Quello spazio in cui non si può restare. Su un paragrafo di Jaccottet

È uscita il mese scorso per Marcos y Marcos la prima edizione italiana della Passeggiata sotto gli alberi di Philippe Jaccottet. Una precocissima riflessione sull’esperienza poetica che – pubblicata per la prima volta nel 1957, quando l’autore aveva poco più di trent’anni – delinea in maniera chiara l’orizzonte di ricerca che l’autore indagherà nei decenni successivi. Compaiono i nomi di Novalis, Hölderlin, Keats, Leopardi, Dante, Omero; tra i francesi Baudelaire, Verlaine, Claudel, Gustave Roud e Francis Ponge. Un volume di prosa critica e poetica che non si limita però soltanto a tracciare le coordinate del panorama letterario di riferimento di Jaccottet, ma che avvia anche quella che sarà una riflessione fondamentale nella produzione dell’autore, quella sul rapporto tra espressione poetica e percezione della realtà, sul rischio che la parola corre di cristallizzare il movimento inafferrabile del mondo e sulla necessità, soprattutto, di procedere nel paesaggio con cautela, con atteggiamento incerto, dubbioso, mai sicuro di sé.

Una pubblicazione importante, nella traduzione di Cristian Rossatti, che permette ai lettori italiani di avvicinarsi finalmente al punto di partenza in cui una delle voci poetiche francofone più importanti del ‘900 ha fissato confini e prospettive della propria indagine.

Noemi Nagy


Curiosamente, si direbbe che gli alberi, avvicinandosi a quel fiume, tendano a imitarlo; salici e pioppi bianchi brillano della stessa lucentezza, vibrano e si piegano con la stessa sentita fluidità.

Devo confessarlo anche ora: non è per niente quello che avrei voluto dire. Molte delle immagini sono emerse dalla riflessione perché non è difficile trovarne e, spesso, essendo anche imprecise, hanno un fascino che distrae. Temo che esse, in questo caso particolare, siano state involontariamente prese in prestito da altri ingegni: buone per gli altri poeti, diventano insopportabili qui. E quando penso al fiume, a ciò che è stato quel fiume, provo una specie di vergogna ad averlo analogamente distorto. Una cosa, tuttavia, mi resta: riscopro in esso un incontro nel mobile e nel fluido (come quello di due sguardi nel loro impercettibile e inevitabile invecchiamento); un bagliore nato da un incontro in uno spazio che freme, mormora ed è in trasformazione. Ma mi rendo anche conto che questo enigma non poteva essere affrontato frontalmente con questa pesantezza e grossolanità; che bisogna aspettare sornionamente il giorno in cui far risorgere, senza cercare di dare troppe spiegazioni, quel fiume, quelle foglie, quegli uccelli in una poesia che forse pensava di parlare d’altro. Lo accetto: bisogna cancellarsi del tutto. La verità sugli enigmi che il mondo esterno ci propone è forse che quelli che si possono decifrare si annullano mentre solo quelli indecifrabili possono nutrirci e guidarci. Poesia, figlia e serva di enigmi.[1]

Credo che questo breve passaggio, tratto dalla prosa Il fiume sfuggito, dica tanto sulla Passeggiata e, essendo quest’ultima una lunga meditazione poetica riguardante la percezione del paesaggio, dica tanto anche sulla maniera in cui l’autore intende la poesia tout court – nonostante questa sia un’opera ancora giovanile – e sulle modalità in cui conduce la propria ricerca in relazione a un’esperienza tanto fragile quanto profonda. Nel giro di poche righe emergono tutta una serie di elementi essenziali che ritornano frequentemente sia all’interno del libro che nel resto della produzione letteraria. Facciamo qualche esempio: l’incertezza che caratterizza l’argomentazione di Jaccottet – i celebri tâtonnements descriptifs segnalati dalla critica –[2] ha una sua realizzazione nella repentina smentita della dichiarazione precedente (che pure ci sembrava tanto felice!) relativa ai salici e ai pioppi nelle prossimità del fiume Lez. Ecco allora che subentra una certa sfiducia nelle immagini, soprattutto rispetto a quelle «involontariamente prese in prestito» da altri poeti, delle quali non si vuole mettere in dubbio il valore ma che, semplicemente, non si rivelano adatte a riportare l’esperienza del soggetto:

la mia vita aveva senza dubbio acquisito più forza, m’imponeva dei limiti e allo stesso tempo mi dava maggiore nutrimento. Allora ho creduto fosse giusto, almeno per un periodo, pormi dei confini restringendo il campo della mia investigazione per andare più in profondità con la mia sola incertezza. Alla fine anche l’esperienza di un Hölderlin non poteva che restare in qualche modo estranea, esterna, la dovevo semplicemente lasciare sullo sfondo assieme alle altre che mi avevano toccato e istruito. (E sapevo che quando l’avrei ripresa, sarebbe stato sicuramente con maggiore profitto.)[3]

Più avanti il discorso si sposta più specificamente sul fare poetico. Per far risorgere in poesia l’enigma del fiume, così come quello della montagna o della luna, è necessario attendere, e aspirare «a un’osservazione del mondo che sia a un tempo intensa e svagata» mescolando «amore e distacco, accanimento e negligenza»[4] (è in questo senso, credo, che vada inteso l’avverbio sornionamente). Si intravedono poi con chiarezza alcuni principi di poetica che si riveleranno fondativi: la rinuncia ai tentativi di spiegazione eccessiva si ritrova in un celebre passo della Semaison (questo strano e bellissimo diario che raccoglie pensieri, annotazioni e frammenti di poesie) che promuove ancora una volta l’incertezza quale motore della propria ricerca e riflessione: «À partir de l’incertitude avancer tout de même […] Ne rien expliquer, mais prononcer juste»[5] («Partendo dall’incertezza, avanzare comunque […] Non spiegare nulla, pronunciare soltanto»). Allo stesso modo, la dichiarazione seguente – «bisogna cancellarsi del tutto» –, viene sviluppata dalla nota d’apertura sempre della Semaison

L’attachement à soi augmente l’opacité de la vie. Un moment de vrai oubli, et tous les écrans les uns derrière les autres deviennent transparents, de sorte qu’on voit la clarté jusqu’au fond, aussi loin que la vue porte; et du même coup plus rien ne pèse[6]

(L’attaccamento a sé aumenta l’opacità della vita. Un momento di vero oblio e tutti gli schermi, uno dietro l’altro diventano trasparenti di modo che noi vediamo la chiarezza fin nel profondo, tanto lontano quanto consente la vista; e insieme più nulla pesa)

e convogliata in un unico, memorabile verso in Que la fin nous illumine (L’ignorant): «L’effacement soit ma façon de resplendir» («L’opacità sarà il mio modo di risplendere»).

Tracciamo infine un’ultima corrispondenza, che ci permette, a partire dalla parte finale del nostro estratto, di fare un balzo in avanti fin quasi al termine dell’opera, in cui l’autore ci fornisce una possibile risposta a un quesito complesso, infinitamente ripreso e discusso, sul quale appassionati e addetti ai lavori non cessano mai di interrogarsi: come definire la poesia? Ecco le parole di Jaccottet, con le quali, per ora, possiamo chiudere:

La poesia è dunque quel canto che non si può afferrare, quello spazio in cui non si può restare, quella chiave che tocca sempre riperdere. Cessando d’essere inafferrabile, cessando d’essere incerta, cessando d’essere altrove (si dovrebbe dire: cessando di non essere) si abissa, non c’è più. Questo pensiero mi sostiene nelle difficoltà.[7]


[1] P. Jaccottet, Passeggiata sotto gli alberi, trad. C. Rossatti, pref. F. Pusterla, Milano, Marcos y Marcos, 2021, pp. 81-82.

[2] F. Pusterla, Prefazione, in P. Jaccottet, Passeggiata sotto gli alberi, cit, p. 13.

[3] P. Jaccottet, Passeggiata sotto gli alberi, cit, pp. 26-27.

[4] P. Jaccottet, Passeggiata sotto gli alberi, cit, pp. 42-43.

[5] P. Jaccottet, La semaison. Carnets 1954-1967, in Œuvres, a cura di J.-F Tappy, H. Ferrage, D. Jakubec, J.-M Sourdillon, pref. di F. Pusterla, Paris, Gallimard, 2014, p. 343.

[6] P. Jaccottet, La semaison. Carnets 1954-1967, cit., p. 335.

[7] P. Jaccottet, Passeggiata sotto gli alberi, cit, p. 124.