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Self-immolation: cinque inediti di Jessy Simonini per Presa d’aria.

Benvenut* in Presa d’aria, rubrica di poesia inedita e poetica a cura di Matteo Cristiano, Riccardo Innocenti, Dimitri Milleri e Noemi Nagy. Presentiamo oggi i testi di Jessy Simonini, già autore di Campi di battaglia (2021, Sensibili alle foglie). I testi proposti si radicano, da una parte, nell’immediato presente della realtà, in particolare rispetto al genocidio in corso in Palestina e all’atto estremo di self-immolation di Aaron Bushnell, e dall’altra parte, invece, si accampa una soggettività appigliata al passato, proprio e altrui. Intervista a cura di Matteo Cristiano.


Self-immolation: cinque inediti di Jessy Simonini.

Self-immolation 25.2.24

in un cinema a parigi lo champo baciavo un americano
(credo fosse un ebreo americano, origini ashkenazite, forse mi sbaglio,
era soltanto di origine polacca o bielorussa)
passato da west point il naso mi colava
copioso perché in casa non accendevo mai la stufa

se ne andava prima della fine del film senza dire niente

il film era un film di tarkovski, Ностальгия ovvero
nostalgia, quella che provo ogni istante da trent’anni

il film è del 1983

(17 maggio 1983: cessate il fuoco fra israele e libano, diciottomila libanesi morti
per l’operazione pace in galilea)

quell’anno mia nonna rinnovava la tessera al psi
mia madre veniva promossa in seconda media
l’altra mia nonna divorziava ma non alla rota
perché l’avvocato canonico era troppo caro

nessuna di loro andava a vedere tarkovski
(ma te le immagini a vedere tarkovski?
per loro scola era un regista intellettuale…)
prese com’erano da altre gigantesche faccende

ci sono andato trentacinque anni dopo con un americano
disgustato perché mi colava il naso
copioso e nemmeno ha visto uno dei personaggi
immolarsi davanti al campidoglio a roma

scopro che la sceneggiatura è anche di tonino guerra
in una poesia scrive della madre che firma
con una x e non ha mai viaggiato,
per farlo studiare, per farlo viaggiare

la rileggo in quel dialetto d’oriente, piango davvero,
piango ma forse mi è entrato soltanto qualcosa
nell’occhio
*

cercando su x (ex twitter) il video
non censurato di aaron bushnell davanti
l’ambasciata israeliana di washington dc
molti (io almeno) possono aver pensato che il confine
tra ciò che stiamo facendo (tradurre poesie prose o altro, mandare mail, redigere brevi testi
descrittivi per un museo d’arte contemporanea, insegnare storia della lingua francese,
produrre saggi fascia “a”, partecipare a un’assemblea della “sinistra radicale”, tenere una talk
sul metoo o sulla poesia queer intersezionale, qualsiasi cosa ciò significhi, fare una peer
review, partecipare al sit in pro palestinese organizzato dal consigliere comunale con cui vai
allo stadio, etc, continuate voi che lo sapete meglio)
e l’eventualità del fuoco
l’ipotesi della brace
la possibilità di ardere
(continuate sempre voi)
non sia mai stato così labile, cioè che in effetti
su google maps cerchi (tu, s’intende) l’indirizzo dell’ambasciata
israeliana a roma e pensi se la benzina conviene
prenderla al solito distributore oppure a quello
della cooperativa sulla provinciale più a nord
(dicono sia meno caro)
e vorresti chiedere a matteo zarri il suo accendino d’argento
che sa di benzina e quando ti accende la sigaretta
sembra che si bruci un po’ tutta la mano, ironia della sorte

poi quando trovi il video e lo guardi venti volte

e vorresti leggere una poesia che parli dei fili d’erba
soltanto dei fili d’erba e di grandi fiumi
della vecchia pineta o del granito, in certi sabati
di agosto, molti anni fa.
*

nel 1998 uno si era immolato in vaticano
perché la chiesa di allora massacrava
gli omosessuali e allora era andato in piazza
san pietro e aveva pensato di darsi fuoco

a me lo aveva raccontato un tizio che non so
che fine abbia fatto lo vedevo sulla corriera
andando a scuola era davvero un grande
mi parlava spesso della strage di piazza fontana

io che a quattordici anni volevo ammazzarmi in tutti i modi noti
anche con il fuoco, soprattutto con il fuoco
se guardo il video di aaron bushnell
se penso ad aaron bushnell e in questi giorni
è accaduto molto spesso micol mi manda
notizie sulle proteste a chicago vedo gli altari
che hanno innalzato per aaron bushnell
in varie città americane e non solo
e per una manciata di minuti anche io
ero pronto a scrivere il mio llanto por aaron bushnell

mi domando
cosa ci separa
dal centro grandi ustionati o dalla tomba
se l’istinto di sopravvivenza i mici gli amici
le nonne che non possiamo abbandonare
o questa eccezionale auto-conservativa splendida viltà.
(haiku 1600)

guardo da lontano
il fiume giordano-
bruno
*

mio padre ha lasciato il lavoro perché non si trova
bene e mi chiede cos’è successo, come sto
ripercorro nella mente le cose più salienti
mentre vado al gruppo di lettura dove leggiamo
cinica sorte: la vie devant soi

all’alba sono andato a trovare la nonna
a villa laura insomma ha ancora
un po’ di male al ginocchio ma sta bene
&
hanno condannato il boss dei neo-lirici
per aver picchiato la moglie a più riprese
&
un tizio di venticinque anni si è dato fuoco
davanti all’ambasciata di israele
dicendo in video: i will no longer be complicit to genocide
extreme act of protest
this is what our ruling class has decided

mi chiedo cosa ci sia davvero fra il foglio bianco
di questa poesia e quelli che mandano al massacro

a parte la falsa coscienza
il volto girato dall’altra parte
le stoviglie di una cena, in una sera dolce, sul terrazzo, con chi amo,
insomma, tutto questo dolore tutto questo abisso grande.

Intervista a cura di Matteo Cristiano

M. C. – Innanzitutto grazie per averci mandato i testi. Riccardo diceva che eri un po’ titubante inizialmente, posso chiederti come mai?

J. S. – Ero titubante perché avevo dei testi vecchi che non mi piacevano, di cui mi sono disamorato completamente e che mi sembravano anche inadeguati, perché in questo momento la cosa a cui penso più spesso è ciò che sta succedendo in Palestina, è davvero difficile pensare ad altro e soprattutto una poesia che non ne tenga in considerazione mi dà molto fastidio sia leggerla che farla. Quindi mi sembrava senza senso inviare qualcosa alla vostra rubrica. Poi un giorno mi sono messo al tavolo, avevo parlato tanto con una persona che è molto attiva su questo fronte, a Chicago, e mi sono tornate in mente delle cose.

Era da molti mesi che non riuscivo a scrivere niente, dal 7 ottobre nemmeno una parola.

E invece facendo decantare tutta una serie di cose che avevo in mente e soprattutto dopo ciò che è successo a febbraio, con l’immolazione di Aaron Bushnell, avevo bisogno di dire qualcosa. E soprattutto di trovare una risposta alla carenza di spazio, alla mancanza di momenti e possibilità di condivisione su questi temi perché, a parte alcuni momenti di assemblea, di collettivo, è abbastanza complicato riuscire ad affrontare la questione agendo politicamente, trovando forme per ragionarci, e leggere qualcosa che rimanga.

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M. C. – Certo, certo. La prima cosa appunto che mi viene in mente è che da questi testi emerge sostanzialmente l’urgenza di voler scrivere e di voler mettere in forma un qualcosa che sta succedendo e che è legato strettamente alla realtà. Anche pensando a Campi di battaglia, che ruolo gioca la realtà nel tuo poetare? Come entra la realtà nel tuo fare poetico?

J. S. – Nathalie Sarraute parlava di sous-coversation, una parola che mi è sempre piaciuta molto e che per la scrittrice francese è uno spazio dell’inconscio, il luogo dove si polarizza la complessità dei soggetti. Per me ha significato anche altro. È come se tante voci in qualche modo si accampassero in me, si materializzassero in me, voci venute dalle conversazioni e sotto-conversazioni che ho intercettato, dalle cose che gli altri mi hanno detto, dai discorsi che sento anche sull’autobus, sul treno, in giro per strada, a lavoro, in università, dopo il sette di ottobre.

Tutto era molto doloroso, perché mi sembrava (e ancora mi sembra) che ci fosse una tale distanza verso ciò che stava accadendo nella realtà, verso la condizione materiale della situazione a Gaza e nelle terre colonizzate.

Dall’altra parte sentivo i soliti discorsi sulla produttività dell’ambito universitario, ad esempio, o su quali posture assumere nel mondo poetico, cosa scrivere, con chi, quali fossero le mosse migliori da fare. È come se tutti questi discorsi rifluissero in me e mi provocassero una forma di rabbia o di indignazione che poi ho cercato di riprodurre nel testo. Per parlare di quello che è successo sentivo il bisogno di parlare di come stavamo qui e di quanto tutto questo fosse depurato, allontanato dalla nostra vita, un po’ per un senso di protezione ma anche oggettivamente per indifferenza o disinteresse.

Negli anni ‘90 del resto Antonella Anedda aveva scritto una raccolta, Notti di pace occidentale, che con forme e modalità diverse faceva quasi lo stesso, cioè costruiva questa frattura fra la dimensione del nostro schermo televisivo, che mostrava immagini della guerra nei Balcani, e le posate nei piatti delle nostre cene. Queste notti di pace erano poi le notti della nostra indifferenza e del nostro privilegio. Oggi le condizioni sono molto mutate anche dal punto di vista delle mobilitazioni e della possibilità di intervenire.

Credo che il motivo per cui proprio l’immolazione di Bushnell sia stata per me così significativa, ed è anche un po’ vigliacca come cosa, è l’idea che questo sia accaduto in occidente, da parte di qualcuno che aveva lavorato per l’esercito, un bianco. Ciò non mi ha fatto immedesimare di più in lui (non esistono morti di serie a e di serie b anche se il mondo mediatico vuole farcelo credere) non ho provato più empatia nei suoi confronti che nei confronti della gente che viene massacrata a Gaza o Rafah.

Ma vedere quel video, vedere la lucidità dei gesti, l’ordine delle parole, le scelte precise e quindi anche la performatività di ciò che ha fatto, ha in qualche modo aperto una strada. Venendone molto colpito ho pensato che forse scriverne fosse fondamentale per me, quasi un esercizio anche di igiene mentale e poetica, ed è così ho mandato i testi a Riccardo.

M. C. – Un’altra cosa che secondo me è interessante, e mi chiedo se faccia parte della serie di voci che ti tornano in mente, è il continuo richiamo familiare. C’è questa doppia tendenza, verso ciò che avviene nel mondo e la tua individualità rifratta in tutti i comportamenti e le azioni che tu descrivi legandoti alla storia tua e della tua famiglia.

J. S. – Credo che sia un aspetto importante del mio vivere più che del mio scrivere: ho questa tendenza a far passare i testi in questo binario, fra l’intimo e il politico. Il politico c’era anche in Campi di battaglia: moltissimi testi univano questi due aspetti. È una cosa che non viene dalla poesia. Io sono più un lettore di prosa e questo nesso viene per me dalla lettura tanti anni fa di Annie Ernaux, di autori che vanno in quella direzione, che politicizzano il soggettivo attraverso l’espediente letterario. Io cerco di farlo con le mie modalità che sono molto diverse da quelle di questi scrittori che sono molto più sociologici. Ma in queste voci ci sono senz’altro anche le voci della famiglia, le voci degli avi; spesso faccio riferimento ai lari ai penati ma anche all’esperienza autobiografica, perché la vita vera mi sembra sia la sola cosa che può guidarmi nello stare dentro la realtà. Non riuscirei a fare una poesia in laboratorio o una poesia d’occasione, ho piuttosto cercato di stare dentro l’inadeguatezza e il dolore, dentro questo pulviscolo di tante voci. Avevo voglia di scrivere questi testi che sono tra l’altro scritti molto velocemente, non c’è cura del verso, non c’è cura dei dettagli, proprio perché avevo bisogno che questo flusso che covava in me da molti mesi uscisse definitivamente.

M. C. – Mi sembra che questo legarti a punti della storia tua e della storia politica sia come una strategia genealogica: forse anche in questo può servire il fare poetico, a situarsi, a costruire una propria genealogia di coordinate storico-culturali.

J. S. – Sì, sicuramente questa scelta riflette la volontà di un posizionamento, questo è sempre stata una cosa di cui ho sempre avuto bisogno nella vita. Non semplicemente un posizionamento politico, perché ci sono dei contesti nei quali non è possibile, perché poi il posizionamento politico sprofonda nella sua irrilevanza diventando qualcosa di autoconsolatorio e di estremamente borghese. Però, diciamo, il posizionamento nel tempo, nello spazio, nelle relazioni è sempre stato molto importante. Il potere del tempo è l’unico potere che è legittimo usare, diceva una poeta americana.

Ed è molto interessante perché il potere del tempo mi ha sempre attraversato, il pensare ad avvenimenti che io non ho potuto mai viver, come gli anni Settanta, su cui ho scritto moltissimo. In modo in realtà anche molto ingenuo, però in un modo che, in quella fase della mia vita, sentivo come autentico. E poi lo sguardo retrospettivo sulle vite degli altri nel passato, sulla mia vita nel passato, è sempre stato qualcosa che mi ha colpito. Però la mia poesia, anche come la mia soggettività, è una poesia posizionata, localizzata. Credo che oggi la questione della localizzazione, del situarsi di fronte a ciò che accade appunto oltre il Mediterraneo, sia fondamentale. Non solo politicamente, ma dal punto di vista dello spazio, dei luoghi dove ci si trova, del pensare anche a quello spazio parcellizzato, frantumato, dove sono rinchiuse centinaia di migliaia di persone: questo non può che imporci di vivere diversamente lo spazio in cui abbiamo la libertà di stare, di vivere, di esistere.

La prima cosa che ho pensato vedendo il video di Bushnell è stata Tarkovskij, un film che ho visto qualche anno fa e che alla fine mette in scena un’immolazione, pensavo al fatto che nel 1983 mia nonna rinnovava convintamente la sua tessera socialista in anni in cui, in Italia, le posizioni su ciò che accadeva in Palestina e in Libano, erano posizioni molto definite, e che oggi non sono più possibili.

Riportare il tempo alle vite di chi amo, di chi sta vicino a me, e unirle poi, tesserle con i grandi avvenimenti della storia, mi fa dare alle cose un senso diverso, un senso più vicino, con cui riesco anche a immaginare un rapporto poetico. C’è sempre bisogno di un soggetto assoluto, di un processo storico, di un fenomeno, che parta però dall’individuo.

Devo dire che rileggendo queste cose che ho scritto ho ripensato – non certo per paragonarmi a lei – alla poeta che finisco per citare sempre, ovvero Adrienne Rich, autrice ebrea americana che si è battuta moltissimo per la Palestina e contro l’occupazione, anche se questi testi sono molto diversi dai suoi, mi rendo conto che spesso guardo il mondo anche con quel filtro e con i suoi versi, che oramai ho imparato a memoria, l’immagine del soldato israeliano che lasciando Beit Jala scrive su un muro Ci dispiace sinceramente per il casino che abbiamo fatto, e molti altri versi.

M. C. – Io appunto ho sentito proprio questo volersi costruire una costellazione, volersi appigliare, tenere salde dei punti, dei luoghi spazio-temporali dove si può fare qualcosa, dove inserirsi.

J. S. – Sì. C’è un bellissimo progetto, che si chiama Queering the Map. È una mappa del mondo, sulla quale tu scegli un posto e puoi mettere il tuo segnalibro anonimo, ovviamente, e scrivere un messaggio parlando di te, dei tuoi ricordi o relazioni. È legato all’esperienza delle soggettività LGBTQ+, però in realtà chiunque può scrivere qualsiasi cosa. Capita magari che mi metta a leggere i segnalibri in Iran o in Pakistan, per stabilire un contatto con voci e volti anonimi che hanno sentito il bisogno di esprimersi. Vite di cui nessuno saprà nulla, come quelle di cui possiamo leggere a andando col cursore sulla striscia di Gaza. In una di queste c’è scritto: “This is where I first fell for you: it was 2021, the last major Israeli bombardment on Gaza. You never knew you were the reason that I first listened my favorite bands o watched Portrait of a Lady on Fire, everything comes back to you. now you are a student abroad and Israeli occupation bombs may take everyone and everything you ever loved away. Yor mom, your home, your memories. I am so sorry the world failed you. that your mom, sister, best friends, everything is lost in this genocide.”

M. C. – Per chiudere, volevo chiederti se avessi qualcosa in cantiere o se stessi lavorando a qualcosa, anche considerando la tendenziale continuità di questi testi con i tuoi lavori precedenti. Hai intenzione di sperimentare qualcosa? Hai mai pensato al narrativo in versi?

J. S. – Ho voglia di leggere le cose degli altri, di capire le cose degli altri, di tradurre, ma penso che in questa fase quello che è più interessante è cercare di capire collettivamente come stare insieme, come sopravvivere e come agire politicamente.

Sono stanco di leggere queste poesie tutte l’una uguale all’altra, alcune un po’ neoliriche, altre che imitano Milo De Angelis, altre che imitano invece Mario Benedetti. Sono libri che compro e che leggo, ma credo che in questa fase si debbano trovare delle parole nuove che la poesia non riesce ad intercettare, e forse non ha nemmeno grande interesse a farlo. Ecco perché allora si inaridisce così tanto, e non è soltanto colpa delle persone che la fanno ma del contesto che ci porta a diventare sempre più aridi e autoreferenziali.

Forse è come dico nella poesia, per sopravvivere vorrei soltanto leggere una poesia che parli dei fili d’erba, di grandi fiumi, della vecchia pineta, del granito…

Voglio leggere le poesie di Adriana Zarri, Emily Dickinson… voglio leggere anche ovviamente le poesie di Darwish o di un giovane poeta palestinese americano come George Abraham. Il fatto è che in questo momento personalmente non ho voglia o interesse a sperimentare, scrivere, andare avanti su questa strada, perché non ne trovo il senso.  L’unica cosa che sono riuscito a scrivere in questi mesi è questa, ed è dovuta a un senso di sprofondamento totale e dall’accorgersi di quanto sia labile il confine fra i nostri gesti di ogni giorno e la scelta di Aaron Bushnell.


L’apparato iconografico riporta varie versioni dell’opera Animitas, di Christian Boltanski.

Jessy Simonini, 1994, è cresciuto in provincia di Bologna. Dopo studi letterari in Francia, ora vive in Italia, dove fa attività di ricerca in ambito letterario. Ha scritto un libro di poesie, Campi di battaglia (Sensibili alle foglie, 2021). Traduce dal francese.