riguardante le consuetudini tradizionali del costume albanese, che ha avuto una enorme influenza su tutti gli aspetti della nostra antica società tribale. Entrambi questi artefatti fanno riferimento al sangue. Nella sua canzone, Adelina canta: “Gjaku i shqipes s’humbet kurrë, ky gjak mbetet në flamur”, che ha influenzato il titolo. Ho solo cambiato il termine “shqipes”, che sta per “albanese”, o per “aquila” (il simbolo nazionale del paese), con la parola “nostro” – “il nostro sangue non è mai perso”. Il sangue cui Adelina si riferisce è il sangue versato dagli uomini, dai guerrieri albanesi, durante la formazione dello stato-nazione albanese che si opponeva alle forze imperiali e neo-coloniali del tempo. Il colore rosso nella nostra bandiera simboleggia questo versamento di sangue. Il concetto del sangue e di un sanguinamento che non venivano mai sprecati mi attraeva, ma allo stesso tempo volevo esplorarlo servendomi di un sangue versato non necessariamente nel corso di una violenza – o meglio, non nel contesto di quel particolare tipo di violenza. 

L’altra fonte di ispirazione dell’opera era il “Kanun di Lekë Dukagjini”. Dukagjini era un signore feudale del tempo [nato nel 1410 e morto nel 1481, contemporaneo dell’eroe nazionale Skanderbeg, NdT]. Il Kanun, vale a dire la serie di codici attraverso cui Dukagjini governava la sua contea, veniva originariamente trasmesso per via orale. Come nel caso di altre forme di governo nelle regioni montuose dell’Europa e dell’Asia, i codici erano celebri per la loro struttura di valori basati sul patriarcato. Ciò che mi interessava di più, specialmente in relazione alla mia opera, è la descrizione all’interno del Kanun della dote della sposa, all’interno della quale la madre e il padre dovevano includere anche un proiettile. In questo modo, i genitori “garantivano” la “buona condotta” della figlia. Nel momento in cui la figlia disobbediva o umiliava suo marito (e cioè rompeva il codice dell’ospitalità), o commetteva adulterio, suo marito era legittimato a ucciderla senza subire conseguenze, usando il proiettile fornitogli dai genitori. Il suo sangue era “perso”. 

Questa contraddizione, questa esclusione, mi ha spinto quindi a realizzare quest’opera. Volevo che il mio sangue non fosse perso, che si differenziasse da quello delle giovani ragazze uccise arbitrariamente dal giudizio di un villaggio (e da quello delle ragazze che tutt’ora sono vittime di femminicidio). Essendo io stessa un’immigrata, e quindi una persona la cui vita è fortemente segnata da un processo di dislocamento, trovavo molto interessante l’idea che il mio sangue potesse avere una casa, un luogo di riferimento. Quindi mi sono rifatta al concetto della nostra bandiera nazionale come simbolo capace di trattenere il sangue e l’ho reinterpretato in una prospettiva femminista, aggiungendovi il mio stesso sangue. 

GH: Da una prospettiva di genere, la nostra relazione con la bandiera albanese è complicata. Prima di essere albanesi, siamo donne. La nostra storia è scritta da uomini, per uomini. Persino il nostro inno nazionale, una chiamata patriarcale alla violenza, è un inno rivolto agli uomini. Storicamente siamo state escluse e oppresse non solo come albanesi da vari colonizzatori, ma anche in quanto donne dagli stessi uomini albanesi. In che modo la tua bandiera, quella che trattiene il sangue mestruale al posto del sangue versato in guerra, (re)interpreta questa relazione? 

AH: In un certo senso, sento di versare il mio sangue sulla bandiera per rendere visibile qualcosa che non lo è. Seguimi un attimo, è un discorso complesso. Secondo me il sangue mestruale ha un bellissimo potere simbolico. Da un punto di vista più esplicito, e coerentemente con il titolo, quest’opera ci ricorda che nel processo di costruzione di una nazione è stato versato del sangue, ed è stata commessa della violenza, ma anche che gli uomini non sono stati gli unici ad essere stati sacrificati per la creazione di una mitologia e di un territorio nazionalizzati. Un’artista chicana che amo, Gloria Azaldúa, parla del binarismo della società abilista descrivendo due mondi: il mondo destrimano e il mondo mancino. Lə mancinə del mondo includono persone che sono svantaggiate o marginalizzate: donne, persone nere e non bianche, persone queer, persone trans, disabili, anziane, sex workers. Chi si trova nel mondo mancino è controllatə, punitə, uccisə, o altrimenti violentemente istituzionalizzatə, e la sua cultura appropriata, censurata, cancellata o demonizzata. Per me, come persona queer-pansessuale, artista-donna-disabile, versare sangue sulla bandiera era un atto simbolico in grado di rappresentare la violenza che quellə del mondo mancino devono sperimentare per la costruzione della nazione che, nella sua concezione originale, è patriarcale e cis-eteronormativa. 

Il sangue mestruale è anche legato simbolicamente al lavoro riproduttivo. Mentre il lavoro produttivo crea merci e capitale, il lavoro riproduttivo include fare bambini, prendersi cura di tutti i membri della famiglia, nutrire, pulire, performare tutti i compiti che sorreggono la forza lavoro, che invece costituisce il “lavoro produttivo”. Termini sinonimi sono “riproduzione sociale” o “lavoro non produttivo”. Durante il mio ciclo mestruale, devo dedicare più tempo ed energia nel prendermi cura di me stessa. La cura che io e altre donne mettiamo in atto è spesso invisibile, non valorizzata, e ha storicamente aiutato gli uomini ad accumulare ricchezza e a privarci di forza e fiducia, con la scusa che si trattasse di un lavoro assegnatoci dalla natura. 

Il sangue mestruale è considerato uno scarto, allo stesso modo in cui sono considerate uno scarto le esistenze delle persone che si situano al di fuori della norma eteronormativa, abilista e suprematista bianca. Quando non aderiamo (per natura o per scelta) al ritmo capitalista di produzione o di repressione sessuale, siamo consideratə sprecatə e meritevoli di soffrire. Credo che ci sia anche un aspetto specifico dell’esperienza di essere una donna o una persona che ha le mestruazioni, e dell’aspettativa di compiere un lavoro riproduttivo. Il sangue mestruale è sangue versato quando un ovulo è rilasciato da un’ovaia e non è fertilizzato dallo sperma. Quellə di noi con un apparato riproduttivo in grado di crescere e far nascere nuova vita sono soggettə ad una forte pressione socio-politica. Raggiunti i 35 anni di età, quasi chiunque abbia un utero è statə già incolpatə di non aver messo in primo piano la riproduzione. Secondo la cultura albanese, così come altre culture fortemente patriarcali, tutte coloro che sono sessualmente riconoscibili come femmine e genderizzatə come donne farebbero molto meglio a spendere il loro tempo e le loro energie facendo più figli maschi – non semplicemente figliə. Le mestruazioni, in questo senso, sono per me il prodotto della mia resistenza, e della mia libertà di vivere la mia vita riproduttiva secondo le mie regole. 

GH: Prima di affrontare il nazionalismo, vorrei che parlassimo di migrazione e dislocamento. Sei nata in Albania. La tua famiglia parla albanese. Tu non lo parli, non del tutto. Sei cresciuta negli Stati Uniti, dove continui a vivere e lavorare. Che effetto ha avuto su di te questo dualismo? 

AH: Potrebbe sembrare un po’ strano, ma durante la mia crescita la mia famiglia ha vissuto in cittadine molto piccole e molto bianche del Nord-Est degli Stati Uniti. E mentre stavo lì le persone mi esotizzavano molto, perché erano talmente bianche che ero io a sembrare esotica, no? Sono stata confusa molto a lungo su quale fosse la mia razza, o su che ruolo giocasse la mia etnia. Ricordo che in prima o seconda media ci hanno dato da fare un questionario demografico in cui dovevamo definire la nostra razza, genere, ecc. Leggendo la parola “razza”, ho pensato: “Oh mio dio, non so cosa mettere… perché non c’è l’Albania qui? Non vedo l’Albania qui. E so che sono albanese perché parliamo quella lingua, ne parliamo a casa, parliamo della sua storia… la mia famiglia mi ha spiegato chi sono, e io devo essere albanese, no?” e così via, mentre scorrevo il foglio. Allora sono andata in fondo alla lista delle opzioni, ho trovato “altro” e vi ho scritto “albanese”. E quando sono tornata a casa, mia mamma mi ha detto: “In che senso? Perché lo hai fatto? Noi siamo bianchə”. Ero scioccata, perché io non venivo trattata da bianca dallə miə compagnə di classe. Mi sentivo alterizzata. Ero una ragazza con i baffi e il monociglio. Mia madre era una delle uniche persone ad avere un accento particolare nella nostra cittadina. E tuttə dicevano immediatamente, “Ah, da dove vieni?” e allora tu rispondi “Albania”, e loro chiedono: “Ma dove si trova?”. Puoi essere effettivamente bianca, se la maggior parte delle persone non conoscono la posizione geografica del tuo paese di origine? 

Quando torno in Albania, invece, appena parlo albanese avvertono tuttə il mio “theks” [“accento”, NdT] americano. E allora tuttə chiedono, “Ke jetuar jashtë? Ku ke jetuar?” (Hai vissuto all’estero? Dove hai vissuto?) e quando rispondo, loro dicono “Oh, hajde pra, qenke Amerikane!” (Ah, ma dai, allora sei americana!). Ho sentito subito che, non appena tornata in Albania, le persone volevano ributtarmi fuori. Non credo si tratti di una micro-aggressione, sono certa che questo sia legato a un’invidia e un odio verso sé stessə che portiamo molto con noi. Ma quando mi relaziono con gli albanesi, viene subito messo in chiaro che ho vissuto all’estero – e a volte questo per loro implica che io non sia del tutto albanese. Non sono neanche in disaccordo con loro, non necessariamente, ma per molto tempo mi sono sentita ferita, perché non ero in grado di capire il motivo di tutto ciò. Credo che il mio rapporto con l’esperienza di essere americana, di essere una migrante, di essere albanese – e credo che l’ibrido e il dislocamento siano una parte centrale anche dell’essere albanesi – siano qualcosa che sto cercando di approfondire da un po’. Lə sociologhə l’hanno definita come essere “doppiamente assente”, o come la sensazione di essere “a casa in nessun luogo”. W.E.B Du Bois la definisce come avere una “doppia coscienza”, e cioè essere in grado di vedere due parti di qualcosa perché si ha un’identità ibrida. 

E per quanto concerne la nostra intervista: non sono in grado di parlare abbastanza bene la lingua per poterla fare in albanese. Questa perdita di linguaggio dice molto riguardo la mia esperienza come migrante/immigrata/americana, ma anche dell’esperienza albanese che, date la nostra posizione geografica, la dimensione della popolazione e tante altre componenti specifiche della nostra identità, ci richiede di emigrare per sopravvivere e di separarci l’unǝ dall’altrǝ. Sto parlando inglese, che è una lingua che lə miə nonnə non parlano. A causa degli effetti di questa migrazione, con lə miə nonnə non posso neanche comunicarci davvero. Forse questa è una delle ragioni per cui torno spesso in Albania, e per cui porto questa bandiera in giro con me, cercando di aggrapparmi un po’ a questa identità che allo stesso tempo mi ha isolato, e da cui mi sono sentita isolata. 

Se dovessi sventolare la bandiera americana non sentirei niente, anzi, in realtà mi susciterebbe disgusto in molti modi. Non so come ci si senta ad essere americanə. Non ho mai guardato I Simpson. Non bevo latte scremato. Non so se mi sia veramente mai sentita americana prima che le persone sentissero il mio accento americano in Albania, prima che me lo facessero notare parenti o altrə albanesi all’estero. Ma invece sento qualcosa nei confronti della bandiera albanese. Proprio perché mi sono sentita dislocata dall’Albania e ho desiderato sentire quell’appartenenza che provavano i miei genitori. La mia famiglia se n’è andata per la disperazione, come tantə di noi erano obbligatə ad andarsene e a migrare – per l’istruzione, per le opportunità, per la sicurezza. Lə albanesi fuori dall’Albania si affidano alla bandiera più dellə albanesi in Albania, perché non siamo o non possiamo essere inclusə in nessun progetto nazionale o collettivo; quindi, credo che per la diaspora la bandiera sia un modo di portare la terra di casa nostra in una terra lontana. Per quanto mi riguarda, potrei essere stata ispirata dall’orgoglio americano, ma non credo sia così. Mio padre è molto patriottico verso l’Albania, e lo è sempre stato. 

Nell’ambito di questo progetto, però, sto cercando di capire se – anche per me che sono una persona immigrata – esporre la bandiera di un’altra nazione in America con un intento di glorificazione possa essere un atto di violenza, un atto simbolico di colonizzazione. Forse negli Stati Uniti non si dovrebbe alzare nessuna bandiera nazionale, dal momento che si tratta di un territorio espropriato e ancora rivendicato dagli indigeni . È una delle ragioni per cui ho scelto di esporre la mia bandiera poggiandola a terra. Ma scegliere di essere rappresentata dalla bandiera albanese, scegliere “l’albanesità”, è una decisione politica. Non voglio includere me stessa nella bandiera americana, quella bandiera rappresenta un progetto fascista e colonizzatore. Da un punto di vista teorico, credo che il mio lavoro poggi su quello di Frantz Fanon. Leggere I dannati della terra mi ha aiutato a concettualizzare quest’opera. Fanon è un uomo nero della Martinica, ma si è trasferito in Algeria e ha lavorato come medico nella rivoluzione algerina. Sempre lì ha partecipato al movimento di liberazione. Fanon parla di quanto il nazionalismo sia uno strumento fondamentale per i popoli marginalizzati, per raggiungere un’identità collettiva che rinforza i legami e la resistenza di un popolo, e che mostra come unirsi per la liberazione. Quindi, sì: se vuoi aggiungere anche tu il tuo sangue mestruale, uniamoci e andiamo insieme a macchiare questa bandiera. Quest’opera è un processo, una performance, una forma per me sperimentale di reclamare la mia identità in quanto albanese, immigrata e donna

Vorrei anche riconoscere che la mia identità, in questo caso, non dovrebbe impedirmi di comprendere che in molte situazioni sono portatrice di un privilegio bianco. Anche se sono immigrata, godo dei benefici di avere la pelle chiara. Quindi sì, rivendico tutto questo, ma comprendo anche la responsabilità di cui mi rendo portatrice. Sento la responsabilità assoluta di smantellare sistemi oppressivi verso persone più marginalizzate di me. In particolare a New York, dove vivo ora, il mio privilegio bianco è palpabile. Mi sento molto più “bianca” lì di quanto mi senta da altre parti, perché NYC è molto diversificata. Credo che negli Stati Uniti chiunque sia o sia statə razializzatə come biancə – ovvero chiunque sembri biancə o abbia un privilegio bianco per il colore della sua pelle – abbia una grande responsabilità. In questa società globalizzata e razzializzata puoi beneficiare di un privilegio bianco a prescindere da dove provieni. Anche se la propria famiglia non ha contribuito a questa storia di colonialismo e schiavizzazione, una persona può comunque godere del privilegio di essere razzializzatə come bianchə, anche avendo trascorso un solo anno negli Stati Uniti o in uno qualsiasi dei Paesi del Nord Globale – sia che si tratti di un beneficio in termini di ricchezza e di capitale sociale, o di protezione dalla violenza. È un’esperienza molto diversa da quella di persone che sono razzializzate come non bianche. L’esperienza e la responsabilità personale variano in base alla propria posizione geografica. Essere albanese in Europa è molto diverso dall’esserlo negli Stati Uniti. La razzializzazione dipende dalla geografia, dalla storia e da altri fattori. Abbiamo una grossa responsabilità nel creare una società più giusta e inclusiva: non solo per noi stessə, ma per chiunque sia più marginalizzatə di noi. Essere statə un qualche tipo di vittima nella storia del mondo non esclude che si possa essere carnefici in qualche altro caso. Il progetto colonizzatore di Israele in Palestina è un grande esempio di questa contraddizione. 

GH: Essere albanese all’estero è sicuramente un’esperienza diversa dall’essere albanese a “casa”. Si può dire che avere un’identità albanese abbia un peso anche sullo stesso territorio dell’Albania, in una società dove le donne sono trattate come cittadine di serie B, escluse dallo spazio pubblico e rese schiave in quello privato? Può il femminismo sfidare il nazionalismo nella nostra lotta per l’identità? Dobbiamo necessariamente abbracciare la nostra “albanesità”, o possiamo assumere una prospettiva libera dal nazionalismo? 

AH: Per me, reclamare l’etnia albanese è una prospettiva che va contro il progetto liberale di distruzione delle differenze culturali. È una connessione, è una volontà politica. So di essere albanese perché quando non so cosa mangiare per cena mangio i “fasule” (fagioli cucinati in una maniera tradizionale), oppure il “trahana” (piatto tradizionale albanese). Dico tutto il tempo “Qyqja!” (una parola albanese utilizzata per esprimere una varietà di emozioni, dalla sorpresa al piacere, spesso come reazione a qualcosa detto da qualcunə). Amo la musica iso-polifonica. Sono albanese per come ho sofferto, ovvero come qualcunə che ha dovuto emigrare dall’Albania. Provo una grande nostalgia. L’etnia è a volte definita come l’essere “membro di un popolo culturalmente costituito, un popolo con usi e costumi definiti che lo rendono diverso dagli altri popoli e verso il quale si è legatə affettivamente”. La maggior parte dellə albanesi vive fuori dall’Albania, la nostra è una grande diaspora. Quindi, in quanto persona che ha vissuto fuori dall’Albania, per me è molto diverso identificarmi come albanese. So che vivere in Albania cambia la relazione con la propria nazionalità/etnia, ma sento che, come te, anche io ho avvertito le ripercussioni della dittatura, del Grande Progetto Socialista… l’assenza di libertà, l’isolamento, la paura… perché la mia famiglia ha creato la stessa atmosfera nella casa dove sono cresciuta. L’immigrazione non mi ha protetto dai danni della nostra psiche culturale. Siamo statə tuttə traumatizzatə da quel periodo. 

Ma penso anche a come abbiamo resistito, in quanto albanesi. Quanti diversi invasori, imperialisti e simili hanno cercato di privarci della nostra lingua? Credo che essere una nazionalista albanese sia leggermente diverso dall’essere una nazionalista americana, perché noi non abbiamo colonizzato nessunə, non abbiamo sviluppato un progetto colonizzatore nei confronti della terra in cui viviamo. Se noi non ci identifichiamo come albanesi, che cosa diventiamo? Dove andiamo? Io credo che verremmo cancellatə. Diventeremmo bianchǝ? Non dico che ci sia qualcosa di necessariamente sbagliato nell’avere la pelle bianca, ma la bianchezza come razza è un costrutto, e ci sono valori dietro la bianchezza. Quindi, la scelta è tra l’albanesità e la bianchezza, e la bianchezza è sinonimo di rimozione e assimilazione. Come nel caso del patriarcato, la bianchezza è un sistema di supremazia, violenza e dominio. La mia esperienza con l’assimilazione è che si tratti di un processo violento. Il processo di assimilazione implica che io non mi interessi di imparare o proteggere la mia lingua, o la mia cultura; richiede piuttosto che io aderisca a un sistema capitalista. Richiede che io consideri me stessa parte di una gerarchia, e che mi comporti di conseguenza. 

GH: È possibile immaginare una realtà senza nazionalismi e identità nazionali? Perché non definirci come “europeə”, cosa che siamo, al posto di “albanesi”? 

AH: È possibile che in un qualche momento la nazionalità possa non essere un fattore rilevante? Non in questo momento storico. La nazionalità ci fornisce una comunità immaginata. Credo ci serva per guarirci a vicenda. 

GH: Ciò che trovo molto interessante è il modo in cui i movimenti queer di questa regione siano riusciti a mettere insieme persone di etnie differenti, che nel passato hanno combattuto l’una contro l’altra come nemiche. Le manifestazioni Pride uniscono albanesi, serbi, bosniaci, ecc. come persone sotto un’unica bandiera, quella LGBT+; un popolo che è sistematicamente escluso e oppresso da (e spesso in nome di) un’identità nazionale. (L’omosessualità è spesso considerata da conservatori e forze di estrema destra come un “vizio pericoloso”, non come una concreta realtà “albanese” o “serba”, per esempio). 

AH: Credo che sia una considerazione veramente importante. Ma credo anche che la bandiera sia il simbolo di una comunità politica immaginata, e che non necessariamente debba avere un valore statale. Possiamo avere sia il femminismo che il nazionalismo? Non credo che si escludano vicendevolmente. Le donne hanno sperimentato solidarietà nei confronti della propria etnia/nazionalità durante conflitti come il genocidio serbo in Bosnia. È un punto di marginalizzazione, ma anche di solidarietà. E odio pensare alla nazionalità o all’etnia in questo senso, nel senso definito dal nostro specifico trauma storico, ma è così. Il nostro femminismo deve essere specifico, deve essere relativo a noi come albanesi, perché le nostre sfide sono uniche e provengono da una specifica storia e geografia. Il femminismo deve essere locale e globale insieme. 

Mi sono sentita molto sola negli Stati Uniti. Nella mia esperienza, essere una donna albanese è una condizione molto specifica. A causa della mia etnia, il mio vissuto con il sessismo e la misoginia era molto diverso. E poi sono venuta qua e lə miə amichə parlavano di qualche specifico tipo di vergogna sessuale che hanno provato, o magari della vergogna che si prova durante le mestruazioni, o ancora di cose che le loro madri o padri dicevano quando avevano dieci anni, del tipo: “Non guardare il cameriere. Se lo guardi gli mandi messaggi sbagliati”. È questo tipo di cose che sento vicine anche alla mia esperienza, e a quella di altre donne albanesi con cui ho parlato, e forse è questo lo spazio… lo spazio per unirsi, in modo da guarire e superare quel trauma storico. Come potremmo creare questo spazio senza proteggere noi stessə e il nostro paese? Non importa quali siano le difficoltà, dobbiamo assolutamente imparare a considerarci in un insieme, in una comunità. I confini nazionali a volte sono anche uno strumento di protezione, il concetto di nazionalità ha protetto gli albanesi che si trovavano dentro i confini da un genocidio. So che in Kosovo le persone hanno paura che le istituzioni governative serbe stiano aspettando l’opportunità di continuare il loro progetto fascio-espansionista di deportarci ed assassinarci come in passato. 

GH: Le esperienze sociali che descrivi, specialmente in relazione alla tua educazione in quanto ragazza, non sono necessariamente “albanesi”. Direi forse che sono più connesse con il patriarcato che con “l’albanesità”. La pressione patriarcale, soprattutto durante gli anni della crescita, ma non solo, si fa sentire sulle donne anche altrove nel mondo, che si trovano a crescere o vivere in contesti patriarcali. Come si intersecano in questo caso l’etnia e il genere? 

AH: Questa violenza patriarcale ha luogo nel nostro stesso linguagggio. La dittatura di Enver Hoxha che abbiamo attraversato è a sua volta specifica dell’Albania. L’unico paragone forse equamente repressivo che abbiamo nella contemporaneità è la Corea del Nord, e loro la stanno ancora vivendo. Nessuna cultura è mai sopravvissuta a qualcosa di così repressivo e isolazionista. Ci si aspettava che le donne lavorassero fuori casa, ma che allo stesso tempo si prendessero cura della famiglia; è stata una falsa rivoluzione femminista. Sto cercando di comprendere in che modo questo ha condizionato la mia mente, la mente dei miei genitori e il trauma generazionale che ho ereditato dal regime. Ma vorrei tornare all’importanza del nazionalismo, che credo sia più strettamente legata all’autodeterminazione che allo statalismo. So che in Kosovo le persone continuano a vivere in quella regione con la paura di essere identificate come albanesi. Puoi conservare la lingua, i costumi, senza le protezioni delle nazioni nella nostra attuale realtà politica? Cosa succederebbe se i nostri leader fossero totalmente incoscienti e passivi di fronte a minacce effettive e concrete? Cosa ci succederebbe? La storia si ripeterebbe. E allora come possiamo creare quello spazio di guarigione, di collaborazione, di liberazione nei nostri propri termini, se non ci importa di proteggere noi stessə e le nostre case? Scegliere di identificarsi come albanese è un atto politico ed è un modo di posizionarsi nella maggioranza globale. È un modo di riconoscere che non hai contribuito alla colonizzazione dei popoli, a quella specifica violenza e a quello specifico sfruttamento. Equivale a dire: “Lə miə antenatə non hanno colonizzato le Americhe. Lə miə antenatə non hanno contribuito all’uccisione di popoli indigeni o alla resa in schiavitù di persone nere”. È riconoscere che i paesi dove noi emigriamo in Europa e Nord America sono economicamente avvantaggiati non perché sono superiori, ma perché sono violenti e si sentono legittimati nel fare qualsiasi cosa. Di fatto, abbiamo anche noi una storia di sfruttamento e progressivo disimpoteramento subiti da parte di quegli stessi colonizzatori. 

Dobbiamo chiederci: in che modo la nostra storia etnica rientra in una politica internazionale definita dalla razza e che esperienza ne deriva (e ne è derivata) politicamente, socialmente e psicologicamente? Dal mio punto di vista, per quanto l’identità albanese sia certamente complessa e ci sia violenza nella nostra storia, specialmente se sei genderizzata come donna o se hai un’identità marginalizzata, allo stesso tempo scegliere l’albanesità, oppure scegliere la bianchezza, l’americanità, è scegliere tra l’essere pro o contro la liberazione della maggioranza globale. La bandiera americana è nata dal genocidio, dalla schiavizzazione, mentre la bandiera albanese è nata dall’autoprotezione, dall’unione, dal mettersi insieme per non venire colonizzatə, per non essere uccisə sistematicamente, cosa che è successa allə albanesi prima e dopo le guerre mondiali. Quindi, credo che sia questa la differenza. Che da un lato consiste nello scappare dalla mia identità americana, ma dall’altro lato è anche abbracciare un gruppo più ampio di persone che sostengono che quanto è accaduto sia terribile, che stiamo ancora subendo l’egemonia bianca e occidentale, che noi esistiamo e ci spetta il diritto di autogovernarci, di scegliere come vogliamo vivere, di parlare la nostra lingua o di far parte di un progetto politico collettivo che non danneggia o sfrutta altri popoli. 

GH: Tornando al sangue mestruale sulla bandiera. Una semplice curiosità e una domanda pratica: in che modo sei riuscita a creare le diverse forme e sfumature nella bandiera? 

AH: Il mio ciclo mestruale non è molto abbondante. Se mi aspetto che arrivi ed entro una settimana devo partire, devo portare con me la bandiera per applicarvi il sangue, poiché non posso viaggiare con una bottiglia di sangue mestruale non refrigerato. Quindi, questa bandiera è stata in Italia, a New York, in Virginia e ora in Albania. In Italia alloggiavo in un ostello: pensavo che mi sarebbe venuto il ciclo nel giorno in cui sarei arrivata in Albania, non quando sarei atterrata in Italia – ma sappiamo tuttə che il ciclo mestruale qualche volta è ribelle. Quindi ho utilizzato la coppetta per gestire il ciclo e raccogliere il sangue. Solitamente prendo il sangue dalla coppetta, lo metto in una bottiglia d’acqua, chiudo la bottiglia, la avvolgo con un sacchetto nero di plastica e la metto tra le altre cose nel frigo, finché non trovo il momento migliore per poter applicare il sangue alla bandiera e lasciarlo asciugare. Nell’ostello ho messo la mia bandiera sul davanzale della finestra, appoggiandola su una busta di plastica, e vi ho versato il sangue lasciandolo appeso fuori ad asciugare, sperando che nessunə notasse una sospetta bandiera sanguinante sporgere dal davanzale. Qualcunə nell’ostello l’ha vista, ma non ha detto niente. Quando l’ho presentata in Albania era coperta da un vetro, perché alla fin fine è sangue, quindi emana un po’ di odore. Come ha detto lə miə amicə Silvi Naçi, anche ləi artista albanese negli Stati Uniti: con quest’opera ho “ottenuto” un senso di odore. Il nazionalismo ha un odore strano. 

È stata un’esperienza interessante portare la bandiera in giro da un posto all’altro, nello stesso modo in cui porto con me la mia etnia in quanto albanese in diaspora, o la “vergogna” di essere una creatura sanguinante. Non negherò che sto ancora affrontando la vergogna delle mie mestruazioni, nonostante io le stia usando per creare un’opera d’arte. Non è una sensazione che se ne va, come non se ne va l’esperienza viscerale del sanguinamento. Ci sono volte in cui quando ho il ciclo sono scossa, il mio stomaco si ritorce, c’è così tanto sangue che le mie mani iniziano a tremare. Nessuna di queste risposte automatiche viene trascesa nel corso del processo artistico, tantomeno il bagaglio emotivo comportato dal ciclo mestruale. È un confronto costante con qualcosa che è considerato sia vergognoso che sporco. Credo che questo si aggiunga alla mia identità di donna albanese. La nostra cultura è molto repressiva verso la sessualità. Ma io sono una strega e, versandoci il sangue, in un certo senso, faccio un incantesimo sulla bandiera. Il sangue mestruale è stato concettualizzato in diverse culture come potente, a volte magico, ed è stato trattato in modi diversi nei diversi tempi e luoghi della storia umana. Sto distruggendo la bandiera e la sto anche abbellendo. E così è molto meglio, perché finalmente in questa bandiera sono inclusa anche io. 

A volte il sangue è più denso di altre volte, durante il primo o il secondo giorno ci sono più pezzi di endometrio nelle mestruazioni. Questo lo rende più denso. A volte verso il secondo o terzo giorno diventa più liquido, in proporzione c’è più sangue che mucose, e poi diventa di nuovo più grumoso e denso. Quindi è il sangue che fa il lavoro, ha molto poco a che fare come lo applico. In realtà, l’ho applicato in vari modi, a seconda della situazione. Quello che importa è però bagnare questa bandiera con il mio sangue mestruale, ogni mese, indipendentemente da dove mi trovo. Brucio della salvia o del palo santo e rido, consento a me stessa di sentirmi piena di indignazione, di uno spirito di ribellione. Mi permetto di essere disgustata, emotiva… a volte pronuncio frasi o piccole poesie. Ogni applicazione è stata diversa e coerente a quello che sentivo o di cui avevo bisogno. Ma alcuni dei pattern che vedi qui si sono formati perché ho dovuto mettere per terra una busta della spazzatura e lasciarci asciugare sopra il sangue. Così si sono creati questi interessanti pattern che sembrano capillari. Quindi tutti i pattern, le forme e i colori sono a tutti gli effetti opera più del sangue che mia. Voglio che quest’opera sia decisamente antiestetica – o meglio, l’estetica non è il mio obiettivo. Sto cercando di saturare con il mio sangue, finché sarà possibile, il rosso naturale della bandiera. Infatti mi sto avvicinando a un punto di svolta nel lavoro, perché l’odore sta cominciando ad essere intollerabile. Devo trovare un epilogo al percorso di quest’opera. 

GH: In che modo questo lavoro è rappresentativo di una prospettiva femminista? 

AH: Come dicevo prima, versare sangue mestruale è un po’ come lanciare un incantesimo. Ogni volta che lo faccio, rido. Ho portato la bandiera in Italia e ho dovuto capire come versarci sopra il sangue in segreto. Mi fa sentire così allegra e giocosa. È piacevole degradare, o decorare, questo oggetto simbolico che ha significato così tanto per la costruzione di un patriarcato capitalista. Come femminista, questo atto mostra quanto io debba vivere corporeamente per farmi spazio nel modo, per iniziare a cambiare le norme. Devo mettere in discussione tutto ciò che sono stata portata a credere, incluso il disgusto maschile per il mio corpo. 

Troverò la magia in me. Ma questo atto è anche multidimensionale nel suo significato. Ogni volta che ho le mestruazioni è dura, sono esausta nei giorni precedenti, ho dolori, emicranie. È un’esperienza invalidante, e so che è invalidante anche per molte delle altre persone che hanno le mestruazioni, e allo stesso tempo ho la possibilità di connettermi con il mio corpo e le mie mestruazioni e di riconoscere che non devo trattarli nel modo in cui vorrebbe la società. Questo è effettivamente un processo rivoluzionario. E dentro questa resistenza, questo processo, scopro nuovi modi di esistere. Sovvertendo il modo in cui solitamente ho le mestruazioni, entro maggiormente in contatto con il mio corpo. Rompo l’alienazione capitalista dal mio corpo e mi rendo conto che forse, in questo periodo specifico, dovrei cambiare il mio ritmo. Il capitalismo ha disposto un ritmo per noi che è maschile, centrato sul corpo abile, basato su un corpo che non ha fluttuazioni, che non spende giorni in malattia o portando in giro un feto. Quindi, versare questo sangue sulla bandiera, questo sangue che non è nato dalla violenza, e trovare con esso una connessione, sovvertendo la cura del mio corpo che mi prescrive la società, sono tutte rivendicazioni. Coltivare una connessione più profonda con me stessa, con la mia sessualità, con il mio corpo e le sue funzioni, e superare la vergogna e lo stigma di avere questo corpo che fa queste cose: è una forma di resistenza.


TRIGGER WARNING: le seguenti righe contengono immagini potenzialmente disturbanti.

Le foto all’interno dell’articolo sono state scattate dall’artista in occasione di un rito di sepoltura della sua bandiera di sangue, in Albania. Poco distante dal luogo di sepoltura, Angel ha poi trovato i resti di un pastore tedesco sacrificato dai contadini: nel cercare un senso e un collegamento possibile fra i due rituali, avvenuti poco distanti fra loro sul suolo rurale albanese, Angel ha poi scritto (e registrato) un racconto per Montez Press Radio, e ha realizzato una mostra di sculture e fotografie sul tema, a New York. Angel Hubris ha chiamato il progetto “GOD//DOG”.