Non raviolabile #4 – Il punto di vista del boia: tre romanzi, tre supplizi



La letteratura, anche la migliore, ha spesso dei vezzi un po’ cheap e persino kitsch, particolarmente rischiosi quando cerca di attingere alle vette del sublime e si trova invece a pavoneggiarsi in cima alla ben più modesta collinetta del luogo comune. Uno di questi è il famoso istante supremo: l’attimo in cui il personaggio si trasfigura, sia esso rapito da una visione, colpito dalla passione amorosa o folgorato dall’estasi erotica. Lo sapeva bene Balzac, maestro di ogni trucco: a concludere la Ricerca dell’assoluto, il suo romanzo forse più ferocemente beffardo, pone la madre di tutte le scene madri: la morte del protagonista, che trova infine la trasfigurazione attesa nonché la più feroce delle beffe (ed è facile immaginare quanto Balzac avrebbe apprezzato il beffardo omaggio di Truffaut nei 400 colpi). A che serve, infatti, darsi tanto da fare per raggiungere il momento assoluto, quando è sempre a portata di mano, ovvero basta crepare?

La scena del supplizio

Su tutti gli altri istanti supremi, quello del trapasso ha un vantaggio decisivo: certamente non è replicabile, almeno per il suo protagonista. Forse è proprio questa la ragione per cui la scena del supplizio è così interessante da rappresentare. Qui troviamo l’istante supremo e la sua critica, perché se il posto centrale spetta alla vittima – e chi glielo disputa? –  appena un passo a lato troviamo l’altra figura, il gran maestro di questi istanti, il boia. E il boia, appunto, ha una prospettiva diversa: produrre trapassi è il suo mestiere, la sua arte sine ira ac studio, l’esercizio secondo ben rigide procedure che fanno, di ogni vittima, il caso occasionale di una serie. Altro che scena primaria, feticcio un po’ ovvio della delegazione viennese. Qui si parla di una scena definitiva, tanto che di delegazioni ne abbiamo tre: la ceca, la messicana, la cinese.

Alberto Giacometti – Objet désagréable à jeter

E dobbiamo chiarire subito una cosa, a scanso di equivoci: è una triade sì, ma senza alcun riferimento mistico o misterico che alluda a spirituali o esoteriche triangolazioni simboliche. Qui si gemellano latitudini lontane che si incrociano ora per aver messo le mani senza ritegno in tutt’altra sostanza dall’anima: la carne umana, e con la curiosità irrefrenabile di assistere alla sua dissezione e dissoluzione, oltre che con il piacere di descrivere quello che accade operando su di lei, fino all’estrema transizione di stato.

Che siano quelle di un messicano morbosamente attratto dalle sezioni chirurgiche, ovvero quelle di un cinese imperturbabilmente metodico nel descrivere torture micidiali o ancora di un ceco scandaloso e divertito della forca, non si tratta qui di ritualità scelte a metafora di una non meglio identificata elevazione celeste. Sono i corpi dei condannati e quelli dei carnefici ad occupare la scena. Cosa accade quando il boia incontra la sua vittima? Questo è noto. Ma di rado ci si sofferma sui particolari di queste circostanze abominevoli. Di rado, ma qualcuno lo ha fatto.

Tre romanzi sul boia

Ogni delitto ha il suo colpevole, talvolta anche ben identificato. In questo caso sono tre: Salvador Elizondo, Pavel Kohout e Mo Yan: la geografia è già nei loro nomi. I tre impostori sono lontani nei luoghi geografici e il dato cronologico non li accomuna, se non un paio e solo per combinazione, per caso fortuito. Ciò che fa sì che siano i convenuti di questo ritratto è altro, ed è chiarito.

Non sono certo i soli ad aver scandagliato i recessi del boia, ma i tre in questione l’hanno fatto con un gusto tanto raffinato quanto scevro da erotismi convenzionali, sebbene ciascuno con sue esclusive peculiarità. E sono narratori che declinano le storie con tale maestria e dimestichezza da stordire e risucchiare nel gorgo del nastro narrativo che tessono. Ma se costruzione e semantica individuano distintamente tre romanzi dotati di struttura e forma uniche quanto inconfondibili e complesse, ci sono tre perni condivisi dai romanzi di questa articolata triade: l’aspetto tecnico e artistico dell’azione rituale del boia, il corpo e la carne vivificati dal supplizio e l’etica dell’esecuzione inflitta.

Alberto Giacometti – Pointe à l’œil

L’atto del supplizio si presta perfettamente a fare da cronotopo: il patibolo è il luogo, l’esecuzione il momento in cui la vicenda si compendia e da cui si dipana. Una vicenda che, per una volta, distingue bene i ruoli, dato che l’agente e il paziente dell’azione sono nettamente definiti. Per inciso, questo è il motivo per cui la tendenza a erotizzare il supplizio suona spesso falsa. Perché l’atto erotico è caratterizzato dalla reciprocità, e ciò è persino banale; e perché la tattilità suprema del sesso consiste nell’esaltare la sensibilità delle superfici di contatto, ma in un modo tale che questa superficie non funziona più come limite invalicabile tra l’interno e l’esterno, ma come soglia continuamente attraversata.

La semplicità lineare del rapporto tra agente e paziente si presta benissimo, invece, a essere assunta in una fattispecie altrettanto significativa, quella del lavoro.

  • I boia della scuola de La Carnefice di Kohout imparano il mestiere nel segno del progresso tecnico e del mantenimento di una tradizione orgogliosamente artigianale, nella cornice delle arti e mestieri tipico dell’Europa centrale, in versione real-socialista.
  • Il supplizio cinese in Farabeuf di Elizondo diventa oggetto di analisi e continua rievocazione alla luce della tecnica chirurgica, con un’operazione che è al tempo stesso di tecnicizzazione (e quindi ripetibilità, esecuzione sempre nuova di un progetto sempre uguale) e di allestimento scenico.
  • La meticolosa preparazione delle carneficine ne Il Supplizio del legno di sandalo di Mo Yan, all’interno del quadro storico della rivolta dei Boxer, rappresenta il tentativo ultimo della tecnica tradizionale cinese di affermarsi contro il preponderare della nuova mentalità europea, industriale e (verrebbe da dire: di conseguenza) coloniale.

Perché? Come? Un problema etico

Mettersi dal punto di vista del boia rispetto a quello della vittima è operazione narrativamente interessante, sia perché nella logica del racconto il punto di vista di chi agisce funziona sempre meglio rispetto a quello di chi subisce, sia perché si presta meglio alla problematizzazione etica. La domanda della vittima, infatti, è sempre soprattutto una: perché? Da qui, l’eroismo di chi attraversa i supplizi rivendicando la propria scelta e il patetismo di chi ne è pentito, da qui il progredire dell’agonia come percorso di conoscenza, il tema del delitto e della pena. Ma su questo tutto è stato già detto in modo irripetibilmente magistrale, Nella colonia penale: il racconto di Kafka tratta (anche) di questo e non c’è ormai più nulla da dire, se non aggiungere testimonianze.

La domanda del boia, invece, è tutt’altra: come? La separazione dei ruoli lo pone a valle del giudizio e della decisione della pena. Tutta la sua attività si concentra sulla modalità dell’esecuzione: la colpa del paziente è irrilevante, ancor più la sua coscienza; semmai, se ne può apprezzare la condotta durante l’operazione, lo stoicismo e la grazia attraverso l’agonia. Questa oggettivazione totale dell’atto. che rende il boia simile a un chirurgo (qualcuno che ti fruga dentro più di quanto potrebbe fare qualsiasi amante, ma senza alcuna intimità), lo porta così in primo piano, mette il lettore di fronte al fatto del supplizio e lo fa partecipe della sua sofferenza. L’azione del carnefice travalica la pagina e raggiunge la carne del lettore. 

Ed è la compenetrazione del lettore con la vittima a far sì che questi interroghi ineluttabilmente le pagine di Elizondo, Kohout e Mo Yan, implorando di rispondere e con ciò motivare forse lo scempio del corpo: l’inflizione del supplizio ad un condannato è un atto di sadismo perpetrato dal carnefice nei confronti della vittima? 

Elizondo, Kohout e Ho, in ognuna delle rispettive pagine, rispondono inflessibilmente e in modo inequivocabile: no. Il gesto di dissezione operato dal boia chirurgo di Elizondo, il calcolo della lunghezza della corda del cappio di Kohout e la previsione dei tempi di sopportazione della tortura di Mo Yan dichiarano apertamente che non vi è alcuna ricerca di piacere nel metter mano alle carni del condannato, tramutando l’uomo vivo in corpo morto.

Una trinità di autori che non si fa prendere mai la mano, proprio come i loro carnefici: non una concessione al compiacimento, piuttosto una tortuosità di rimandi cronologici, andamenti paratattici, scomposizioni temporali, narrazioni di racconti che involvono il lettore senza peraltro fargli perdere un filo che si illude di tenere per un capo inesistente.

Qualche esempio testuale

È l’effetto dell’oscillazione generata dal bipolarismo prospettico boia-carnefice che scardina il lettore dalla sicurezza del suo ruolo tradizionale: divelti i castoni semantici convenzionali, i nostri tre descrivono quello che rimane catturato dal campo visivo del boia in azione, mentre opera sul corpo della vittima, e con ciò impongono al lettore una schizofrenia magnetica. Ecco un brano di Farabeuf di Elizondo:

Salvador Elizondo, Farabeuf o la cronaca di un istante (Liberaria 2018)

La notte scende con furia su di noi, quasi cercando di occultare, quasi volesse tenerlo per sé, quel nostro mistero, coltivato pazientemente, nel corso dei giorni, nel corso delle notti di veglia  accanto a quella porta dipinta di bianco come una porta d’ospedale, nel corso degli istanti durante i quali aspettavamo con ansia l’effetto che avrebbe sortito quella droga che Farabeuf aveva portato in una piccola capsula di vetro, mentre propiziavamo coi nostri sguardi ardenti la cicatrizzazione di quei moncherini arrossati, la canalizzazione di quelle piaghe purulente che gocciolavano come minuscole clessidre sulla garza macchiata e avida che in poco tempo si saziava di pus e cominciava a trasudare sulle lenzuola di seta sulle quali giaceva il corpo inerte, muto.

(pag. 38)

Il realismo proto-immaginario di Elizondo entra subito in azione con precisione chirurgica e tempestività implacabile, rinunciando alla coordinata temporale e sbandando da un io narrante all’altro, per azzerare le categorie narrative rassicuranti e note e perché ci si genufletta alla sola pagina bianca su cui tracciare l’unica storia che conti, quella del trapasso: una tela carnale e viva, il corpo. Pare proprio di vederle quelle fotografie che scatta Elizondo, e d’altronde proprio da una fotografia scaturì la sua indagine. Sembrano film, queste storie. Potrebbero esserlo.

Pavel Kohout, La carnefice (Editori Riuniti 1980)

Era già stato stabilito che condizione per essere ammessi alla scuola media di scienze giustiziarie – così era stata chiamata definitivamente la scuola – sarebbe stata una promessa scritta di silenzio, degli alunni e dei loro genitori. In caso di trasgressione, sarebbero incorsi in severe punizioni. Per mantenere il segreto sarebbero stati necessari anche dei supporti organizzativi, perché altrettanto pericolosa dell’indiscrezione avrebbe potuto essere una semplice svista. (…) Poi sorse un altro problema, Vlk e Šimsa si trovarono ad avere su di loro tutta la responsabilità ideologica, giuridica e materiale dell’intero istituto, e per di più dovevano insegnare le due materie principali, ma dovevano esercitare anche il proprio mestiere, per non perdere il contatto con la vita, né potevano essere loro a portare gli attrezzi nei vari gabinetti, o a chiudere il portone.

(pagg. 82-86)

L’oggettività burocratica dell’organizzazione dei supplizi è inframmezzata, nel testo di Kohout, da continue folate di realismo grottesco che ne fanno, più che il contrappunto, il contesto. Anche qui la logica letteraria è di tipo cinematografico, con una costruzione narrativa ispirata al montaggio: i brevi capitoli finiscono sempre su una frase a metà, continuata in modo imprevisto nel successivo. L’ultima parola del libro, la sola volta che si chiude su un punto esclamativo e non una virgola, è “scorreggia”: l’espressione spontanea di un processo corporeo, che restituisce tutta la realtà dell’impiccagione, virata in tetra parodia. Un romanzo di manichini, tanto più artificiali quanto più fatti di carne, tanto più feroci quanto più innocenti.

Mo Yan, Il supplizio del legno di sandalo
(Einaudi 2015)


Non aveva più un uomo di fronte a sé, ma un ammasso di ossa e muscoli disposti secondo natura. Diede a Qian una violenta manata sul petto all’altezza del cuore, che gli fece rivoltare gli occhi all’indietro. Prima che l’eco di quel colpo si spegnesse del tutto, con il coltello nella destra, aveva scavato con destrezza un pezzo di carne grande quanto una moneta dal suo petto. Gli aveva tagliato via il capezzolo destro, lasciandogli una ferita che sembrava l’orbita vuota di un cieco. Secondo le tacite regole della professione, infilò il pezzo di carne sulla punta del coltello e lo alzò in alto per mostrarlo a Yuan Shikai e agli ufficiali dietro di lui. Poi lo fece vedere ai cinquemila soldati che riempivano il campo di addestramento. Il suo apprendista contò a voce alta: – Primo taglio!

(pag. 231)

Qui la scrittura è puramente esteriore, referenziale: ogni gesto, espressione, stato d’animo è descritto nella sua manifestazione esterna e solo in essa. In questo modo, la costruzione letteraria diventa messinscena impersonale, nella quale l’interiorità dei personaggi è, quasi pudicamente, tolta di scena. Quello che resta, allora, è un gesto anonimo e tanto più significativo, stretto tra l’apparato di norme che lo prescrive e lo giudica e la concretezza del suo agire, sempre individuale, irripetibile, sporca. In questo straniamento più che brechtiano, il risultato è l’emersione del quadro storico e sociale, che non perde nulla in termini di efficacia evocativa, tanto che la carne in cui va in scena il teatro dei supplizi è davvero quella del lettore. Anche qui siamo di fronte a uno stile cinematografico, nel quale ciò che accade viene mostrato più che detto e ciò che viene mostrato è il contrasto tra la norma e la carne. L’autore di riferimento è chiaramente Zhang Yi Mou, che da Sorgo Rosso di Mo Yan ha tratto un suo fondamentale film.

Alberto Giacometti – Composition (Homme et Femme)

Attraverso il prisma di tre letterature diverse e stilisticamente lontane, moltiplicato dallo sviluppo frammentario delle loro strutture e da una vocazione cinematografica comune quanto eterogenea, viene così alla luce il cronotopo per eccellenza. Il supplizio, la scena definitiva, rappresenta la polarità magnetica cui tende ogni ordine sociale, tecnologia, relazione. Non per un banale gioco sadomaso, ma per l’infernale serietà dell’esistenza. Quella stessa che fa del boia, per riprendere il giudizio di De Maistre citato da Kohout, il custode e il fondamento ultimo di ogni ordine, anche di quello narrativo. E qui siamo di nuovo – se mai ne siamo usciti – nella colonia penale.

Articolo a cura di S&F

In copertina: Alberto Giacometti, Femme égorgée


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