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Odissea nel Quaderno – Batisti su Sermini


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Leggi qui l’introduzione a “Odissea nel Quaderno”, l’esplorazione di lay0ut nel XV Quaderno di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos 2021)


Macroforma, progetto e strategia in Diritto all’oblio

Il titolo di Diritto all’oblio di Sara Sermini, anticipazione di un’omonima raccolta inedita, è preso dalla lingua giuridica, e secondo la prefatrice Antonella Anedda va inteso come rivendicazione di un (sano) oblio dell’io, “per poter fare parlare gli altri”. Dalle pubblicazioni e dai temi di ricerca dell’autrice, studiosa presso l’Università della Svizzera italiana, emerge infatti un interesse per la letteratura come spazio per dare parola alle esistenze marginali, quelle caratterizzate dalla povertà (tema a cui l’autrice ha dedicato già una monografia e la tesi di dottorato) e dalla sofferenza. I testi sono indubbiamente costellati di riferimenti tematici al dolore, alla marginalità, alla fragilità (ma anche a quella che va di moda chiamare resilienza) di umani animali piante cose, mentre la persona autoriale, coerentemente con le premesse, sembra sfumare in secondo piano: “Occorrerebbe, dicono, smetterla di credersi il centro del mondo”.
Ma più notevole dei temi è, già a una prima lettura, la tecnica compositiva con cui sono svolti: tecnica a base tutta metalinguistica, attuata secondo due strategie principali. La prima consiste nel ricorso ai linguaggi settoriali: quello giuridico del titolo, ma soprattutto quello scientifico e in ispecie botanico. Buona parte dei testi, infatti, è intitolata a fiori, rari o comuni, secondo la nomenclatura binomiale in latino. Il campo semantico di fiori ed erbe, in effetti, è così pervasivo da assurgere a vero e proprio tema complementare della raccolta, che va così a costituire quasi un erbario, interessante variazione sul genere bestiario recentemente tornato in auge in diversi libri di poesia italiana (basti citare, da ultimo, il postumo Bestiario dei giorni di festa [Ensemble, 2021] di Gabriele Galloni). La funzione delle piante è “concretizz[are] stati mentali diversi” (così Anedda), dunque ancora un modo per consentire l’espressione del sentimento senza far intervenire un io ingombrante.
La seconda e più cospicua strategia è quella etimologica: quasi tutti i testi che non partono dal nome di un’erba scaturiscono da una definizione etimologica ‘da dizionario’. Le fonti delle notizie etimologiche, alluse in modo alquanto generico nella nota autoriale (p. 349: “tratte da dizionari cartacei e digitali”), non sono certo cutting edge dal punto di vista scientifico, come potrebbe sfuggire al lettore non specialista1.


Etimologia e citazionismo

Poco male, s’intende, nel contesto di una silloge poetica e non di un saggio accademico. L’imprecisione, le connessioni vaghe o fantasiose, possono anzi dare – e dànno – lo spunto all’immaginazione poetica come probabilmente non potrebbero fare i lemmi più tecnici e asettici, dalla notazione quasi algebrica, reperibili in un dizionario etimologico del XXI secolo2.

Dizionario e erbario, sentenziosità e cut-up: alcune criticità

Il quadro delle strategie compositive è completato da altri tipi di gioco metalinguistico: sulla punteggiatura (Parentesi), sulle categorie grammaticali (“l’imperativo | il modo della disertazione. L’impersonale | la forma dell’indecisione”) o sulla terminologia fonetica (“velar vertigo”, “fricative fricassée”). Altre volte il pun (par)etimologizzante è svolto direttamente nel testo (“Bisognerebbe dimenticarsi della parola | ‘importanza’, o stringerla piano | alla sola ‘portanza’”). Ed è anche curioso come in Medicago sativa, sez. I, l’autrice insista nello scrivere con <-î> il plurale di nomi in -io (cinque occorrenze in 16 versi): soluzione marcata, preziosa e difficilior, che probabilmente va contata anch’essa come sfoggio metalinguistico, relativo qui al piano grafematico; tanto più che la scelta non ritorna in altri testi. Ancora, Sermini incastona nei versi frasi fatte e ricevute (“a che punto era la notte”, “armi di distrazione di massa”), o fa il controcanto ironico a sentenze letterarie celebri, magari con l’aiuto della paronomasia (“noi della razza | di chi rima a terra”).
Non mancano, infine, inserti alloglotti, perlopiù in inglese, che si immaginano opera dell’autrice (ma “like the sheath of a knife | or the pod of a pea”, p. 321, è una citazione dichiarata da Virginia Woolf). L’apice di plurilinguismo e polifonia è toccato nella poesia Lemna minor, dove si alternano italiano, inglese, francese, spagnolo, tedesco, e dove non mancano le paronomasie, le paretimologie, i citazionismi (dalla poesia di García Lorca e da un saggio di Margherita Pascucci). Anche qui un raggruppamento etimologico informa e struttura il testo, non a partire da una citazione vocabolaristica incipitaria, ma – con strategia invero più convincente – disseminato implicitamente lungo le varie strofe: si tratta dei derivati che in inglese moderno riflettono la radice *gʰreh₁-, ‘crescere’ (green, grow, grass, grey). Non sarà la poesia più riuscita della raccolta (troppa voglia di strafare. Cose peraltro già fatte meglio dalle avanguardie, vetero- e neo-), ma certo è quella che punta più esplicitamente in una direzione sperimentale quanto alla forma e ludica quanto al tono.
C’è comunque un punto di contatto notevole fra le due anime del libro. Nella nota finale, l’autrice fa sfoggio di erudizione fitonomastica, dando gli equivalenti in italiano e altri idiomi moderni per i nomi scientifici di ciascuna erba menzionata nella raccolta, e dilettandosi di variatio: dopo il nome (o i nomi) italiani, Sermini riporta ogni volta il nome tradizionale in una diversa lingua o dialetto, dall’ucraino al lombardo, dal pugliese al sanscrito. Insomma, stat rosa pristina nomine: le parole sono come le piante (hanno le radici…), ma anche le essenze vegetali si dissolvono in profumo di parole.
E a proposito, dopo aver esaminato le strategie compositive dell’autrice, ci si può chiedere quanto, in questo curioso erbario-dizionario, il gioco metalinguistico e la riflessione sugli snodi tematici centrali (oblio, povertà, malattia…) siano necessari l’uno all’altra. In una raccolta tanto caratterizzata dal formalismo, c’è il rischio che i contenuti finiscano per essere trattati in maniera surrettizia e/o pretestuosa. Inoltre, con tutta la prudenza che è di rigore discutendo il saggio di una raccolta in progress, l’impressione è che le potenziali omologie e analogie fra le due dimensioni (erbario e dizionario) avrebbero potuto essere maggiormente sottolineate; o che, in alternativa, l’opera avrebbe potuto concentrarsi pienamente su uno solo dei due filoni. Certo, tenere il gioco metalinguistico in equilibrio con una trattazione sincera di altri contenuti non è facile, ma la poesia italiana ultima ne ha offerto qualche convincente esempio, come le celebrate Coppie minime di Giulia Martini [Interno Poesia, 2018] (ma anche Roberto Ranieri in Pronome impersonale [Le Voci della Luna, 2019] tenta un’operazione di spirito simile). In queste raccolte, il tema amoroso o confessionale non risulta giustapposto a quello metalinguistico, ma entrambi si compenetrano e s’illuminano a vicenda.
Quanto al lavoro sulle etimologie, non per forza affidabili, questo può risultare fecondo in poesia, e più in generale in letteratura, se si abbraccia la sua natura ludica, lasciandosi andare al gioco esuberante delle paronomasie e delle scomposizioni senza più alcuna pretesa di fondatezza. Si veda, in prosa, l’arguto Etimologiario dell’oplepiana Maria Sebregondi [Quodlibet, 2015]; o, nell’àmbito della poesia sperimentale e installativa, πάθος di Gustav Sjöberg [GAMMM, 2013], che appare come un frullato asemantico di dizionari. Meno convincente risulta invece questa procedura quando pretende o sembra pretendere di fondare il nerbo etico di un testo sul presunto valore di verità delle etimologie stesse; che poi quest’ultime siano scientificamente discutibili risulta al massimo un’aggravante secondaria, ma il problema sussisterebbe comunque: come sapeva l’Aquinate, aliud est etymologia nominis et aliud est significatio nominis. E il risultato sono poesie che su di un piedistallo erudito innestano uno svolgimento vagamente concettoso che rischia di non andare oltre la freddura, spesso chiuso da una sentenza moralizzante3.

(Non-)assertività e impegno

Una notazione, infine, sulle ambiguità della ‘non-assertività’. Se è vero che l’autrice “dice io con parsimonia e appena lo fa, si ritira” (Anedda), è anche vero che col metodo illustrato sopra (prendere uno spunto etimologico o fitonomastico e imbastirci sopra una piccola morale) la voce autoriale, uscita dalla porta, rientra dalla finestra: si sente infatti distintamente la presenza di qualcuno che commenta, elabora, sviluppa ‘ideologicamente’ le implicazioni dello spunto. E la voce è chiaramente quella, dotta sensibile e ironica, della studiosa poliglotta Sara Sermini. Fin qui, nulla di male. Ma questo nascondersi e ritrarsi della soggettività è mal compatibile con la trattazione dei grandi temi impegnati. Sintomatica è la già citata poesia FEGATO. Dopo la consueta apertura etimologizzante e la fraseologia delle locuzioni contenenti fegato, che occupano le prime due strofe, segue un’altra lunga strofa fra le più esplicitamente soggettive della raccolta, con una prima persona singolare che dichiara: “Sfoglio il dizionario per non pensare, | cerco rimedi, medicamenti al mio male | (ieri 117 migranti sono morti in mare).” L’io prosegue parlando del proprio mal di fegato, dovuto a delusioni d’amore. Chiaramente, l’autrice stessa vuole qui contrapporre con ironia il ripiegamento sui propri turbamenti privati ai veri drammi collettivi che si consumano sullo sfondo. La stessa collocazione parentetica dell’accenno ai migranti morti ne denuncia la natura di pensiero colpevolmente rimosso. Eppure, essa risulta al tempo stesso davvero una maniera di seminare riferimenti incidentali ai grandi drammi d’oggi in mezzo a una poesia che sostanzialmente parla d’altro; un surrogato un po’ troppo facile dell’impegno, che consente all’autore di rassicurarci sulla sua consapevolezza di tali incresciosi eventi, e al tempo stesso lo giustifica, con vaga ironia autoassolutoria, per non svolgere il tema in modo approfondito4.

Un risultato entropico

In conclusione, nella forma presentata in questo Quaderno la suggestiva operazione di Sermini lascia il sapore dell’occasione parzialmente sprecata: per il tentativo di conciliare troppe anime e troppi spunti, in sé anche lodevoli, senza una trovata strutturale o stilistica unificante abbastanza forte da renderli necessari. E senza sapersi decidere fra il collage di materiali (meta)linguistici ‘trovati’, in cui la voce autoriale sparisce davvero, costringendo il lettore a inciampare nell’installazione verbale per farne emergere indirettamente il senso; e un’idea più classica di poesia ‘lirica’ come discorso decifrabile e articolato lanciato da un io specifico, mosso da un’esigenza di condividere un contenuto cognitivo o emotivo col destinatario e capace perciò di bruciare qualsiasi impalcatura (retorica, erudita, culturalistica) usata per arrivarci.

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1Una breve indagine conferma che le etimologie sono tratte perlopiù dall’obsoleto e inaffidabile Vocabolario etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani (1907), opera già dilettantesca per i suoi tempi, purtroppo divenuta il più accessibile repertorio online perché gratuitamente disponibile sul sito www.etimo.it; ma in alcuni casi risalgono per li rami anche a repertori ancor più venerabili, come il Compendio di grammatica comparativa dello antico indiano, greco ed italico di Augusto Schleicher e Lessico delle radici indo-italo-greche di Leone Meyer, recati in italiano e fatti precedere da una introduzione allo studio della scienza del linguaggio da Domenico Pezzi, dottore in lettere, Loescher, Torino e Firenze 1869 (!). In altri casi (come in FEGATO, p. 340) la fonte è più aggiornata e attendibile: in questo caso, il vocabolario Treccani online. Resta il fatto che interi testi sono costruiti su accostamenti (come quello fra il greco κοῖλος, ‘cavo’, e il lat. caelum e caedo) oggi ritenuti impossibili.

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2Esemplifichiamo con la prima strofa della poesia FUGA (p. 318), che coincide integralmente con la notizia etimologica:

radice BHUG [dal greco PHUG, latino FUG] piegarsi, curvarsi, evitare
sanscrito bhug’-a-ga che va per curva, il serpente
piegarsi, curvarsi, evitare

La fonte è anche qui il Pianigiani (s.v. fuggire), rimaneggiato e sintetizzato in modo non sempre accorto (così, rispetto a “rad. BHUG [ = gr. PHUG, lat. FUG]” dell’originale l’autrice, scrivendo “dal”, sembra invertire la direzione della derivazione), e conservando peraltro tracce (qui abbastanza innocue) della vetustà della fonte, come la traslitterazione <g’> dell’occlusiva palatale sonora nelle parole sanscrite, oggi resa con <j>. Da questa connessione etimologica l’autrice ricava un breve elogio della fuga e della flessibilità (“Chi fugge si piega, | accetta le linee curve, | il rischio del serpente in scorza di bruco […] Chi fugge si piega, | come l’acqua”), coerente col suo complessivo interesse per le forme di marginalità e di resilienza.
La voce corrispondente si presenta così in uno strumento più aggiornato (M. A. Cortelazzo- P. Zolli, Il nuovo etimologico: DELI – Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 19992, s.v. fuggire):

Lat. tardo fugīre, per il class. fugĕre (d’orig. indeur.), coi der. di questo, giunti per via dotta, fŭga(m) (cfr. fóga), fugāce(m), fugacitāte(m) (lat. tardo), fugāre e fugitīvu(m).

Molto più sobriamente, senza sprofondamenti nel sanscrito e senza esotici serpenti e proboscidi. Chi poi volesse risalire oltre il latino, dovrebbe far riferimento a M. De Vaan, Etymological Dictionary of Latin (Brill, Leiden-Boston 2008, s.v. fugiō), dove troverà uno schematico elenco dei congeneri in altre lingue indoeuropee antiche (greco, avestico, antico persiano), ma, di nuovo, niente serpenti. Quanto alla corradicalità tra ‘fuga’ e ‘curva’, su cui si gioca tutto l’intervento poetico di Sermini, essa è meno scontata di quanto risultasse dalla presentazione di Pianigiani: l’insostituibile Lexikon der indogermanischen Verben (Reichert, Wiesbaden 20012, pp. 84s.) distingue *bʰeu̯g– ‘fuggire’ da *bʰeu̯gʰ– ‘piegarsi’. Ma un lemma del LIV2, a parte l’inconveniente di esser scritto in tedesco, non offre certo la seducente leggibilità di uno del Pianigiani.

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3Si prenda ad esempio la prima sezione di CORPO (p. 321):

CORPO:
se ha radici
passano dall’indo-germanico:
KAR, fare
(vicino al greco KRA-ÌNÒ: creare):
il rizoma della poesia.

Siamo agglutinazioni di poesia solubile.

Si parte da un termine evocatore d’interi, e attualissimi, universi tematici, dalla biopolitica alla performance (e proprio per questo, d’altronde, da maneggiare ormai con estrema cautela); si propongono, attingendo alla solita fonte datata (come suggerisce anche l’antiquata dicitura ‘indogermanico’ per ‘indoeuropeo’) connessioni etimologiche improbabili (il latino corpus, l’indo-iranico kar-, e il greco κρᾱαίνω sono probabilmente da tre radici distinte); si sfrutta la metafora lessicalizzata della ‘radice’ in linguistica storica per introdurre una definizione (del corpo) come “rizoma della poesia”, di sapore abbastanza pretestuoso non fosse altro per l’automatico rimando all’abusato concetto deleuziano; infine, sulla base della (falsa) parentela fra il nome corpo e verbi significanti ‘fare, creare’ si propone una sorta di monostico sentenzioso a effetto slogan, quasi bacioperuginico.
Nella seconda sezione dello stesso testo l’indagine passa all’etimologia romanza:

prov. cors
fr. e cat. corps
port. corpo
(cfr. celto: gael. corp; irl. cuirp; cornov. coref; cimbr. corf; b. bret. corf):

dal latino CŎRPUS:
i passaggi del corpo,
il suo correre ai ripari,
i suoi infiniti tentativi
di sgusciare fuori da se stesso
like the sheath of a knife
or the pod of a pea
per un singolo istante.

Alla secca elencazione degli esiti romanzi del termine latino (e di quelli celtici; incidentalmente, il “cfr.” è fuorviante, perché indurrebbe a prendere queste forme per sorelle di quella latina, di comune discendenza indoeuropea, mentre si tratti di prestiti dal latino alle lingue celtiche) segue una strofetta improntata a una sintassi nominale e asindetica, che di nuovo propone suggestive e generalizzanti ‘definizioni’, il cui legame con l’etimo è in questo caso, almeno per me, ancor meno chiaro. Che cosa di quanto precede, infatti, giustifica la nozione di ‘passaggio’, ‘correre’, ‘sgusciar fuori’? È comunque significativo che i due versi più suggestivi di questa sezione siano, come già segnalato, opera di Virginia Woolf.
L’ultima sezione del testo (p. 322) non introduce ulteriori materiali etimologici in apertura, ma prosegue lo spunto della precedente, sviluppando ulteriormente la metafora CORPO = CONTENITORE, qui tramite le singole parti del corpo:

La testa è un vaso,
il bacino è un vaso,
le vene sono vasi:
ci conteniamo
(le palpebre contengono
fili che l’occhio
soltanto sa tessere).

In realtà, il primo verso di quest’ultima sezione contiene un’etimologia ‘nascosta’, implicita per chi sa che il lat. testa indicava un vaso di terracotta, prima di diventare termine gergale (che in alcune lingue romanze rimpiazza quello standard) per ‘testa’; similmente, bacino deriva da un termine gallo-latino per ‘vaso di legno’, e per le vene la metafora è lessicalizzata nell’espressione vasi sanguigni. L’ultima frase, parentetica, descrive verosimilmente le miodesopsie ‘contenute’ dalle palpebre e rivendicando il ruolo dell’occhio nel ‘tesserle’ (cioè: riconoscere in loro forme non arbitrarie?) sembra di nuovo tornare al tema della creatività ‘poietica’ sfiorato nella prima sezione.
Che cosa manca, invece, in questi versi? La metrica, o anche soltanto un qualsiasi ritmo identificabile e strutturante; una generosità di immagini poetiche, visto che fra le citazioni (che siano dai dizionari o dalle grandi scrittrici del Novecento) la voce autoriale pressoché scompare, e non nel senso della non-assertività dell’io – ché, anzi, il tono è sentenzioso, definitorio, ma nel senso di un troppo magro contributo autonomo sul piano creativo (Su questo punto si vedano condivisibili affermazioni di Guido Mazzoni nella sua nota introduttiva alla raccolta di Simone Burratti, in questo Quaderno, pp. 67-71).
A fronte di queste soddisfazioni formali piuttosto avare, che cosa porta a casa il lettore di un testo simile? Qualche notizia etimologica scorretta, una cucchiaiata di lemmi in varie lingue, una citazione woolfiana, e tre sentenze apparentemente irrelate fra loro, anche se con qualche impegno si possono costruire come una sorta di sillogismo a ritroso: “a. la creazione poetica viene dal corpo, b. il corpo cerca di uscire da sé, c. il corpo è un contenitore di tante cose, incluso sé stesso”. L’autrice intende dunque dirci che la creazione poetica nasce dal tentativo del corpo di uscire da sé? Nozione forse di non vertiginosa novità o profondità, ma che – magari alla luce degli odierni studi sulla embodied cognition –si potrebbe certo sviluppare in modi molto interessanti, a patto però di metterla al centro del testo; sviluppi più interessanti, sicuramente, di qualche ruminazione paretimologica sulla parola corpo e i suoi congeneri.
La disamina di questo testo può apparire, me ne avvedo, ipercritica, se non impietosa; beninteso, altrove in Diritto all’oblio i risultati sono più convincenti. Ma i punti deboli del procedimento sono qui particolarmente in evidenza.

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4Si vedano le critiche che qualche tempo fa ho rivolto a tale procedimento nella poesia di autori sperimentali come Fabio Teti e Simona Menicocci, dove peraltro il fatto risulta ben più giustificato dal trattarsi (soprattutto nel caso di b t w b h di Teti, su cui lì mi soffermavo) di una riflessione sistematica proprio sulla falsa coscienza con cui neutralizziamo il costante flusso d’informazioni su guerre e altre tragedie distanti, rimuovendolo quasi fosse un rumore di fondo. Nella sofisticata, nervosa arte verbale di questi poeti, le allusioni pulviscolari e ‘atomizzate’ all’Iraq o all’Ilva erano un fil rouge tematico e strutturante del macrotesto.

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In copertina e in corpo testo: fotografie di Lucile Boiron

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