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La soggettività poetica nell’era della sua riproducibilità tecnica

Come sappiamo, i social network hanno ridefinito il nostro modo di stare al mondo, di costruire relazioni e soprattutto di rappresentarci. L’account costruisce di fatto un alter ego, che tende a mostrare – lo obblighiamo noi, a farlo – solo gli aspetti che riteniamo positivi della nostra personalità. Questa che, parafrasando Benjamin, possiamo chiamare “riproducibilità tecnica dell’ego”, mette di fronte alla possibilità di scolpire la soggettività tramite la selezione e l’immagine, o addirittura di costruirla in vitro, se pensiamo agli account fake, nonché alla facoltà di proiettarsi e moltiplicarsi in più profili (anche discordanti fra loro: quello Facebook più serioso, quello Instagram più sbracato, e così via).
Ora, se la poesia (lirica; più i suoi derivati) si origina da una forte matrice soggettiva[1], è lecito immaginare che la modellazione dell’ego via social incida anche sulla pratica poetica, non solo a livello sociologico (la diffusione di certe posture degli autori, l’indebolimento del ruolo del testo, la proliferazione di blog e riviste, l’instapoetry…[2]), ma anche a livello estetico in senso stretto.
In questo articolo cercherò dunque di riflettere sul rapporto tra soggettività e comunità virtuale attraverso i testi di tre poeti contemporanei.

Essere-per-lo-scrolling

Il primo campione, da Inattuali (Transeuropa, 2016) di Gilda Policastro, è composto dai versi finali della poesia n. 12:

Chiudere con la morte:
crollare o scrollare,
abitare da capo, a un di presso
i pixel del volo, cromakey del decesso (schianto)
e in aggiunta ai tradizionali referti (dna: per sempre
del volto) sotto ai cipressi,
                               un selfie

È bene sottolineare che tutta la raccolta di Policastro è una dura sfida al soggetto poetico, attraversato da un caos di linguaggi (tecnologico, dialettale e accademico in primis). L’intento di Policastro pare quindi, a livello generale, quello di intaccare l’unità del soggetto attraverso la lingua, di sottolineare non la sua natura parlante bensì la sua natura “parlata” – da codici e sottocodici in cui non solo è immerso, ma da cui è educato a esprimersi. Questo, tuttavia, senza implicare l’assenza di un soggetto come “sguardo”, che anzi rimane saldo e necessario: «la poesia è sempre e comunque uno sguardo: obliquo, trasversale, certo, ma di fatto una sezione dell’esperibile, dunque l’espressione di una soggettività che seleziona».[3]
In questi specifici versi ritroviamo il flusso eterogeneo di linguaggi nello «scrollare» tipico dei social: anch’esso, del resto, si configura come liquidità e sbandamento, scarto di codici costante. Il social funziona qui come fattualità concreta del caos verbale del nostro tempo, da una parte, e come sempre più centrale veicolo di accesso alla realtà sociale, dall’altra. Ma il problema sorge quando osserviamo che a essere raccontata è in realtà una morte (fantasma indicibile di tutto il libro), dunque la sparizione della soggettività. Se l’incontrollabilità del linguaggio del mondo sfida la soggettività come presenza e monade, il social – che ipostatizza, fotografa gli stadi del flusso come nel caso del «selfie» – la sfida nella sua (con Heidegger) possibilità più propria, che è quella della morte. Di fronte al gioco tra fissazione e reversibilità dei social, la temporalità dell’Esserci è decostruita in uno «scrollare» che in verità non “chiude” mai con la morte, ma ne fa elemento di un flusso che l’avvolge, sacrifica il soggetto a un superiore essere-per-lo-scrollling con l’in-cambio di una distrazione.

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Ascesi e algoritmo

Anche in Roberto R. Corsi assistiamo a una qualche forma di riduzione, benché affrontata con un approccio completamente diverso. Il tono tipico di Corsi – quello, almeno, de La perdita e il perdono (Pietre Vive, 2020) – è infatti satirico, abbassante per via ironica:

E noi che rilkianamente pensiamo
alla nostra poesia come ascesi, avremmo l’emozione,
che quasi sgomenta,
di apparire su un blog letterario altolocato – proprio come
da sempre sognavamo – ma col verso circondato
da pubblicità di biscotti per cani, cotechini, zamponi.

In questi versi non abbiamo a che fare con l’orizzonte della morte, bensì con la vita quotidiana del poeta, e quindi con la relazione che si costruisce tra aspirazione e ricezione, tra autenticità e pubblicazione. Anche per il fatto che Corsi mantiene – al contrario di Policastro – una certa fermezza del dire, una postura più solida non destabilizzata dall’“invasione” dei linguaggi, la sua poesia si mostra utile per sondare gli aspetti sociologici della soggettività poetica in era virtuale.
In verità anche La perdita e il perdono – ed è un segno importante – è attraversata da linguaggi diversi, e da un citazionismo molto spinto (già qui, il «rilkianamente»); ma ciò che rimane fisso è la poesia come struttura e centro, che rifunzionalizza i linguaggi e li cuce in un discorso, non ne lascia esposti i cavi e l’impalcatura. La soggettività di Corsi rimane quindi più ancorata a una voce specifica, a una persona, e la corrosione dell’io – mai eliminazione – si effettua per via ironica (cioè attraverso il rovesciamento del tema, ma pur sempre dentro il tema). Allora il «noi» in apertura segnala già una collettività o, meglio, una serialità, che decostruisce l’unicità del poeta; e l’«ascesi», soprattutto, è desacralizzata attraverso l’accostamento tra poesia e «biscotti per cani, cotechini, zamponi».
Non si noti qui, tuttavia, “solo” il crepuscolarismo della scelta stridente[4]; quello che voglio sottolineare in particolare è l’origine di questo rinnovato camicie/Nietzsche. E tale origine è algoritmica, presuppone che la realtà virtuale collochi orizzontalmente l’input della poesia tra gli altri input, efficaci non per quanto sostanziano (un’«ascesi», una densità del linguaggio) ma per come si adeguano alla profilazione pubblicitaria. L’algoritmo, insomma, destruttura la morte come possibilità ultima del soggetto in Policastro e l’aumento ascetico del linguaggio lirico in Corsi.

Eclissi e screenshot

Leggermente diverso è il caso di Riccardo Innocenti, ma proprio il cambio di prospettiva può risultare rivelatorio per il discorso che qui stiamo affrontando. L’uso della seconda persona come “io traslato”, del resto, ha molti precedenti nella tradizione (basta pensare a Montale), una forma di alienazione da sé per comprendersi. E, in più, direi che questa condizione di io/non-io è tra gli effetti tipici della “riproducibilità tecnica” della soggettività. La poesia di Innocenti, tratta da Paesaggio anomico (in uscita prossimamente), è questa:

Hai mandato una foto del tuo cazzo
a una ragazza che non conosci
su Instagram. Lei non ti ha risposto
ha fatto uno screenshot alla foto
e alla conversazione. Il tuo pene
è in primo piano ma dietro si vedono
una cucina, il piano cottura, i pensili
le presine ricamate da tua madre
appese sopra al lavello. La luce
è fredda ma non troppo, saranno
4000 kelvin, più o meno.

Il soggetto di questa scena – l’invio di una dick pic su Instagram – subisce una triplice eclissi: sul primo livello l’uomo è sostituito dal «cazzo» che va «in primo piano» (dunque è la sfera pulsionale che prende il sopravvento); sul secondo il «pene» è sostituito dalla sua «foto» (quindi la rappresentazione della pulsione al posto della pulsione); sul terzo lo «screenshot» invece della foto originale (dunque la rappresentazione della rappresentazione al posto della rappresentazione della pulsione). Capiamo così la funzionalità del “tu”: in un gioco di layer e jpeg, l’io è del tutto oscurato; e la non risposta della «ragazza», «le presine ricamate da tua madre», la «luce» non sono altro che gli step fondamentali di questa eclissi: incomunicabilità, abbassamento e cecità.

Moltitudine, sproporzione, riduzione

La riproducibilità tecnica della soggettività, l’iper-rappresentazione, ha dunque come effetto – stando almeno a questi materiali – una riduzione della soggettività stessa. Questo avviene in primis come confronto con una moltitudine (il social è un media pervasivo, permette a tutti di auto-rappresentarsi, al contrario della selezione e gerarchizzazione delle star televisive), quindi con una sproporzione incontrollabile, che è quella invisibile, caotica e onnipresente del virtuale. Posta la sua ineliminabilità come sguardo, rigurgito o scena, la soggettività risulta così una matrice indebolita – dall’ipertrofia dei linguaggi (Policastro), dalla delegittimazione (Corsi), dal voyeurismo alienante (Innocenti). È bene sottolineare comunque la specificità di tale riduzione: non una “semplice” – per quanto presente – desacralizzazione (che, come insegna Bachtin, torna periodicamente nella storia della letteratura), bensì la sfida a una realtà algoritmica. La riproducibilità tecnico-virtuale riduce la specialità del soggetto poetico tramite il numero (spropositato) dei “soggetti poetici”, ma soprattutto tende a convertirlo in un contenuto che si localizza a seconda della profilazione, in una delle molte e innocue perturbazioni dello scrolling.


[1] In un altro articolo per lay0ut magazine ho parlato della soggettività come centro gravitazionale della poesia lirica: https://www.layoutmagazine.it/lirica-ricerca-saggio-poesia-teoria-del-tutto-poetico/

[2] Sono tutti temi su cui si potrebbe condurre un approfondimento specifico. Nel frattempo rinvio a questo articolo di Demetrio Marra e ai testi che lui cita a sua volta: https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_286.html.

[3] Cito dalla nota che chiude il libro: G. Policastro, Inattuali, Massa, Transeuropa, 2016, p. 40.

[4] Di crepuscolarismo a proposito dell’ultimo libro di Corsi ho parlato qui: https://www.rivistagradozero.com/2021/07/27/crepuscolarismo-e-parodia-in-la-perdita-e-il-perdono-di-roberto-r-corsi/


In corpo testo: Irina Rozovsky, Untitled from Miracle Center, 2020. In copertina: untiteled da Mountain Black Heart + da: In Plain Air

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