Lebensformen – un inedito di Simona Menicocci

Si consiglia la lettura da computer


Fuori non è rimasto nulla.

Le ciglia, le palpebre, gli occhi, per la strada, sull’asfalto, tra le batoliti. 

Non si sa cosa le abbia uccise, uccida, ucciderà.

Le interpretazioni si accumulano, diventano leggende, promesse, minacce.

Durante il corteggiamento depositano pacchetti di sperma sul terreno.

Quando riescono abortiscono.

Squarciano città, fondali, stratosfere; gloglottano.

Nelle giornate migliori e senza nuvole vengono licenziate con un sms.

Fotografano i disastri; non riconoscono le familiari.

Quando sfondano le prede entrano dagli occhi, non trovano più la via d’uscita.

Senza pelliccia, stridule, completamente inermi.

Possono sopravvivere al congelamento per 24 mila anni.

Fuggono davanti al passo impacciato e gommoso, monumentale, delle stampelle.

Dicono addio ai padri, alla storia, proclamano la fine di ogni militanza, dopo aver ereditato.

Lallano il rancore, la lotta di classe.

Si danno fuoco per scaldarsi.

Scavano nei pavimenti per coprire le loro tracce, non farsi trovare dal mercato.

Nei fine vita ricorrono a badanti e infermiere; le mani nell’ano, la bava alla bocca, le vertenze.

Mentre sono al bar con le hits anni ‘90, l’endometrio si spappola; la paura di attraversare il parco di notte. 

Escono dai muri, dalle retine, incontrano gli occhi nei corridoi, penetrano il buio che le penetra.

Sono le cose che sono, venute per spaventare.

Eruttano spettacolarmente; alla speranza preferiscono il rancore.

Aggrovigliate in elastici per capelli, guarnizioni di plastica, braccialetti di identificazione.

Immaginano davanti ad alveari di astri, alcuni tipi di prose.  

Hanno case piene di dolore; si nutrono oscillando il becco piatto.

Eseguono isterectomie nelle cantine, tra le muffe; bloccano l’estrazione di plusvalore.

Soffocate dall’azoto liquido, precipitate da un’impalcatura o schiacciate da un tir.

Si bloccano di colpo, sintonizzate con le urla che attraversano i muri, gli spaziotempi.

Dove non ci sono alternative di reddito praticano il bracconaggio.

In tute bianche e mani in alto, vengono caricate sotto gli archi degli arcobaleni.

Registrazione, sauna, spoliazione, rasatura, doccia, abiti.

Nude, svagolano tra la neve, nei recinti, a venti sottozero, violacee.

Se rimangono gravemente ferite sul campo vengono riportate al nido e mangiate.

Alcune danzano euforiche davanti alla possibilità permanente che altro si dia. 

In solitudine, perdono la capacità di riconoscere i volti delle loro consimili.

Devono fare i conti con la povertà, ricavarne alimenti, cure, fibre.

Quando vengono colpite da domande sul futuro febbrìcitano.

Vedono il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, tra predazione e simpoiesi.

Confinate in uno spazio assente, si tagliano per provare ancora qualcosa.   

Inizialmente invisibili, crescono filiformi, serpeggiando tra i tessuti cui sottraggono nutrimento, voglia
[di vivere.

La sera o la mattina vengono in superficie per nutrirsi, rinfacciare.

Incastrate tra i vetri, sezionate sotto le lenti, guardano in alto in cerca di stelle polari tra le luci dei neon.

Producono rovine, spazi abbandonati dalla produzione di beni.

Durante le manifestazioni respirano gas che inducono sanguinamenti, crampi, aborti; si accasciano nella sicurezza.

Vogliono lasciare il mondo in condizioni migliori di come lo hanno trovato.

Si avventano sul cibo; sbranano, sbranandosi.

Sono morte tutte assieme 50 milioni di anni fa.

Per paura della solitudine si accoppiano con pessimi esemplari.

Alcune vogliono stare dall’altra parte del muro.

Altre vogliono abbattere il muro.

Giocano a correr via, gridando, ad occhi chiusi.

Prima di uscire, con cura, si intabarrano nel cellophane.

Tentano l’uso delle code, di impiccarsi.

In fila da giorni nei tunnel delle cannucce di plastica, non parlano mai del fuori, del dopo.

Inventano storie ambientate nel non c’è niente da fare degli esperti.

Vengono eliminate perché sanno troppo, indurre un aborto.

Albeggiano facendo graffiti, spazzando via il decoro.

Tra le uova degli acari nascono movimenti convettivi per rovesciare  lo stato di cose presente.

Sulle spiagge fotografano bagnanti, naufraghe, intestini ripieni di plastiche.

Come vedere la vita di tutti i giorni, ma dentro il loro stomaco.

Meglio sarebbe stato mai nascere in tali condizioni.    

Sopravvive solo chi si allea, chi genera parentele impreviste.

Non si sa chi siano, quante siano, se siano morte insieme o in periodi diversi, sul posto o se le abbiano portate lì in seguito.

Quando si svegliano spostano le latte, i catodi; rotti i vetri, tentano di disseppellirsi.

Sono in grado di imitare e di ingannare e, secondo alcune, hanno anche senso dell’umorismo.

Impiegano 400 anni per decomporsi.

Non sanno nulla che sia consolatorio, saggiano il rancore della conoscenza.

Evacuazioni ogni due ore, i pallori, gli sgomberi.

La tragedia dei beni comuni.

Numerano gli olocausti mentre rosicchiano la matrice delle ulne.

In un altroquando sarebbero state bruciate vive.

Nascono in enormi incubatori, agiscono per organizzare il pessimismo. 

Selezionate per crescere esponenzialmente in pochi giorni nell’impossibilità di camminare o di respirare.

Partoriscono da sole, nelle celle, le sentono urlare fuori dalla cittadinanza.

Nelle ultime fasi di evaporazione esplodono generando un’enorme quantità di raggi gamma.

Apostrofate in vario modo: guerriere, schiaviste, parassite, becchine, cesse, streghe, erbacce.

Con l’aria stralunata di notti insonni, sembrano provenire da una dimensione laterale e gridano, artigliando.

Dentro i nidi muoiono di vecchiaia o di malattia, rimangono immobili o cadono sul fianco con le zampe raggrinzite.

Non è prevista alcuna cerimonia.

Tarsi, sterniti, femori, palpi, antenne.

Imparano a parlare tardi, a fatica, l’euforia per la prima parola: la stazione di polizia che brucia.

Dopo anni si risvegliano, raggiungono la temperatura di mille gradi, zampillando.

Sui battiscopa gli appuntamenti per discutere come aggirare le squame di pelle, se utilizzare il futuro anteriore o il presente nei comunicati. 

Inquiete, non restano della loro opinione un giorno intero.

Senza mai essersi fermate: estrarre, svuotare, recintare, affamare, divorare, disboscare.

Non potendo acquisire libertà dal lavoro diventano intransigenti: acquistano solo con la spedizione in giornata.

Si attorcigliano sui letti, si rompono in lampi, acque.

Rimandano il sesso al weekend, all’estate ventura, all’età della pensione.

Non andranno mai in pensione.

Nel fondo, soffocate durante la tratta.

Fanno fuoco, esplodere la terra.

Eparina, emicrania, vomito, delirio.

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Nota critica

Fuori non è rimasto nulla. Così inizia questo Lebensformen e c’è, nella poesia di Simona Menicocci, una radice profondamente creaturale, una sorta di ossessione costante per le forme di vita e per la loro assenza, in un gioco al disordine che crea superfetazioni e ibridi, inserito in un ampio bacino di contaminazione grammaticale.

È stato Andrea Inglese a parlare, per Simona Menicocci, di una poesia grammaticale, «perché vuol bene alla grammatica, con un affetto filosofico, ovviamente»[1] e questo strumento offre a noi lettori la possibilità di assistere a uno scavo paleontologico. Qualcosa è successo (Ieri? 24 mila anni fa?): Non si sa chi siano, quante siano, se siano morte insieme o in periodi diversi, sul posto o se le abbiano portate lì in seguito.

Le creature qui descritte parlano, comunicano, malgrado ci siano termini legati alla impossibilità della parola[2], alla lallazione, al balbettio: Lallano il rancore, la lotta di classe.

Ombre, quelle descritte dalla Menicocci, che sintetizzano leggende e illusioni di ogni epoca, si riconoscono le erinni, le femministe, le streghe, i mostri e gli animali a cui appartiene un femminile generico (secondo chi scrive bellissimo) che viene usato per presentare l’olotipo di questa nuova specie, che resiste ai ghiacci e ai fuochi, che cerca a un tempo di accoppiarsi e di abortire. È un testo mitologico, questo, e il mito, qualunque e in ogni tempo, altro non è che strumento di raccordo di un popolo o, come in questo caso, della specie.

Giuseppe Nibali


[1] https://www.nazioneindiana.com/2017/10/08/prove-dascolto-14-simona-menicocci/

[2] O, ancora meglio, alla costruzione prima di un primitivo sistema di comunicazione


Simona Menicocci (1985) vive e lavora come insegnante a Roma. Ha pubblicato Il mare è pieno di pesci (Benway Series, 2014); Manuale di ingegneria domestica (Arcipelago, 2015); glossopetrae / tonguestones (IkonaLiber, 2017); Saturazioni (dia°foria, 2019), H24. Materiali per un film (Blonk, 2022). Dal 2015 cura, assieme a Fabio Teti, il laboratorio di scritture contemporanee Prove d’ascolto.


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