il male giuseppe nibali

Il male – Un racconto inedito di Giuseppe Nibali

26 aprile 1986 – 26 aprile 2021: oggi ricorrono 35 anni dal disastro nucleare di Chernobyl.


A Federico

Il male


Piccoli uccelli volarono ora, strillando, sull’abisso 
ancora aperto; un tetro frangente bianco si sbatté 
contro gli orli in pendio; poi tutto ricadde, 
e il gran sudario del mare tornò a stendersi 
come si stendeva cinquemila anni fa.

Herman Melville, Moby Dick
A me sembra che la Zona faccia passare solo quelli che... 
che non hanno più nessuna speranza... 
non i cattivi o i buoni, ma... Gli infelici!

Andrej Tarkovskij, Stalker

Stiamo scrivendo qualcosa e tra quanti ne scrivono uno è stato l’autore. L’autore pensa che è in noi che cresce il male. Non negli altri che passano la strada e dalla piazzetta fino al tram malgrado questo vivere, vivono si baciano scopano.
Solo in noi. E io mi vedo nel fuoco, guardo il corpo che si fa gelo, poi gas e fiamma che lo irrora, il calcificarsi vedo dell’ascesso nel nero. Ubi pus ibi evacua e letteralmente sprofondiamo tutti noi con il crollo. Nel fondo troverete il buio, nel buio troverete i suoni. Ascoltate dunque gli òmeri, le tibie, sentite il loro canto di coleottero.
Lentamente, fiore da fiore morto generato si è alzata questa ortica, ho parlato con lo pneumologo, il gastroenterologo si è detto interessato ai miei problemi ma invece io sono sempre qui che registro il mio nome al centro medico, sto in fila alla cassa del comune, indosso il pulsossimetro, pago il ticket spendo quarantacinque euro a settimana da un bravo terapeuta.
Cresce nel mio stomaco, si allarga, di notte lo sento che fa i versi come di un pappagallo che in gabbia col becco provi a rigare i ferri che lo stringono. E impazzisce. E io avevo un parrocchetto, pensate, e ogni sera gli accendevo la luce della stanza perché mi pareva che fosse morto e invece ogni notte lui era al più spaventato e io più spaventato ancora che morisse.
Ma non è finita mai nemmeno adesso, ora mentre scrivo la mia compagna non risponde al telefono, mia madre non risponde al telefono e quando loro non rispondono è come con il pappagallo ché significa che possono essere morte e possono essere cose che sono morte e io allora chiamo e chiamo dieci venti volte anche in una sola ora ed è un inferno per chiunque mi si accosti, vivere. Di questo parlo spesso col terapeuta, parliamo del male e io gli dico che sono tanatofobico e lui dice che è tanatofilia e ci troviamo alla fine tutti e due a parlare per un’ora della morte.


Stiamo scrivendo qualcosa e tra quanti ne scrivono uno è stato il bambino. Il bambino ha fatto un viaggio.
Siamo partiti con il papà e la mamma. E con noi un’altra coppia. E con loro Martina che è la figlia di questa coppia. Martina è grande, non ha la mia età che è l’età delle caramelle mangiate dieci a dieci. È bella Martina: 16 o 17. Da Milano siamo partiti. Atterrati a Kiev.
C’era la voce di qualcuno, nel bosco.
Da Kiev abbiamo fatto 120 chilometri di autobus, due ore, due ore e mezza. Ci siamo fermati poi in una specie di area di servizio. Abbiamo mangiato una barretta a testa. Solo cose confezionate, hanno detto, e mai dentro la zona di esclusione. Martina sua madre faceva il medico e per questo noi sapevamo tutto. Lei e la mamma sono andate in bagno. Io sono rimasto con i maschi. Pisceremo lì, ha detto papà, l’altro uomo ha riso. Ho dimenticato il suo nome.
Se è iniziata da qualche parte è iniziata che ero in palestra, andavo dove andava mio cugino perché io volevo essere come mio cugino che era bello e che mia mamma mi diceva che dovevo studiare bene come studiava bene mio cugino.
Bene, lì nello spogliatoio c’era un posto che non ci andavo mai perché era un posto dove c’era il mistero e io non mi piaceva il mistero. Quella volta che ero in palestra invece ci sono andato. Era la zona dove gli uomini adulti parlavano che erano dei samurai, che sarebbe tornato il tempo dei samurai.
Io ho sentito un grande freddo, in quel posto che quella volta non c’era nessuno, ho inspirato tutto il gelo che c’era e ti amo mi ha detto il male e come faccio a non riamarlo io che non chiedo altro? Quando sono andato a casa ho fatto a corsa quei quattro passi fino alla via, ho stretto forte mio padre gli ho detto che non avrebbe dovuto lasciarmi mai, gli ho detto del freddo che mi aveva preso il cuore e che ero diventato triste, tutto triste d’un colpo solo. E per nessun motivo.
Se è finita da qualche parte è finita che calpestavo le erbacce. Con noi le calpestavano scesi dall’autobus alcuni russi, una coppia di americani. Dicevano: Look at me! Take a picture of this atomic shit! Poi molti giapponesi e gente lì dell’Ucraina. Pripyat, si chiamava, con le case tutte quadrate. La guida ha parlato in russo e poi in inglese, mamma si è abbassata in ginocchio per dirmi la traduzione, lui ha gridato qualcosa, mamma ha chiesto Sorry, si è rialzata e ha tolto la terra dal ginocchio con la mano.

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Non si poteva toccare niente, ci hanno dato un fischietto, non andare troppo in giro, hanno detto e che il fischietto era se arrivavano i cani. Tra due ore al massimo di nuovo tutti al punto di ritrovo.
Faceva la terra profumo di fiori, ma poi c’erano tra gli alberi i palazzi. Uno, il primo, grandissimo: dieci o venti piani e sopra una rosa con dentro la falce e il martello.
Ci hanno dato anche un telecomandino giallo per misurare le radiazioni, io l’ho messo in tasca e dopo mi è caduto nell’erba. Chernobyl tour c’era scritto sopra.
Basta.
Al laghetto siamo arrivati tutti insieme e infatti non è lì che è successo. Lì c’erano pesci grossi come cani e tutti noi e i turisti giapponesi abbiamo preso a dargli il cibo anche se non si poteva. Martina ha poi voluto una foto che le ha fatto il padre. Era in piedi sopra una struttura gialla. Con le mani mostrava il lago. Era salita sopra la struttura, una scaletta sembrava, ma il corpo aveva di traliccio. Io invece lì sotto ho visto un cartello con il simbolo nucleare, una maschera dove dentro, un grosso pesce rosso faceva fatica a prendere respiro.
Al bus siamo arrivati tutti insieme e infatti non è lì che è successo. Praticamente il sito è stato preso dagli animali. Ne arrivano di nuovi ogni giorno: lontre, passere mattugie, cardellini. I tulipani ospitano sempre nuove forme d’api. Vespe trovano rifugio sotto le rocce. Nelle caverne più sotto i vampiri, poi le zanzare che riempivano il laghetto. Oche, dall’Inghilterra.
Il sentiero boscoso è la culla delle martore, in fondo ai loro occhi la paura delle volpi che qui proliferano. Poi anche lupi, alci, più in fondo, verso il sarcofago, dove hanno avvistato i bisonti. E controllano sotto il becco delle cinciarelle, gli uomini del parco. Nessuna uguale all’altra, ogni animale qui è sempre uno soltanto. Differente, inconfondibile. Poi muoiono. Anche loro muoiono.

Alla Duga siamo arrivati tutti insieme e infatti non è lì che è successo. C’era questa costruzione immensa. Sembravano fili elettrici, un reticolato, ed era un radar una volta. Un muro, adesso, dove i merli restano impigliati. Se ne trovano ogni giorno nuovi esemplari, sotto casse, porte arrugginite, i disegni fatti nei secoli dai writer. C’è vicino il parco dei divertimenti, la ruota panoramica altissima e mai utilizzata, una giostrina per bambini. Guardiamo tutto con gli occhi della nostalgia. Non capiamo cosa succede eppure mio papà dice all’altro uomo che la Duba serviva per captare i segnali, per capire se lanciavano qualcosa fino a qui dall’Occidente. Ché erano guardinghi questi sovietici, prima del disastro.
Ma a un certo punto, dentro una casa siamo entrati, ed è lì che è successo. Martina e io eravamo vicini. Martina e io stavamo vedendo che sotto i nostri piedi c’era un giornale e che sul giornale una colomba portava un ramoscello d’ulivo. Il padre di Martina diceva che lì ogni cosa era simbolica e nel frattempo io guardavo la figlia: i suoi capelli ricci, gli occhi, era come immergersi dentro una boccia d’acqua gelida.
Gli adulti sono passati, noi siamo rimasti lì, fermi.
Dopo un po’ Martina doveva fare pipì. Me lo ha detto, io ho chiamato qualcuno ma non è arrivato. Siamo usciti dalla casa per una finestra aperta. Io ho scavalcato e lei mi ha chiesto aiuto. Al centro della radura ha fatto la sua pipì.
Martina dice che ha sognato un palazzo tutto bianco e uomini con in mano dei fiammiferi, gli uomini facevano prendere fuoco al palazzo e dentro c’erano lei e la mamma, e la mamma diceva delle bugie diceva che tutto sarebbe stato buono, il mondo. E che dio esisteva.
Mentre lo diceva andava verso il sarcofago. Poi altro ha detto, ha detto altro e a me è parso di sentire cuore doloroso dentro le orecchie e tutto un gonfiore e tutto un dolore ho sentito mentre vedevo la sagoma da terra, la sagoma di lei che toccava il sarcofago, entrava, spariva lentamente dentro il ferro. Poi tutto si è fatto rumore di pietra che batte la pietra, e silenzio.
Dopo.

Stiamo scrivendo qualcosa e tra quanti ne scrivono uno è stata la ragazza. La ragazza ha fatto un viaggio. Ma non è tornata. Non è tornata perché subito dopo mi sono trovata che galleggiavo. Ma altrove. Non si capiva. Nel pensiero avevo gli aironi quando separano le penne caudali nel volo. Quindi sono scesa nell’acquaio. Ho toccato questo ferro e ora mi pare ci sia stato un prima e un dopo. Di fuori non troveranno nessuno dei due. Ci cercheranno a lungo.
Prima del sarcofago i ricordi sono antichi: l’entrata di un hotel, il sole che cade su una sera qualunque della Liguria. Io che seguo il marciapiede per ore, arrivo, dico il nome della lista, le gambe mi tremano ma non penso al sesso tagliato dalle mutandine né all’amica ché il padre le è morto. C’era l’odore del piscio. Del mio piscio sparso sul greto.
Ma era prima. Tutto questo era prima.
Dentro il sarcofago mi sono svegliata e galleggiavo, ho starnutito ho trovato sangue sulla mano, ho capito come quando nei film si vede il fazzoletto rosso e il pubblico capisce: non un taglio sul labbro, non l’allergia. La morte.
Dopo il sangue nulla di più ho detto, semmai ho ripensato: generati non creati, della stessa sostanza dei padri, e di quando ne abbiamo discusso per ore, al catechismo.
Qui: una cupola enorme di ferro, e sotto il riflesso crea la città.
Non si respira: così ho pianto, per ore acqua è venuta dall’interno della vescica: ossa e cartilagini d’oca.
Mi sono vista.
Sono entrata dentro di me che sono dentro. Ho detto ahi! quando mi hanno punta: altro sangue, ma non è uscito tutto insieme, tutto subito, è rimasto per qualche momento ad aggrumarsi, a far spessore poi un rivolo si è dissolto nelle acque.
È stato il sangue ad attrarli: mi hanno tolto i vestiti, sono venuti come piccoli pesci alla preda e hanno morso i tessuti. Sono spariti in dieci minuti e nuda mentre mi vedevo riflessa, ho sentito viscido cuore dentro.
Scopro che non tutti sono umani.
Questa madre che qui è mia madre non ha faccia e il padre che qui è mio padre è senza occhi. C’è stato il bosco.
Dentro il bosco il sarcofago.
Dentro il sarcofago le acque: un ululato, molti ululati. Qui.
La madre dello squalo partorisce figli vivi, gli esseri che vedo vengono nella laguna a deporre uova di mezzo metro, uova di struzzo, di tacchino. Quando si schiudono lo fanno sulla pancia delle femmine. Sono vivi qui sotto, coloro che siamo.
Si vede la bava, il filamento di sperma e gli adulti che si accalcano. Pinna su pinna e nel silenzio. Sulle loro schiene mi muovo per cacciare.
Mi cercheranno ancora, non troveranno niente.
Nel sarcofago, al coperto, animali e altri animali cacceremo, troveremo triglie, carpe, muggini. Nel sarcofago, al coperto, corpi nei corpi noi siamo vivi.
Nel sarcofago, al sicuro, nella solitudine dell’uno abbiamo trovato il silenzio, nel silenzio abbiamo trovato i suoni.
Siamo morti ed è per questo che viviamo.


Stiamo scrivendo qualcosa e tra quanti ne scrivono uno è stato il lettore. Il lettore sai bene che niente di quanto si è detto è il vero. Anche se ti rimane fitto in cuore il dolore di non aver capito, non avere mai veramente capito, a questa sensazione pian piano seguirà quella più rasserenante di aver avuto bisogno, come quelli che in me hanno parlato (l’autore, il bambino, la ragazza, tu stesso) di aver avuto bisogno, dicevo, del male.

(foto di copertina: Laurence Demaison)


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