Non raviolabile #1 – Intrecci: Locus Solus di Raymond Roussel

«Siamo la pasta che avanza quando premi il bicchiere sulla sfoglia ottenendo così i ravioli e i ritagli di pasta che poi vengono rimpastati, matterellati e poi vengono di nuovo sfogliati. Premi il bicchiere e fai altri ravioli con la pasta di avanzo: comunque la vedi rimane sempre uno scarto che prendi, reimpasti, ristendi e ritagli. Altri ravioli finché gli avanzi sono troppo pochi per fare anche solo un raviolo: allora la pasta che avanza la mangi cruda oppure la butti nella spazzatura. Io sono lì nel tuo stomaco, indigeribile, perché non raviolabile, oppure fra gli scarti, degradabile.»

Prendiamo in prestito da Metafore degli Uochi Toki il titolo di questa rubrica a cura di Arianna Bonino, che intende accogliere in Discorsi libri e scritture appartate, fraintese, trascurate, obliate, sconosciute o non facilmente categorizzabili: residui di pasta freschissima che rifuggono la forma del raviolo, avanzi da mangiare crudi quando il resto è stato già cucinato, condito e digerito dai commensali che gozzovigliano di là, nella sala da pranzo gremita.


Locus Solus

Il mondo di Locus Solus – libro uscito per la prima volta nel 1914 – è una creazione in divenire e senza creato: il suo autore Raymond Roussel ha scoperto qualcosa di paragonabile ad una pietra filosofale del linguaggio, che si fa generatore di incantesimi ed equivoci, sensi e significati paralleli, multipli, ma al contempo armonici e ipnotici, come formule magiche che acquistano un significato nell’effetto che fanno, un effetto che è il “meravigliarsi” non degli eventi, ma degli universi di significato che la parola ha il potere di creare.

Questa creazione nasce programmaticamente dal caos: Roussel scriveva singole parole su strisce di carta che mischiava per estrarne terne casuali, a partire dalle quali inventarsi dei collegamenti. In principio, dunque, erano sia il caos sia la parola e da questa congiunzione nascono mondi narrativi progettati a partire dagli arredi, dai contorni, dagli ammennicoli; alla struttura portante, in questa visione architettonica che spinge il barocco all’estremo, la struttura, l’intreccio, la narrazione viene dopo, è un di cui puramente funzionale. Eppure proprio per questa sua funzione quasi ancillare, essa afferma la sua importanza decisiva, da cui scaturisce la straordinaria capacità ammaliatrice che irretisce il lettore, che deve andare avanti spinto dalla più infantile delle domande: e adesso cosa succede? E succede tutto, perché tutto può succedere, pur non accadendo nulla. L’avventura di Roussel non è un viaggio per mari o una storia di conflitti e amori, è piuttosto un magma iridescente e duttile, che si plasma per opera del pensiero che legge e che a quelle parole dà sostanza. Locus Solus è tale perché unico e unico perché individuale.

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Raymond Roussel con piccozza e lanterna da minatore, Berchtesgaden, circa 1926

La scrittura di Raymond Roussel è guidata dalla trama: le parole si inseguono per non perdere il filo di una narrazione continuamente in fuga, nella quale ogni accadimento, ogni descrizione, apre un nuovo piano degli eventi.
Sono eventi che non accadono, che dovremo presto chiamare espedienti, perché qui ciò che accade è il linguaggio stesso, non una storia di cose o persone. La parola, come spesso accade nei dintorni di Roussel, va intesa in entrambi i sensi: come sostantivo, nell’accezione comune di trucco o manovra ai limiti della ciarlataneria per trovare una via d’uscita da un viluppo o per far accadere qualcosa; come aggettivo, nel senso che l’evento vale per la sua capacità di ex-pedire, di creare un varco inatteso tra gli impedimenti che le cose, nella loro gravità materiale, frappongono al corso delle vicende.

Ma illustriamo un po’ il contesto: Roussel viene prima. Nato nel 1877 a Parigi, morto nel 1933 a Palermo. I surrealisti, che lo veneravano, vengono dopo di lui; il nouveau roman, che ne riprende la lezione di microletture e straniamenti, in cui la parola gira intorno alla cosa, dopo ancora. Michel Foucault, che a Roussel ha dedicato un volume di rigorosissimo close-reading (Raymond Roussel, Gallimard 1963), deve forse le sue osservazioni sulla microfisica del potere (forse il suo contributo maggiore, senz’altro le sue pagine più acute) alle letture rousseliane; John Zorn ha intitolato Locus Solus una raccolta delle sue prime improvvisazioni, come a indicare il punto di riferimento e di origine di un tragitto musicale che, per sperimentazione e spregiudicatezza, si lega idealmente alle giravolte del nostro.

Giravolte non solo verbali: viaggiatore stravagante Roussel, che percorse mezzo mondo con la sua bizzarra roulotte, un pensatoio su ruote con cui raggiungere posti esotici, lontani, diversi, ma senza mettere mai realmente i piedi per terra, senza scendere dal viaggio, fermo nel luogo e mobile nel pensiero e nella ricerca incessante della parola sfaccettata, mutevole e cangiante.

Roussel è, in questo senso, un esploratore dello spazio, che diventa una dimensione inaspettatamente duttile e dalle qualità paradossali: ci si sposta rimanendo nello stesso luogo, come nella roulotte dell’autore, o si cambia di luogo senza davvero spostarsi, come fanno i personaggi di Locus Solus. Tutto il romanzo, infatti, non è che la cronaca di una visita alla immaginifica tenuta del dottor Canterel, scienziato e taumaturgo che, nello spazio chiuso di Locus Solus, crea mondi che raccontano storie, sciorinando tutte le bizzarrie di Méliès. Ecco allora che la narrazione complessiva coincide con l’itinerario tra le stravaganti installazioni che costellano questo luogo; ognuna di queste, a sua volta, serve da tableau vivant per raccontare una storia, da incarnazione fisica di complicatissime sciarade, tanto che lo sviluppo degli eventi somiglia all’esposizione di un gioco enigmistico.

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La roulotte di Roussel (Sic! Una vasca da bagno nella roulotte!)

E non si cada nell’errore di sfogliare le pagine di questa mappa dell’incognito alla ricerca di personaggi: non ve ne sono. Figure sì, ma monodimensionali, cursori insensibili del viaggio, lenti di ingrandimento per il lettore che, concentrando lo sguardo su quel fuoco nel tentativo di scoprire l’architettura e il senso del racconto, verrà sorpreso invece dal caleidoscopio di oggetti senza utilità e perciò affascinanti nel loro consistere misterioso, enigmatico quanto gli aneddoti in cui figurano, in un fluire che abbandona ogni costrutto convenzionale e moltiplica in rivoli capillari le storie, senza con ciò perdere una rigorosa struttura e armonia che si percepisce nel vortice icastico dell’andamento narrativo.

Qui è facile vedere all’opera tutta la carpenteria del romanzo filosofico e, in particolare, della sua traduzione francese: storie a chiave, descrizioni al limite del verboso di macchine più metafisiche che tecnologiche, aneddoti storici piegati a parabole, lunghi dialoghi meramente illustrativi, fino alla collocazione della scena in un luogo utopico, perfetto per presentare il gioco delle idee senza doversi prendere il fastidio della loro realizzabilità. Però, mentre ci accingiamo ad assumere la posa meditabonda che si confà a simili letture, ecco che Roussel fa una piroetta, muove un fazzoletto e, oplà, trasforma tutto questo in un godibilissimo trascorrere favolistico, nel quale si ritrova il piacere quasi infantile della lettura, della narrazione.

Contributo fondamentale a questo esito felice è la consistenza eterea, quasi fantasmatica, di tutti i personaggi della vicenda: i visitatori della tenuta di Canterel – tra cui lo stesso narratore – non hanno maggiore caratterizzazione e profondità dei cadaveri che entrano in scena nel terzo capitolo: rianimati da Canterel, vengono intrappolati per sempre in un gesto chiave della loro esistenza passata. Qui siamo dalle parti del teatro dei manichini di Bruno Schulz (Le botteghe color cannella): il corpo inerte che inscena un minuscolo frammento diviene, come si diceva prima, l’espediente che innesca una digressione narrativa, dalla quale possono diramarne altre; ma questo supplemento di narrazione non mira a restituire la memoria perduta, bensì a costruire un’operazione del linguaggio che si fa sempre più autonoma dalla sua origine.

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D’altronde Roussel ci aveva avvertito: «L’immaginazione è tutto». E una storia che non ha inizio né trama, non può nemmeno avere un finale. Così nel libro e così anche per Roussel, che il 14 luglio del 1933, in una notte di mezza estate palermitana, viene trovato cadavere nell’albergo “Le palme”. Se fosse stato nel Locus Solus, nel mondo che lui stesso aveva creato, forse Canterel sarebbe riuscito a resuscitarlo con qualche pozione alchemica dal nome esotico e mistico. Come sia morto e per quali cause tuttora rimane un mistero. Forse solo un viaggio dell’immaginazione, o forse una scomparsa, l’ultima fuga dal reale.

È curioso che Leonardo Sciascia alla misteriosa scomparsa di Roussel abbia dedicato un’accurata ricostruzione storica; è probabilmente il meno noto dei suoi testi, ma non per questo meno attraente. Forse Sciascia in quelle pagine riuscì a cogliere il segreto di Roussel. Ma questa è un’altra storia.


Articolo di S&F

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Raymond Roussel
Locus Solus

Traduzione di Susanna Spero
Edizioni Grenelle, 2017
272 pagine
18 euro