Neolatina #2 – La terra dall’alto: mito e sci-fi nella «Navis Aeria» di Zamagna

Un poema latino settecentesco che combini Virgilio e la hard science fiction, mettendo in scena ninfe e macchine volanti e anticipando l’invenzione dei sottomarini militari e la bird’s-eye view di Google Earth, senza per questo rinunciare all’orizzonte mitico della letteratura antica: quanto più improbabile giudicate una simile descrizione, tanto più forte sarà lo stupore nel leggere la Navis Aeria del gesuita Bernardo Zamagna (1735-1820), che a queste caratteristiche risponde puntualmente.

Originario di Ragusa in Dalmazia, Zamagna è un umanista integrale: sulla sua scrivania l’Odissea convive pacificamente con i moderni trattati di fisica e astronomia. Scrive anche un poema sull’eco (De Echo), altro prodotto dei suoi interessi naturalistici.

La Navis, articolata in due libri, pone al centro il viaggio aereo e la costruzione della macchina volante. Corre il 1768 e, a meno di vent’anni dal volo della prima mongolfiera con equipaggio (1784), il tema è oggetto di disquisizioni teoriche. Zamagna se ne occupa col piglio di un poeta-scienziato: la sua macchina vorrebbe obbedire alle leggi della fisica e si presenta come una barca a vela sorretta da sfere di vetro che, private dell’aria, la renderebbero più leggera dell’aria circostante, sollevandola da terra; ma è anche un apparecchio favoloso, adatto a un poema didascalico che vorrebbe intrattenere i lettori, e non solo istruirli.

Zamagna crede e non crede nella macchina che descrive. Per certi versi essa doveva apparirgli analoga alle fantasie che «uscirono dal lepidissimo capo di Luciano» di Samosata: così si esprimeva sull’argomento una sua fonte seicentesca, Francesco Lana Terzi. Ai teorici della science fiction il nome dello scrittore greco è noto per la Storia vera, breve romanzo in cui si narra la prima guerra interplanetaria della letteratura occidentale: Zamagna conosce bene Luciano e, quando cita i viaggi spaziali, sa di doverci fare i conti (1).

Che un’opera in esametri del Settecento possa appartenere alla science fiction non dovrebbe stupirci: l’interesse per la tecnica e l’aspetto narrativo-finzionale sono le strutture su cui si regge, sin dall’antichità, il poema didascalico. Non si tratta, dunque, solo del prosatore Luciano, per il quale la «fantascienza» ha del resto un carattere più individuale ed episodico; a giudicare dall’opera di Zamagna, i precedenti strutturali del genere sono poeti al di sopra di ogni sospetto: Esiodo e Arato, Lucrezio e Virgilio, Pontano e Augurelli.

Le coincidenze non si fermano qui: il ricorso alla mitologia, i riferimenti all’epica guerresca, un’estetica del mirabile che fa perno sullo stupore dei lettori sono ulteriori aspetti che accomunano la sci-fi al poema didascalico tout court. Anche Zamagna non perde occasione per decantare i prodigi della natura e della scienza, dai fuochi d’artificio alle aurore boreali, passando per le pompe pneumatiche e le scoperte geografiche (2).

Ma quella di Zamagna è anche e soprattutto una nave qualunque: l’identificazione metaforica tra nave e aeronave, oggi un po’ sbiadita, apre lo scrigno di innumerevoli altre identificazioni presenti nel testo: l’aria è un fluido, il volo una traversata, la distruzione della macchina un naufragio, il mito degli Argonauti un’avventura scientifica, e così via.

I passi che vi propongo sono tradotti secondo i criteri della rubrica, Neolatina, che potete leggere qui. Accanto al proemio, troverete il brano sulla pompa del vuoto di Boyle, in cui la morte d’una cavia animale, costretta in una campana di vetro senz’ossigeno, è trattata dall’autore con sorprendente distacco; due brani sul volo della macchina volante e sulle reazioni degli osservatori (tra cui quella delle ninfe!); e un brano in cui, muovendo dall’invenzione della nave, il poeta prospetta una rivoluzione gnoseologica e morale.

Se già altrove nel poema (II, vv. 557-561) Zamagna immaginava l’avvento d’una società pacifica, fondata sul volo transnazionale, in quest’ultimo passo trasforma la bird’s-eye view in uno spunto di perfezionamento spirituale. Sembra di leggere i resoconti emotivamente più coinvolti degli astronauti di oggi: anche qui l’osservazione dall’alto sancisce l’avvento di un nuovo ordine di cose, accompagnando l’essere umano a una consapevolezza più piena della bellezza e del dolore che popolano il pianeta.

File:Navis aeria.jpg - Wikimedia Commons
Un’illustrazione della macchina volante nell’edizione del 1768 della Navis Aeria.

I, vv. 1-15 Proemium

Qua valeat remis et vento concita puppis
Nare per aerios tractus; quanam aethere in alto
Arte regi, latias cantu vulgare per urbes
Primus ego incipiam. Longe iuvat aeris ire
Per medios liquidi campos; iuvat invia ferri   
In loca subvectum rupes atque ardua supra
Culmina Parnassi, nostris modo candida coeptis
Uranie adspires. Primam si condidit Argo
Per non tentatos ausam decurrere fluctus
Colchidos ad fines Pallas; tu nunc, dea, conde   
Argo aliam, latas caeli volitare per oras
Quae sciat; atque novas artes, nova foedera rerum,
Aeriasque doce vires. Tua gloria tanto
Maior erit; puppes quantum super iverit omnes
Haec alias, quantum maria ima excedit olympus.

I, vv. 1-15 Proemio

Come possa una nave a remi galleggiare, spinta
dai venti, per le vie dell’aria, e con quale arte al largo
del cielo la si guidi, illustrerò con il mio canto
per primo alle città latine. È dolce allontanarsi
per i campi dell’aria cristallina e in luoghi impervi
lasciarsi trasportare sulle rocche e le alte cime
del Parnaso, purché tu, Urania luminosa, al mio
cimento sia propizia; se Atena ha concepito
la prima Argo, che, su onde mai solcate prima, osava
raggiungere la Colchide, tu adesso fonda un’altra
Argo, o dea, che sia in grado di volare per le spiagge
ampie del cielo, e insegnami arti nuove, e nuovi patti
della natura, e le forze dell’aria. Tanto più
crescerà la tua gloria, quanto su ogni nave svetti
la mia, e quanto il cielo si erge sul profondo mare.

I, vv. 519-543 De ave in mole Boylea

Nam quamvis modus haud auras educere simplex,
Quid tamen ardentis referam flammaeque calorem,   
Argentique usum vivi, roremque liquentem;
Quum fragili constans e vitro est cognita moles
Admiranda tibi Boylea, haud pervia fluctu
Illa quidem aerio, simul ac occluditur oris
Subter hians aditus? Multa ergo canalibus arte   
Adpositis, ultro citroque meante cylindri
Robore in insertis apte siphonibus auram
Assidue motam certant educere vase
E vitreo. Illi instant: paullatim pulsus at aer
Effluit; ac vacuas sedes magis usque relinquit.   
Tunc videas subter, via qua patefacta, flagrantes
Extinguique faces agitati et flamine chartas
Ast intus ponitque apicem depressior ignis,
Tinnitusque negant solitos muta aera ciere.
Tunc, si forte prius sit viva inclusa volucris   
Intus, eam subito cernas languescere, et alas
Pandere demissas, ac totos intremere artus:
Iamque huc iamque illuc errantia lumina volvens,
Extremosque ciens gemitus vix ducit hiulco
Ore animam sensim fugientem, aurasque requirit   
Nequidquam eductas. Stat circum plurima pubes,
Intentosque tenens oculos miratur: at illa
Aegra cadit, clausoque iacet iam mortua vitro.

I, vv. 519-543 L’uccello nella pompa di Boyle

Benché, infatti, la tecnica per aspirare l’aria
sia complessa, perché mai dovrei dire del calore
del fuoco ardente, e dell’uso e del fluido del mercurio,
se ti è nota la straordinaria macchina di Boyle,
fatta di vetro fragile, impermeabile alle onde
dell’aria, quando venga occlusa in basso l’apertura
della valvola? Aggiunti dunque con grande perizia
dei condotti, correndovi di qua e di là, i cilindri
si sforzano – grazie ai pistoni adattati allo scopo
al loro interno – di succhiare l’aria messa in moto
dal vaso vitreo; e insistono, finché man mano l’aria
scacciata defluisce e svuota sempre più lo spazio
da cui va via. Vedresti allora in basso, sulla valvola,
spegnersi fiamme vive e un soffio muovere le carte;
ma il fuoco, dentro, più compresso, perde la sua punta,
né, muti, i bronzi emettono il tintinno loro proprio.
Allora, se per caso vi sia chiuso dentro, ancora
vivo, un uccello, lo vedresti a un tratto illanguidire,
e aprire le ali svigorite, e in tutto il corpo fremere,
finché, qua e là volgendo gli occhi peregrini, esala
i suoi lamenti terminali e, schiuso il becco, a stento
respira aria che fugge, i soffi appena risucchiati
li sogna invano; intorno stanno molti giovinetti
e osservano, senza spostare mai lo sguardo; quello
cade, sfinito, e giace morto sotto il vetro chiuso.

II, 47-95 De navis volatu

Ergo ubi post hyemem sylvas aquilone moveri,
Ac nitido adspicies phoebum splendescere curri,
Nec iam aderunt atrae, pulsa caligine, nubes;
Tu socios hortare, novasque industrius artes   
Adgredere, et liquidum siphonibus aera motis
E patulis expelle globis. Expulsus abibit
Scilicet ille, viae facilis qua ducus apertae
Extrorsum est: verum quum sedibus exiit imis,
Ostia claude vigil multa vi protinus, idemque   
Omnem aditum explora, ne qua citus irruat hostis.
Iamque graves minus atque minus, sensimque levatos
Circumfusa globos alte sustollit, et imo
Evehit aura solo. Vento vos pandite nautae
Carbasa; iam pariter sublata nat aere puppis   
Aemula pennigeris avibus. Stupet inscia turba
Attollensque oculos tacite miratur, et ipsa
Quae videt, haud credit novitatis imagine tanta
Perculsa. At dryades passim sociaeque napeae,
Quae nemora et saltus late quaeque ardua montis   
Saxa colunt, trepidae discurrunt omnibus agris,
Incertaeque animi pendent, an numina caeli
Esse putent, mira an pendentia nubila forma.
Atque aliqua aut Phoebum metuens ipsumve ruentem
Alta in nube Iovem, gressu subit invia saxa   
Pernici, penitusque cavo ses abdit in antro.
Quid fugitis? Volat acta abies tollentibus auris
Innocua, et terris longe magis usque relictis
Nubiferas sublimis adit, templa edita, sedes:
Quoque magis petit alta, homines, urbesque videntur   
Effugere, atque ipsi pariter decrescere colles.
Non tamen et libeat nimium conscendere in altum,
Summaque veloci superare cacumina nisu
Atlantis rhodopesque aut alti culmen olympi,
Sidereo vincit nubes qui vertice. Tenvis   
Aura ibi, nec generi nostro spirabilis aer
Possidet a terris longe loca. Celsior ille
Scilicet ex ima quo terra adsurgit in astra,
Rarescit magis, et similis fluit altus inani.
Tu medium lege tutus iter, mediamque teneto   
Usque viam; placida triviae sine regnet in aula
Endymion, populosque externo tutus ab hoste
Pace regat, longam neque rumpat cura quietem.
Quamquam etiam perhibent saevae post crimina Phoedrae
Hippolytum superas Lunae latonidis oras
Adscendisse: illum fortes in praelia turmas
Ducere, si quando armorum furor instat, et acer
Idaliae e regno Veneris movet agmina Adonis.
Hos pugnare juvet; mihi tu demissior ito,
Nec regna astrorum cures palantia nosse.

II, 47-88 Il volo della nave

Dopo l’inverno, dunque, quando vedrai i boschi mossi
da tramontana e splendere sul carro chiaro il sole,
né, dissolta la nebbia, incomberanno nubi nere,
fa’ coraggio ai compagni e abbraccia con solerzia l’arte
mai vista: dalle sfere larghe espelli l’aria limpida
azionando i sifoni; se ne andrà quella, scacciata,
dove il condotto le dà corso e si apre sull’esterno
la via: ma quando lascerà le sue sedi profonde,
sii sveglio, chiudi subito con forza i varchi e prova
ciascun accesso, che il nemico, svelto, non v’irrompa.
Le sfere ormai, scemando il loro peso e a poco a poco
fatte leggere, le circonda l’aria e sollevandole
da terra le conduce a volo. Marinai, spiegate
le vele al vento! Espulsa l’aria, fluttua già la nave
a gara con gli alati; ignara, sollevando gli occhi,
la folla osserva stupefatta, senza voce, senza
credere a ciò che vede, strabiliata dall’aspetto
d’un tal prodigio. Ma qua e là le Driadi e le compagne
Napee, quante dimorano fra boschi, pascoli e alte
rocce montane, corrono tremando per i campi:
non sanno più in cuor loro se davanti abbiano spiriti
del cielo o strambe sagome di nuvole sospese.
E una che teme Febo o Giove, che in un’alta nuvola
rovinino, con passo lesto tra le rocce impervie
s’inoltra e va a nascondersi dentro una grotta cava.
Perché fuggite? Vola innocua – i venti la sollevano –
la nave e, lontanando sempre più da terra, penetra
sublime negli spazi eccelsi, i regni delle nuvole.
E, quanto più alta levita, tanto più città e uomini
si vedono fuggire, le colline dileguare.
Non venga però il guizzo di salire troppo in alto
e in uno sforzo di velocità passare i picchi
dell’Atlante e del Rodope, o la vetta alta d’Olimpo,
che trascende le nubi con il capo fra le stelle:
lì si assottiglia l’atmosfera e per la razza umana
quell’aria è irrespirabile, remota dalla terra.
Salendo infatti sempre più dal suolo verso gli astri
si rarefà pian piano e in alto scorre come il vuoto;
tu va’ sicuro per la via di mezzo e segui sempre
la rotta media: lascia che nella serena corte
di Trivia regni Endimione e, al riparo da invasioni,
guidi i popoli in pace, né interrompa mai l’affanno
la lunga quiete. Dicono però che, dopo il torto
della crudele Fedra, sia salito sulle spiagge
superne della Luna, figlia di Latona, Ippolito
e guidi prodi eserciti, se la follia delle armi
incombe, e Adone va all’attacco dal regno di Venere
Idalia, ardente: lascia a loro le armi, ma tu vola
basso, rinuncia ai regni vagabondi delle stelle.

II, vv. 460-476 De naufragio aereo

Si vero, quoniam non ulla industria quondam   
Profuit effugiumque dedit, diiecta resolvat
Texta ratis laterum laxis compagibus auster
Navifragus, solum rebus quod restat in arctis,
Tunc age. Difractae si fors pars ulla carinae
Orbibus haeret adhuc integris, hanc cape dextra,   
Hanc tanto in casu sociam citus arripe, tractus
Pondere ne proprio caeli labaris ab arce,
Neu facias moriens peregrinae nomina terrae.
Nimirum, haud ulla disruptis parte globorum
Parietibus, non ipse cades simul additus, aura   
Sustentatus adhuc: quamvis discrimina multa,
Et varios cursus huc illuc actus inibis
Ventorum arbitrio; donec consistere detur
Monte aliquo, placidis ubi solvas munera divis,
Ceu quondam Aeolides Phaeacum eiectus in oras   
Post siculi casus pelagi post tristia damna.

II, vv. 460-476 Il naufragio dell’aria

Se però, un giorno o l’altro, nessun’arte ti soccorra
e ti offra scampo, e l’Austro spezzanavi ti fracassi
il fasciame, allentando le compagini dei fianchi,
allora fa’ quel che in frangenti simili rimane
da fare: se un rottame della nave è ancora appeso
alle sfere rimaste intatte, con la mano afferralo
e prontamente fattelo alleato nel pericolo,
che il peso non ti tiri giù dai culmini del cielo
e, moribondo, non invochi il nome della terra
lontana. Se si frangono le sfere in qualche parte,
tu non cadrai con loro, ma seguiterà a tenerti
la brezza in aria; incontrerai però molti pericoli,
spinto ora qui ora lì, per varie rotte, dal capriccio
dei venti, finché ti sia dato in cima a qualche altura
fermarti, e i voti sciogliere agli dèi pacificati,
come l’Eolide naufragò sull’isola dei Feaci
dopo il disastro siculo, e le perdite funeste.

II, vv. 606-620 De nova rerum imagine

At nova terrarum subter se pandit imago
Interea, ac rerum novus usque enascitur ordo,
Qua se cumque ferant oculi. Viridantia sese
Nunc nemora ostentant longe, praeruptaque versis
Antra iugis, campique et formosissima tempe;   
Nunc fluvii vitreique lacus substrataque ponti
Caerula, qua rapido ventorum agitata tumultu;
Qua placido leviter motu crispata superne.
Heic magnae incipiunt urbes se tollere caelo
Vertice turrigero; heic raris magalia tectis   
Sparsa per et valles et dumis horrida saxa
Effigiunt. Saevus ciet hac mars praelia parte
Sanguineam quatiens hastam; spumantibus illa
Fluctibus in pelagi luctatur navita, et alte
Suspiciens placida frustra me spectat in aura.   

II, vv. 606-620 Una nuova immagine del mondo

Ma un’immagine nuova della terra si squaderna
dall’alto, intanto, e appare un nuovo ordine di cose
dove gli occhi si posano: lontano, verdeggianti
foreste ora si mostrano e, capovolti i monti,
grotte scoscese, e campi, e incantevoli valli;
e fiumi ancora, e laghi cristallini e, sotto i ponti,
l’azzurro, mosso dal tumulto rapido dei venti
o appena crespo in superficie sotto un mite refolo;
qui le città cominciano a svettare con il capo
turrito in cielo, là coi radi tetti le capanne
disseminate lungo valli e rupi irte di rovi
scompaiono; di qui Marte crudele dà battaglia
agitando la lancia insanguinata; il navigante
laggiù, sulle schiumose onde del mare, sollevando
gli occhi, mi guarda invano su nell’aria abbonacciata.


Note

(1) Cfr. II, vv. 86-95. Tra i manuali di storia della fantascienza che riservano uno spazio congruo alla letteratura neolatina figura quella di Adam Roberts, The History of Science Fiction (Palgrave Macmillan, 2005); è un peccato che il poema di Zamagna resti escluso dalla pur ricca bibliografia che Roberts menziona; lo si ritrova, invece, nella prefazione di Inisero Cremaschi all’antologia Universo e dintorni (Garzanti, 1978), p. 10, ove la Navis Aeria è definita come un’«autentica proposta fantascientifica».

(2) In particolare, i fuochi d’artificio vengono trattati in I, vv. 27-33; l’aurora boreale in I, vv. 135-138; la pompa pneumatica (o macchina del vuoto) di Boyle in I, vv. 519-543; le scoperte geografiche in II, vv. 527-723.