Pelle blu e lingue di pietra: l’alfabeto di Carola Provenzano 


Carola Provenzano: un’intervista sulla serie Alfabeto

Questa conversazione inizia con una storia che non le appartiene e non finisce affatto.
Questa conversazione inizia con la pratica di un’artista, con uno sforzo singolare di raccontare il mondo, e (non) termina in un progetto di costruzione diffusa.
Questa conversazione parla di silenzio, di voci mute, di parole più profonde delle parole, senza suono.

Questa conversazione nasce da un progetto dell’artista Carola Provenzano (@carola_provenzano): un alfabeto. O meglio: una serie di immagini, segni, lettere che insieme possano essere considerate la base di un linguaggio per raccontare le storie – storicalmente, socialmente, ingiustamente – condannate al silenzio. La loro vocazione politica si rispecchia così anche nel supporto: non carta immacolata (nessun linguaggio nasce lontano dai campi di battaglia e dalle case abitate) ma giornali d’epoca, con le loro narrazioni, le loro accuse, le loro omissioni.

Ma questa intervista non si limita a ripercorrere le forme e le motivazioni di una serie di opere: è proprio durante la conversazione che nasce la necessità di espandere il progetto ad altri artistx, studiosx, poetx, performer nel tentativo – poetico, giocoso, impossibile ed estremamente carnale come tutta la pratica artistica  – di creare un linguaggio che sia comune, condiviso e, di conseguenza, efficace nel mondo.

Questa conversazione è quindi, a conti fatti, nient’altro che il racconto di un inizio. Ne seguiranno immagini e parole donate da una comunità transitoria che, un pezzo alla volta, sta costruendo il suo alfabeto.

1. Una storia – lingue di pietra

Qualche milione di anni fa, gli elefanti abitavano quella che oggi chiamiamo Lombardia. I resti fossili dei loro denti, frantumati in lamelle ormai pietrificate, hanno iniziato a riemergere dai campi zappati molto prima che chiunque avesse mai studiato il processo di fossilizzazione. Per questo, i contadini che per primi li ritrovarono arando i propri campi li scambiarono per lingue pietrificate. Lingue potenti, lingue di streghe, a cui venivano conferiti poteri magici e curativi.

Un’alleanza, questa, forzatamente muta, stretta per necessità tra corpi femminili e corpi animali: distanti nel tempo, non riconosciuti o irriconoscibili perché mancano del tutto le parole per dirli. Oppure le parole c’erano, ma sono state sottomesse, rese inaccessibili, pericolose, come quelle lingue di donne-streghe preziose solo perché rese inoffensive. 
Accorgersi di questa storia, però, valutarne il potenziale metaforico, significa riconoscere l’esistenza di un’altra narrazione carsica o silenziata, ancora alla ricerca delle parole per essere raccontata.

immagine a sfondo nero contenente vari reperti fossili di denti di Mammut dalla forma simile a una lingua
Lamelle di denti fossili di Mammut, Pleistocene Superiore


2. Un tentativo – pelle blu

Le metafore – scriveva Sabloff in Reordering the Natural World1 “ci permettono di dare un senso alle esperienze della vita non altrimenti definibili […] [e sono] da tempo riconosciute come una modalità di base e pervasiva della cognizione umana”

L’immagine metaforica eppure corporea, reale, della lingua di pietra diventa quindi un’opportunità di senso per leggere storie invisibili o mute che hanno silenziosamente abitato la terra, o ancora la abitano. Un segno che racconta qualcosa. Che poi altro non è che il modo in cui davvero si formano le parole, o meglio i segni che abbiamo per comunicarle. Se questo è più evidentemente negli ideogrammi, dobbiamo pensare che anche le parole dell’alfabeto latino che utilizziamo erano in origine teste di bue, onde del mare, occhi e bocche2.

Se le immagini che conosciamo generano le forme che raccontano le storie che conosciamo, allora, quali sono le forme che tracciano i segni per dire le storie che non hanno voce? Si può riassumere così la domanda da cui parte l’opera-tentativo di Carola Provenzano: una serie di sovrascrizioni che trasformano le cronache in simboli, i simboli in lettere, le lettere in storie nuove.

Partendo, come già in altre serie3, da raccolte di giornali d’epoca, l’artista non si limita a sovrascrivere le pagine dei quotidiani, ma interviene sui titoli e sulle immagini, emenda, amplia. Chiama le opere che ne risultano “lettere”, basi per riscrivere le storie che “non sono state attenzionate” ma che, se lo fossero state, forse ci avrebbero portato altrove. Un alfabeto metaforico, fatto di antichi suoni, disegni, a volte semplici ricoloriture: non si tratta “di lettere vere e proprie – racconta – ma di modi di vedere”.

Così, l’immagine dell’articolo che racconta una rissa tra “violenti ne*ri” cambia colore: il colore della pelle al centro dello scandalo diventa blu e verde, così come la vedrebbe un gatto. Modificando la prospettiva, la narrazione lascia emergere il suo non detto: è un nuovo simbolo, l’inizio di un racconto nuovo nelle sue particelle elementari: l’alfabeto.


Intervista a Carola Provenzano sulla sua serie Alfabeto
Carola Provenzano, tempera su giornale a stampa, 2025

3. Una conversazione – L’alfabeto di Carola Provenzano (nelle sue parole)

Il dialogo che segue prova a raccontare questo alfabeto, le sue genesi, i suoi dolori, le sue possibili evoluzioni.

Valentina Avanzini: Potremmo dire che al centro del tuo lavoro c’è il linguaggio. Non un linguaggio colto – per quanto ricchissimo di stratificazioni, di studi e di riferimenti – ma un linguaggio vitale, nella sua funzione performativa. Per questo vorrei che la prima delle tue storie fosse questa: il racconto di quest’opera, il rendere pubblico, il “dare – fuori”, regalare questo lavoro che hai fatto. D’altronde, penso che questo sia il fine ultimo di qualsiasi forma di arte: darci gli strumenti per riconoscerci nel lavoro, nel pensiero e nell’opera di qualcun altro. Solo questo: sapere che non siamo solx. 

Carola Provenzano: Certo. Il momento in cui dici: non sono sola. L’emozione che senti quando ti leghi alla creazione di qualcun* altrx. Se provo a chiedermi, allora, perché faccio questo lavoro, perché un nuovo linguaggio? Perché l’alfabeto? La risposta è fondamentalmente perché quello che abbiamo costruito non ci rappresenta, non tuttx almeno. Noi siamo linguaggio: quello che esiste è il racconto di un racconto di un racconto. E se, da una parte, ci mette in relazione, dall’altra è anche quello che ha la forza di oscurare, di far prevalere una cosa sull’altra. Tutto quello che è raccontato, in un modo o nell’altro diventa vero: noi siamo narrazioni. È così che ho sentito la necessità di riscrivere davvero – anche per gioco – un alfabeto. Un alfabeto diverso. Ricominciamo da a, b e c vediamo dove ci portano, che vie aprono.

Come un risalire all’origine dello strumento. Così, all’origine, le lettere sono in realtà ancora disegni, sono storie.

Non che si possa realmente decidere di tornare all’origine. Si tratta quindi di un riscrivere, direi quasi un rispolverare qualcosa che è stato messo da parte. O ucciso, bruciato, non ascoltato, ammutolito, a discapito di chi – invece – da quella voce si sarebbe sentito rappresentato. La mia prima lettera, allora, può essere il colore rosso, se si presta attenzione alle sue storie, alle sue stratificazioni: il colore del mestruo, ma anche dell’ermafrodito, come lo definisce Artaud nel suo Eliogabalo. Prestando attenzione, anche solo il colore racconta tutte quelle narrazioni che, se fossero state sempre attenzionate, forse ci avrebbero portato in un luogo diverso rispetto a quello in cui siamo.

Ho sempre pensato che se ognuno conoscesse la storia di ogni parola che pronuncia – la sua origine, le sue trasformazioni – non avremmo più bisogno di musei, forse neanche di libri. Ma le parole provengono già da un sistema colto di parole, che richiede strumenti complessi e condivisi. Mi sembra invece che le tue lettere parlino a un livello ancora precedente. Radicato anche nell’intuizione, nell’emotività condivisa.

In realtà questo progetto nasce da una mia difficoltà. Il linguaggio è per me una sorta di ossessione, un limite. Un limite che in qualche modo ho risolto con l’arte, ma anche lì, ho iniziato con gli scarabocchi4. Il tentativo di tirare fuori quello che è dentro inizia sempre vacillando. Io sono un animale che balbetta. Se io non leggessi, se io non studiassi, diventerei muta. Che non è una cosa negativa. O ancora: è parlare che, per me, è una violenza. Una cosa a cui devo farmi forza.
Quando leggo, ad esempio, provo un’emozione bellissima – qualcosa che ha a che fare con i contenuti, ma anche con gli equilibri e le forme delle frasi. C’è qualcosa di incredibile nel leggere qualcosa scritto da una persona che non sei tu e sentire dentro di te: l’ha detto. Quella cosa esiste nel mondo, non solo per te. Finché rimane una cosa tua, mia, come pensiero, è singolare. Ma se qualcuno l’ha detto, è una liberazione. 

foto di un tavolo con due candele, una bottiglia, un bicchiere, tre ciotole. Sullo sfondo una finestra.

Intervista a Carola Provenzano sulla sua serie Alfabeto

E questo è vero anche se si parla di forme espressive che non sono solo linguistiche

Ma certo. Questo vale per il movimento. Vale per il rituale. Anche se il rituale ha bisogno di una comunità, di un qui e ora che invece nel linguaggio esiste, ma è diluito nello spazio e nel tempo. Io ora parlo per te, ma anche al futuro, a chissà chi.  La parola si trascina dietro la possibilità di essere futura. Di rimanere.

Come se creasse una comunità diffusa, piuttosto che presupporla

Esatto, creare una nuova comunità. Con il suo nuovo alfabeto. O anche solo per non sentirsi soli. Come dire “Tu una comunità ce l’hai, sono io”.
E questo nuovo alfabeto, come l’ho inteso all’inizio del mio lavoro, è una stratificazione di segni e significati. È MEM, ad esempio, la prima lettera che ho scritto: un suono che è una negazione, che è il mare, l’onda. Ma questa lettera non è tracciata su un territorio neutro, è tracciata su un giornale d’epoca, in cui trovi, un po’ messo da parte, un piccolo articolo riguardante Cocteau che insieme a Moretti dipinge la nascita dell’acquario. Acquario che possiamo leggere anche come segno astrologico, come forma di saggezza che abbiamo scartato, messo da parte o perlomeno etichettato come secondaria, anche se ci sono tantissime culture che si basavano su questo e i loro saggi erano astrologi tanto quanto erano filosofi, poeti e matematici.

Penso che abbiamo dei modi molto miopi per decidere cosa è importante e cosa no, cosa va conservato, curato, finanziato e cosa invece deve essere soppresso. Mi sento di dire, però, che mi sembra che l’arte contemporanea si muova prepotentemente in una dimensione opposta, in una volontà di studio di ciò che è stato cassato come “superstizione”.

Sì. E se penso a un alfabeto che parli di tutte queste cose insieme mi sembra un’impresa folle, ma ovviamente non è un’impresa: è un gioco. Come spesso accade facendo arte.

Certo, questa è una prerogativa dell’arte. Ma nel processo in cui – anche giocosamente – ti chiedi come nasce qualcosa, può germogliare davvero qualcosa di diverso.

È un modo di andare indietro – che non vuol dire solo fare filologia, ma seguire la storia, i suoni delle parole in una retrocessione folle e meravigliosa. Mi piace pensare a questo progetto come al kairos, il momento giusto, il tempo opportuno delle cose: una storia secondaria, carsica, che però esiste e si può raccogliere nel momento in cui ci si presenta davanti e abbiamo le forze di afferrarla. E recuperare anche tutti i semi marci delle occasioni che non sono state, e farli rifiorire: “Ne risulterebbe non una realtà rivelata, ma una verità che al tempo si mostra”. In conclusione: non è il tempo, ma le occasioni. E una lettera non è una lettera, ma un modo di vedere.

foto della pagina di un libro contenente il disegno di un bassorilievo con due donne in peplo e una figura che sembra librarsi in volo
Rappresentazione di Kairos

Mi racconteresti la necessità, l’occasione che ha portato alla prima lettera?

La prima lettera è la M. La M di miracolo. E non solo perché la cosa più bella e più forte che io abbia mai creato è mia figlia, che si chiama M. Ma anche perché è una lettera che mi perseguita, o meglio mi accompagna.È la M di Margherita di Bulgakov, che poi diventa Margot. Quando racconto a mia figlia le storie, o le canto per farla addormentare, la protagonista delle nostre avventure si chiama Margot, in cui lei si identifica molto.

Probabilmente perché Margot si identifica molto con lei

Esatto. E mi piace che sia una lettera con un rovescio: al contrario è W, una lettera molto legata all’esoterismo. Originariamente è MEM, l’acqua. Che poi è l’origine delle origini. Credo, come poi dicevano i primi filosofi, che se qualcosa ha avuto un inizio, lo ha avuto dall’acqua. E credo, poi, che significhi anche cerchio. Cerchio come centro, ma anche come sua assenza, continuo ritorno, mancanza di un inizio e di una fine. Per questo Mi sembra il perfetto incipit di un alfabeto che non inizia mai.

Vorrei sapere perché, a un certo punto, per te è nata questa M/MEM/origine/cerchio

Perché stavo male. E questo mi ha portato a dover ritornare al punto in cui tutto è andato storto. Sono tornata in cantina, letteralmente, dove conservavo questa pila di giornali d’epoca. Forse non so ancora verbalizzarlo bene, in realtà.

Raccontamelo come se mi stessi descrivendo la scena di un film

L’inizio è io che leggo Il Maestro e Margherita, e tutta la poesia russa, in realtà, perché a Bulgakov ci sono arrivata attraverso Marina Cvetaeva. Questa donna estremamente passionale, che ha sacrificato tutta se stessa per l’amore, anche l’amore per la scrittura. Si è ammazzata lei, i suoi figli sono morti, suicidi o di fame: il mio alfabeto nasce da quello, da queste persone che mi hanno fatto stare molto male. Quindi un mangiare, un riempirmi di parole e di vita. Nel periodo in cui ero impossibilitata ad esprimermi leggevo tantissimo, mangiavo la vita e le parole di tantissimi altri e altre. A un certo punto, però, è stato necessario buttare fuori anche la mia di sofferenza, così come quella altrui: ho pianto per me così come ho pianto per Marina e per Sylvia Plath. Ho pianto pure per Walter Benjamin, anche se è morto nel modo più stupido possibile. Così, a un certo punto di questa abbuffata di sofferenza, è arrivata Margherita, una strega folle che mi ha sconvolto, che fa sesso con Satana, che si libera, si trasforma in una creatura così forte e così meravigliosa che mi porta a rileggere tutte queste storie attraverso di lei, a voler ridare anche a loro la forza di volare nude sulla città, dandole fuoco. Sapendo che Margherita/Margot c’era riuscita, anche io ho potuto intraprendere il mio percorso, che però andava nella direzione opposta, e sono scesa in cantina. Ho ripreso questi giornali impolverati che vengono da un’altra parte molto dolorosa della mia vita e me li sono ripresi, mi sono ripresa la mia storia per buttare fuori tutto questo dolore che non era più (solo) mio. 

foto di un computer sul cui schermo una donna guarda verso la telecamera

Intervista a Carola Provenzano sulla sua serie Alfabeto
Medea, Pasolini, 1969

Sfogliandoli, il primo articolo che mi è saltato all’occhio è stato appunto un pezzo piccolo e lasciato in disparte, in cui si racconta di Cocteau che nel 1963 sta dipingendo La nascita dell’acquario insieme a Moretti. Era febbraio, la coincidenza con il periodo astrale che porta lo stesso nome mi ha attratto ancora di più. Cercando più informazioni sull’anno dell’articolo ho trovato una quantità incredibile di ricorrenze astrali rispetto al 2025 in cui ci troviamo ora. 

Come se fosse un messaggio

Sì, un messaggio che non siamo più capaci di cogliere perché ci sono troppe storie e conoscenze che non abbiamo più attenzionato. Questa mancanza di attenzione mi fa soffrire moltissimo. Non abbiamo attenzionato la notizia di Cocteau, la sofferenza di Marina Cvetaeva così come quella di Sylvia Plath. Non ce ne siamo presi cura. Non l’abbiamo vista e non ci siamo chiesti da dove viene, che cosa significa.

Quindi, questo alfabeto nasce dalla necessità di dare attenzione

Di dare attenzione e tirare fuori, tutto insieme, anche violentemente, dopo aver mangiato tanto dolore altrui, nel modo in cui si vomita fuori il veleno, il cibo, ma, un moto contrario a quello dei disturbi alimentari. Mi vengono in mente parole che avevo scritto tempo fa: vomito parole/ne tengo dentro il senso. Forse per questo questa necessità di verbalizzazione, in realtà, si risolve con una svolta iconografica, con un’immagine che richiede di portare l’attenzione lì dove non c’era, a sistemi di conoscenza dimenticati o accantonati.
C’è una scena della Medea di Pasolini che credo racconti molto bene questo stesso processo. A Giasone appaiono due Chirone. Uno, quello che lui conosce, ha forme equine, l’altro, a lui sconosciuto, è totalmente umano: è sempre lo stesso, ma nella veste razionale, logica, verbalizzata. Sarà lui a far capire a Giasone che ama Medea. Medea che pure viene spogliata del suo contatto diretto, non raziocinante con il mondo: non è più in grado di sentire l’erba, di parlare con il sole. E il suo processo di liberazione passerà necessariamente per l’uccidere, il dare morte e infine ricongiungersi con la sua natura più che umana.

Vorrei che la costruzione di questo alfabeto fosse  qualcosa di simile. Un processo di liberazione, che richiede di rompere dei legami e delle gabbie per compiersi. Una riscrittura che alla logica preferisce l’illuminazione, l’immagine che apre e che collega piuttosto che la parola che spiega. Un’alleanza più che umana con l’altro animale, vegetale, tellurico e marino, l’unione degli sguardi e dei versi, la parola-guaito.

l'immagine presa da un film contiene da sinistra un centauro e un uomo vestito di una lunga toga
Chirone centauro e Chirone uomo, da Medea, Paolini, 1969


3. Un’altra storia – scrivere insieme
Una nota finale sulle future temporalità di questo alfabeto

Per finire, vorrei chiederti qual è il futuro di questo progetto

Un’espansione. Le storie sono tante, e un linguaggio non si può costruire da soli. I giornali del mio archivio coprono un decennio abbondante tra gli anni 50 e gli anni 60. Le storie che raccontano sono spesso terrificanti, come quella della donna maltrattata dal marito insieme ai figli che finisce per ucciderlo per poterli liberare. O della terribile tribù dei Mau Mau il cui capo trovato morto dopo una battaglia viene deriso perché vestito da donna. Una condanna al silenzio a cui si può ridare voce.

Sì, sono storie che da questi articoli trapelano quasi controvoglia, ma che nelle lettere che sovrascrivi hanno invece un linguaggio scritto solo per loro

Esatto. Tutte vite nel passato che non erano mie, le cui storie sono state buttate via. Vorrei che potessero tornare ad essere al centro dell’attenzione. Anche perché sono profondamente convinta che tutte queste sofferenze, che ho letto e di cui mi sono nutrita, continuino a urlare se non troviamo il modo di dargli una voce. 

Continuare a parlarne è l’unico modo per dare un significato, ma dobbiamo trovare una lingua, e la lingua è condivisa. Può sembrare un peso, inizialmente, approcciare questo materiale, la sua storia, il suo valore: ma alla fine sono solo pile di inchiostro e carta, piene di racconti che parlano dell’umanità che siamo. La responsabilità diventa poi decolonizzarci queste parole di dosso, metterci mano. E, di nuovo, non è un lavoro che voglio fare da sola. Per questo vorrei invitare altrx artistx, poetx, creatori e creatrici di ogni forma la cui pratica possa mettersi al servizio di queste storie a partecipare alla costruzione di una lingua comune, con cui continuare a raccontare.

  1.  https://utppublishing.com/doi/book/10.3138/9780802083616
    ↩︎
  2. George L. Campbell. Handbook of Scripts and Alphabets, New York, Routledge 1997 ↩︎
  3. https://www.exibart.com/mostre/radicalita-dello-scarabocchio-carola-provenzano-al-walden-di-milano/ ↩︎
  4. vedi nota 3
    ↩︎