Vedere male ossia guardare meglio: due parole con Michela Gioachin

Una nota critica sull’opera di Michela Gioachin seguita da una breve intervista, a cura di Silvia Rossi.


«Ogni ritratto dipinto con passione è il ritratto dell’artista, e non del modello»
O. Wilde

Vedere male ossia guardare meglio: la ritrattistica


Forte della tradizione ritrattistica tardo-umanistica, Michela Gioachin si approccia a questo genere convogliando temi e stili, proiettando l’opera nel contemporaneo ricercando lo sfasamento cognitivo dell’osservatore, che di fronte ai soggetti si trova costretto a rielaborare una serie di stimoli assai diversificati rispetto a quelli di un ritratto tradizionale. A chi la conosce direttamente, Michela appare difficilmente riconducibile ai vari stereotipi di artista che, volenti o nolenti, abbiamo ereditato. Allo stesso modo, i suoi quadri sfuggono a una definizione precisa in termini stilistici. Non è possibile infatti parlarne in termini di Iperrealismo né di Glitch Art. Non mancano elementi comuni, per esempio a livello tecnico, ma Michela convoglia nel suo lavoro anche altre correnti, mescolandole abilmente, per permetterci di affacciarci alla lettura della sua opera con un misto di straniamento e fascino (ovvero senza mai abbracciarne davvero una specifica). Sfuggevoli e riservati, i ritratti composti dall’autrice ci riportano uno sguardo intimo, psicologico, mediante il quale viene osservata e trasposta una “nuova soggettività”.

Rossi intervista Michela Gioachin
Love me tender, portait of Virginia, 2016

Una complessità orientata

La sfida che Gioachin cerca di vincere, come tanti altri in questo momento, sembra proprio quella di conciliare pluralità e compiutezza di effetto, complessità ed efficacia. Le pose e le luci rimandano all’arte classica, attingendo da vari periodi ora per l’uno ora per l’altro elemento. Pregna di patetismo, la tensione dei soggetti è accentuata da quello straniamento che istintivamente l’osservatore cerca di superare “mettendo a fuoco” l’opera, e non riuscendovi. Il glitch, lo spostamento, l’errore, l’elemento di disturbo o comunque lo si voglia chiamare, è usato in modo discreto e, per quanto estremamente caratterizzante, esso non si rende sempre immediatamente visibile. Soprattutto dal vivo, approcciandosi alle sue opere, la prima impressione è che ci sia qualcosa che non vada. Lo spettatore inevitabilmente strizza gli occhi e poi si avvicina, in una sorta di danza, per comprendere quale sia la vera fonte di quel “malessere”. La stessa danza, stavolta come tentativo di allineamento critico, si compie quando si tenta un’analisi del suo lavoro: la tecnica, il colore, le luci, le pose e talvolta i materiali non si integrano infatti come ci si aspetterebbe. Le pose classiche interagiscono con i soggetti ipercontemporanei, i colori rievocano ora la pittura fiamminga, ora la fotografia dei primi del ‘900, mentre le luci ridefiniscono quello che il glitch tende a decomporre, a rendere indecifrabile. Analogico e digitale convivono in una tensione dialettica: quale può essere il senso di riprodurre, con una tecnica infinitamente complicata, lenta e laboriosa, quello che una macchina fotografica produce nell’errore di una frazione di secondo? Tutta l’opera di Michela pascola su questo limite: la soglia che separa l’errore dai prodotti fecondi della serendipità. Chiede uno sforzo, certo, ma senza mai negarci il coinvolgimento, relazionando la moltitudine di stimoli veicolata da ogni singola tela.

Rossi intervista Michela Gioachin
Contemporaneity_Francesca, 2020

Ingenuità e consapevolezza: l’intervista

Da cosa è partita la tua ricerca stilistica?

Da una naturale predisposizione ad amare il ritratto e la sua connotazione psicologica. Poi la svolta: un errore tecnico nello scattare una fotografia ad un’amica, in Accademia a Venezia, quando cercavo soggetti da ritrarre per i miei lavori di pittura. Non avevo ancora trovato un sentiero che mi potesse rappresentare, creavo immagini figurative e volti in bianco e nero, più vicini all’iperrealismo, turbati solo da qualche lieve deformazione. Sentivo però che non era la mia strada. Il giorno in cui ho visto la foto “scattata male”, dove l’immagine era sdoppiata, ho avuto la folgorazione. Quell’errore, che per molti sarebbe stato solo un errore in quanto tale, per me è diventato altro, una forma di linguaggio che mi avrebbe permesso da lì in avanti di esprimere ciò che cercavo. Nello specifico, il volto aveva gli occhi contemporaneamente aperti e chiusi, ossia generava una dinamica del tempo e dell’ethos. L’errore è poi diventato irrinunciabile. Da quel momento in poi la mia ricerca stilistica si è concentrata sul glitch fotografico, poi ricreato pittoricamente, mezzo formale attraverso cui i soggetti si sdoppiano elettricamente per essere in costante divenire e mai statici, consentendomi così di fuggire dalla perfezione tipica dell’iperrealismo e di raccontare i moti dell’anima e l’energia dinamica e mutevole dei sentimenti e delle emozioni.

Come definiresti la tua tecnica e quanto essa incide nel tuo lavoro?

È una tecnica classica, ma rivisitata. Si tratta di acrilico su tela, ma utilizzato come fosse acquerello. Il colore è diluito moltissimo, fino a farlo divenire trasparente, e poi steso su tela per ottenere successive velature, a pennello, fino ad arrivare alle tonalità finali. Questa mia tecnica credo sia fondamentale per il risultato del lavoro, perché mi consente di avere immagini con una maggiore vibrazione e leggerezza. Anche la luminosità che trapela dalle figure contribuisce a rendere al meglio lo sdoppiamento dei corpi. In più, l’assenza dei segni delle pennellate e la matericità del colore ridotta al minimo creano un ulteriore cortocircuito, dando la sensazione che l’immagine sia stampata, e non dipinta.

Rossi intervista Michela Gioachin
Romantic glitch, 2020

Che cosa hai trovato nell’arte?

Onestamente non lo so. Credo sia un’esigenza, perché da sempre, fin da bambina, disegnavo e non ho mai smesso di farlo… Anzi, è diventato prima uno studio e poi un lavoro, parte integrante della mia quotidianità. È un modo per espormi agli altri, per mostrare il mio lato più intimo e nascosto. È un biglietto da visita autentico, ma anche un rifugio e uno sfogo, la mia isola felice. Tutto sommato, ho una visione romantica del mio essere artista.

Quali sono le esperienze professionali che più hanno condizionato il tuo lavoro?

Credo che ogni esperienza professionale mi abbia aiutata ad avanzare di un passo nel mio lavoro artistico, probabilmente senza rendermene conto. Più che di condizionamento parlerei di progresso. Ad esempio: aver decorato pittoricamente la Rua a Vicenza nel 2007 mi ha costretta ad affrontare il colore. Fino ad allora dipingevo in bianco e nero, temevo i colori, credendomi incapace di usarli. Invece ho affrontato questo tabù superandolo, e già da qualche anno i miei lavori hanno integrato il colore, che ora amo sempre di più.

Rossi intervista Michela Gioachin
Ivan, 2013

Il copiright delle riproduzioni appartiene a Michela Gioachin. L’opera in copertina è “Ritratto romantico”.