Snuff box: poesia e presa di parola | Interviste a Gallo e Pusterla

Si estrae una presa di tabacco da una scatola, generalmente di latta, la si posa sul dorso della mano o nello spazio tra i tendini alla base del pollice (la “tabacchiera anatomica”). Poi si aspira col naso. È un gesto inconsueto ormai. La narice si fa nera. Nera la saliva. È un gesto inelegante.
Come quello del/la poeta, quando prende tra le dita la materia del reale, inspira, la incorpora. Mastica.
La presa di realtà può diventare presa di parola. È uno dei gesti dell’impegno. Le interviste di questo ciclo vogliono sondare il rapporto tra poesia e impegno, le parole che lo connotano, i gesti tesi che lo caratterizzano: prendere la parola, dare voce, ma anche togliere la parola, o restituire il silenzio. 

Ciclo di interviste a cura di Massimo Palma e Sara Sermini per lay0ut magazine. A ogni autore sono state sottoposte otto domande fisse e un numero variabile di domande individuali. Il secondo episodio dà in parallelo le risposte di Carmen Gallo e di Fabio Pusterla.


Parte prima – 8 domande fisse su impegno e presa di parola in poesia

Gesto. Prendere la parola, dare voce, togliere la parola, restituire il silenzio. C’è un gesto, tra questi, che ti sembra rappresentare la tua scrittura poetica? Oppure nessuno di questi?

Gallo: Prendere la parola è forse il gesto che sento più vicino, il più difficile per me, il più forte. Un gesto di cui avverto la responsabilità, perché comporta una sorta di imposizione, di violenza sullo spazio della parola comune. Eppure mi sembra sempre più un gesto necessario, se si tiene a mente che lo spazio del discorso pubblico non è mai comunque neutro o vuoto. Quella della presa di parola – della legittimazione del gesto di scrivere poesia – è stata una delle ossessioni che ha accompagnato le stesure e le cancellature dei testi che avrebbero composto il mio primo libro di poesia, Paura degli occhi. I “primi libri” sono spesso, o forse sempre, dei manifesti di una poetica che matura più avanti, ma in ogni caso mantengono la traccia della fatica che si fa a uscire dal guscio di una parola solo ‘propria’, portano iscritta la smorfia in viso della nuova luce che bisogna sostenere, della paura per gli infiniti possibili che la parola conquistata improvvisamente apre.

Pusterla: Prendere la parola: all’inizio, quando ero molto giovane, questa vertigine deve avermi attraversato. Ero il primo della famiglia a studiare, e l’idea di avere accesso alla parola scritta, l’idea di poterla usare in prima persona, forse mi spaventava e mi attraeva in uguale misura. Ho trovato, molto tempo dopo, qualche cosa di non troppo dissimile nell’opera di un poeta inglese che mi interessa molto: Tony Harrison. Poi una volta, durante una discussione forse di politica, mio padre, che era già molto malato, mi ha detto: “eh, tu hai studiato e sai le cose, io no. Con te non si può più discutere perché tanto hai sempre ragione”. A partire da lì, “prendere la parola” ha cominciato a sembrarmi qualcosa di terribile, a tratti di osceno. Così ho dovuto spostarmi verso altri territori, anche se ci ho messo un bel po’: dare voce, restituire il silenzio sono cose che oggi mi affascinano molto, anche se forse sono impossibili da realizzare.

Voce. Cos’è la voce dell’altrə? Un fatto acustico, sonoro? Una presenza o un’assenza? Un fantasma o una realtà fisica? E come ti rapporti con questa voce?

G: Per me la scrittura, e forse l’esperienza dello stare al mondo in generale, sono sempre fondate sulla relazione con l’altro. Forse per motivi biografici, credo di non sapere davvero come ci si senta a non essere in dialogo costante con qualcuno. Non riesco a percepirmi in una dimensione singola, individuale. Il mio dire, il mio sguardo sul mondo e su quelli che lo abitano includono sempre l’altrə, e con questo la consapevolezza che l’altro è insieme una presenza reale, anche ingombrante, con cui relazionarsi, condividere e negoziare desideri, ma anche una mia proiezione fantasmatica, una presenza che rimanda a un’assenza, a un’inattingibilità. Soprattutto a partire da Appartamenti o stanze, il mio secondo libro, nella mia scrittura l’altro è prevalentemente un fantasma-specchio, inglobato in un pronome di prima persona plurale, e intrappolato in immagini spesso inquietanti, distorte ma non per questo meno reali, che mostrano le dinamiche di potere e di violenza insite in ogni forma di relazione. In particolare, mi interessa raccontare le relazioni con l’altro fondate sull’esercizio della cura come forma di controllo, legittimata da schemi culturali inclini a impedire l’autodeterminazione dei soggetti ‘curati’, gli ‘oggetti’ della cura.

P: Non credo esista per me un’unica risposta. Del resto, come diceva Edmond Jabès (Il libro dell’ospitalità), «Male illuminate sono, il più delle volte, le vie della creazione». Tutte le cose elencate nella domanda hanno il loro senso, in misura variabile a seconda delle circostanze. Ma prima di tutto, per me, la voce dell’altro è insieme presenza e assenza, ugualmente lancinanti. Per entrare in rapporto con questa voce è necessario disporsi all’ascolto, che vuole anche dire tacere, annullare per un po’ se stessi e mettersi a disposizione dell’altro. In attesa dell’altro. Sembra un’ovvietà, ma non credo che lo sia. E non sempre è possibile trovare la forza di entrare in questa dimensione, che costa fatica. Ancora Jabès: «Al di qua della responsabilità, c’è la solidarietà. Al di là, c’è l’ospitalità». Andare oltre, andare al di là: non è cosa che si possa fare tutti i giorni in tutte le ore del giorno.

Oggetti infami. Ci sono a tuo parere oggetti ‘esclusi’ dalla voce poetica e che, invece, per questa voce sarebbero appropriati? Ci sono oggetti infami che ‘aspettano’ questa voce?

G: Non esistono oggetti infami per la poesia. Se alcuni oggetti non hanno avuto voce finora in poesia è solo perché non si sono create per loro le condizioni stilistiche (e forse storiche, in termini di evoluzione formale e di creazione di un orizzonte di attesa). Il punto al solito non è tanto l’oggetto, ma la lingua capace di raccontarlo – e questa è sempre, e sempre sarà, la cosa più difficile. Non basta decidere di includere qualcosa che prima era escluso, ma creare le condizioni poetiche per cui ciò che è stato escluso abbia una voce, una lingua, e modifichi così tutto il campo in conseguenza della sua inclusione. Questa è la sfida, questo il motivo per cui forse più lentamente si accolgono nuovi oggetti in poesia (rispetto al romanzo o al teatro, per esempio): perché la contrainte della lingua è qui più decisiva che mai.  Altrimenti è un atto volontaristico, e questi non hanno molto a che fare con la poesia (che mi interessa).

P: Mi sembra che la poesia moderna (e ovviamente contemporanea) abbia allargato notevolmente l’orizzonte del “poetico”, sicché non so se oggi si possa davvero parlare di oggetti esclusi o infami. Forse, più che di oggetti singoli e concreti, si potrebbe ragionare su una categoria, quella del “brutto”, dello “sgraziato”. C’è spazio per il brutto, in poesia? Non intendo come argomento, ma come presenza, come materiale necessario: brutto espressivo, brutto ritmico. Oppure, malgrado tutti gli allargamenti e le estensioni, il linguaggio poetico deve continuare a perseguire il bello, l’aggraziato, l’ordinato? Non ho risposte assolute; posso dire che in qualche circostanza credo di aver lavorato su questa idea di “brutto”, di averle schiuso la porta d’ingresso.

Impegno. Una parola sulla bocca di tuttə, e non da poco: impegno. Quanto conta l’impegno nell’orizzonte della poesia? Descriveresti la tua poesia come impegnata?

G: Nel mondo della poesia la parola ‘impegno’ mi pare circolare tutto sommato poco, in virtù, è presto detto, della sua scarsa rilevanza nel dibattito pubblico. Aggiungerei però che è come se si fosse ampiamente insinuato nel mondo di chi scrive poesia il sospetto nei confronti delle ideologie (tipico di un certo populismo) che sembra caratterizzare il nostro tempo.
Spesso la questione dell’impegno è scambiata per mera ideologia (ancora non mi rassegno all’uso negativo di questa parola) o, peggio, per la semplice iniziativa di accennare nei testi a grandi problemi del presente – attingendo per lo più alla cronaca – o al trattamento poetico di questioni storiche più o meno recenti.  Ancora una volta il problema è il come, che in questo caso si raddoppia.
Da una parte il come dell’impegno: quale visione del mondo emerge dal modo in cui parlo del presente e delle sue contraddizioni? Sto contribuendo alla conoscenza, alla riflessione sulla questione o sto soltanto corroborando una narrazione mainstream, largamente condivisa? In che modo mi schiero, prendo posizione, sposto lo sguardo di chi legge? E soprattutto: mi sto schierando, sto sparigliando le carte andando oltre le dinamiche della ricerca di un facile consenso?
Dall’altra parte, c’è il come della poesia di cui già parlavo: la lingua che sto usando – visto che nessuna lingua è neutra, soprattutto quella poetica (lo ha ben dimostrato il Novecento e la sua polarità tra un’egemonia della forma, legata a una visione conservatrice, e un’egemonia del contenuto, percepita come progressista perché attenta al contesto di produzione e alle sue dinamiche, ma altrettanto troppo parziale) – è in un rapporto consapevole con ciò che dico?
Spesso, usare una lingua attardata, piena di automatismi percepiti come poetici, finisce per indebolire il messaggio e la credibilità dell’impegno, triturato nelle parole del poetese. Anche (forse soprattutto) lo stile è politica. A volte ho l’impressione che ci sia più impegno nella semplice consapevolezza delle forze in campo (il rapporto con la tradizione, con il presente delle esperienze estetiche, con le possibilità future della forma) che agiscono nella propria lingua. C’è spesso più impegno in una presa di parola consapevole, anche dei propri limiti.

P: Cito ancora una volta (l’ultima) Jabès: “Non scrivo. Mi ostino”. C’è in questa formula una parte di risposta: la scrittura poetica, quella che mi interessa e che provo (mi ostino) a praticare, non può che reggersi su questa ostinazione, su questo impegno faticoso. La poesia, in questo senso, è impegnata indipendentemente dagli argomenti che tratta; e il suo impegno sta nel frugare costantemente e dolorosamente il punto di contatto tra parola e realtà, tra parola e visione del mondo. Poi, naturalmente, c’è il senso più comune, secondo il quale una poesia sarebbe “impegnata” quando affronta in qualche modo l’orizzonte politico, o comunque sociale. E siccome mi è capitato di farlo con una certa frequenza, io sarei dunque uno degli autori in questo senso “impegnati”. Non so se mi sento davvero a mio agio in questa visione delle cose. Spero di essere una persona impegnata, un cittadino impegnato, un insegnante impegnato. Ma se penso alla scrittura poetica, la nozione di impegno, intesa in questo modo, mi pare superflua e fuorviante. Scrivo, provo a scrivere, sulla base dell’esperienza, non della fantasia; posso scrivere ciò che ho davvero vissuto e esperito, il resto sarebbe un gioco o un trucco ripugnante. E se nelle cose che vivo e esperisco c’è anche l’orizzonte politico-sociale: perché non dovrei utilizzare questo materiale come gli altri della mia vita, diciamo più interiori e meditativi? In un certo senso, mi pare di sentire qui, dietro o sotto questi discorsi sull’impegno, un’eco della domanda precedente: come se la dimensione politica fosse per qualcuno distante a priori dal linguaggio poetico. Sarebbe cioè “poetico” meditare sul proprio dolore esistenziale, mentre non sarebbe altrettanto “poetico” dare voce a una preoccupazione (a un orrore) di natura politica. E perché mai?

Colpa-debito. In origine, impegnarsi è dare un oggetto a garanzia del fatto che si ‘restituirà’ un debito. Quanto c’entra l’impegno con l’essere in debito? O, come diceva Nietzsche, con la confusione che c’è tra l’essere in debito e il sentirsi in colpa?

G: Questione complessa. Chi scrive dovrebbe, teoricamente, sentirsi in debito perché ha il privilegio della presa di parola, e dunque dovrebbe pagare questa responsabilità, ma non saprei bene cosa può o dovrebbe restituire. Da una parte chi scrive dovrebbe (anzi deve) sentirsi completamente libero da ogni vincolo o debito o colpa, dall’altro dovrebbe avere la consapevolezza del proprio vantaggio e delle dinamiche implicate nella sua posizione (la non-neutralità della lingua e dello stile, le forze ideologiche in campo, la responsabilità di dire alcune cose e non altre, l’influenza della presa di parola in un determinato contesto ecc.). Eppure, la libertà di chi scrive è comunque più importante della sua consapevolezza. La storia della letteratura è piena di straordinari autori e autrici non del tutto consapevoli o non impegnati. Ed è anche piena di molti autori e autrici molto impegnati di cui non è rimasto nulla. Pochi sono i poeti che riescono a fare le due cose, essere liberi e impegnati (almeno nello stile). A volte mi chiedo se il tentativo di conciliare questi due aspetti non valga, oggi più che mai, tutta l’impresa di scrivere poesia. A volte mi rispondo che scegliere di farlo non significa riuscirci.

P: Ho già accennato, nella prima risposta, alla mia sensazione di aver dovuto abbandonare, scegliendo di scrivere, un mondo, che era quello in cui ero cresciuto fino ad allora. Il debito (non la colpa, spero, concetto da cui ho tentato per tutta la vita di svincolarmi, se il “senso di colpa” è prima di tutto un retaggio dell’educazione cattolica che ho molto moderatamente subito) nasce principalmente da lì. Scriveva quarant’anni fa (1980) Antonio Porta: «Poiché ci vogliono muti, o parlati da un linguaggio altro, io sceglierò la voce». Non che io, all’inizio, fossi esattamente cosciente di una simile scelta; ma di fatto questo è avvenuto, anche se l’avrei capito solo in seguito. Ma gli altri, i compagni dell’antico mutismo, che la scelta della parola lasciava inevitabilmente indietro: con loro si contraeva un debito, una promessa. Poi avrei incontrato altre varianti del debito: si scrive da soli, ma per farlo si ha bisogno, anche se non lo si sa, del sostegno, dell’insegnamento, dell’aiuto di molte altre persone, grandi o piccole, maggiori o minori, non importa poi molto. C’è, nella scelta della parola, anche un’assunzione di responsabilità. Il privilegio di scrivere e di parlare ha un prezzo, che andrà pagato poi per tutta la vita.

Verità obliqua. «Di’ tutta la verità ma dilla obliqua», ha scritto Emily Dickinson. Come interpreti questo verso? Che senso ha, per te, l’aggettivo “obliquo” nel dire-il-vero in poesia?

G: La verità ha un numero finito ma potenzialmente altissimo di facce. Dubito che esista il dire-il-vero in poesia. In generale, la verità mi pare una categoria pericolosa, nei confronti della quale avere la guardia molto alta, perché è costume diffuso infilarci dentro teologie personali e strumentalizzazioni, che a loro volta autorizzano azioni di esclusione o discriminazione (se chi sta nel vero – di solito in pochi – ha la pretesa di additare come inferiore chi non sta dalla parte del presunto vero – tutti gli altri). Ciò detto, credo esistano molti modi per avvicinarsi alle tante verità, e quello obliquo è sicuramente una possibilità, perché permette di uscire dalla dimensione scontata e prevedile, e dunque piatta, dello sguardo frontale. Per la mia poesia (soprattutto nella Corsa o nelle Fuggitive), tuttavia, temo valga di più la categoria di ‘opaco’. Non si tratta tanto di porsi obliquamente: la postura può anche essere frontale, ma è la cosa stessa che si vorrebbe dire o mostrare che è opaca, inattingibile nella sua trasparenza o immediatezza, e dunque la lingua insieme combatte contro questa opacità e si arrende a questa parzialità dello sguardo e del dire. 

P: Penso di intenderlo così: a prendere le cose di petto, si finisce per farsi male o per dover alzare la voce. La poesia non è un gesto atletico o uno scontro ideologico con la verità o con la menzogna. E la verità della poesia ha bisogno di voce bassa e aggiramenti: lì davanti c’è sempre un aut aut, una realtà che ti chiede di scegliere, o così o così, una pinza o una tenaglia. E cosa fa la poesia? Prova a cercare un’alternativa, una via di fuga, un modo per aggirare il blocco. Perché le cose, per la poesia, non sono mai quello che dicono di essere, la realtà non è mai quella realtà che si pretende unica; e allora bisogna procedere obliquamente, perché solo così sarà forse possibile scoprire altre cose, altre realtà. La verità detta “di petto” rischia poi sempre di sembrare un proclama; la verità obliqua allude, insinua, apre orizzonti.

Empatia. “Soldato russo, ragazzo ungherese, non v’ammazzate dentro di me”, scrive Franco Fortini in occasione dell’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956. Parla dell’evento storico e del suo significato per la sua personale militanza in una certa cornice. Fortini mette in prospettiva l’evento presente, chiede a sé di non “empatizzare” – di non sentire l’evento e la sua violenza dentro di sé, e rivendica una distanza per esprimere un giudizio dentro la poesia. Pensi sia una strategia condivisibile? Ce ne sono altre?

G: Non si può negare che in un tempo in cui la proliferazione di racconti e immagini della cronaca condiziona da vicino la nostra esperienza, sono tanti a denunciare una eclatante mancanza di empatia, al punto che il reiterarsi di questa denuncia ha indebolito la parola empatia riducendola a facile slogan “per un mondo migliore”. Nasce da qui credo un mio certo sospetto nei confronti della categoria dell’empatia, e bene intendo la distanza rispetto alla storia (e alle sue atrocità) suggerita da Fortini. La cosa più difficile, e più importante, tuttavia, mi sembra il proposito fortiniano di esprimere un giudizio dentro la poesia. Difficile, ma necessaria: se si vuole, in poesia, parlare degli eventi storici senza limitarsi alla descrizione della loro rilevanza, biografica o collettiva, o peggio ancora, alla loro mera rievocazione o commemorazione, è necessario esporsi fino a stare in bilico, assumere posizioni scomode, ribaltare il tavolo, ciascuno come può.

P: Dietro queste parole di Fortini si sente anche, inevitabilmente, il magistero di Brecht, la teoria dello straniamento e cose del genere. Cose che conosco abbastanza bene, che ho letto e studiato e che mi hanno senza dubbio influenzato. D’altro canto, quando da giovane pensavo (sbagliando!) che la mia strada fosse quella del teatro d’avanguardia, e per alcuni anni ho lavorato con un piccolo gruppo di amici, ho seguito anche la rotta opposta, quella dell’empatia, dello sprofondamento, se vogliamo del pathos ad ogni costo. Il tutto a una certa distanza da Brecht. Lavoravamo con un gruppo di esuli argentini, attori straordinari, che si erano riuniti a Milano nel collettivo della Comuna Baires. Proponevano spettacoli sulla tortura, sulla violenza, e avevano elaborato un metodo attorale (di lontana derivazione stanislawskiana) molto aspro e crudele. Era del resto l’epoca in cui si riscopriva il teatro della crudeltà di Artaud, si seguivano il Living Theater, Grotowski, Eugenio Barba, poco dopo Kantor. Su entrambe queste piste credo di essermi inoltrato, scoprendo molte cose. Ma recentemente mi ha molto colpito il racconto di un notevole scrittore, che oggi ha più o meno la mia età, e che narrava dei suoi esordi poetici, su cui vegliava nientemeno che Andrea Zanzotto. Zanzotto leggeva le sue cose, gli dava dei consigli; ma un giorno l’ha convocato a casa sua, per dirgli una cosa importante, e cioè che doveva assolutamente smettere di scrivere quel tipo di poesie. Ovvia la reazione incredula del giovane; a cui Zanzotto ha poi spiegato (in dialetto veneto; ma qui lo scriverò in italiano): «tu scrivi con le lacrime agli occhi, e non bisogna scrivere con le lacrime agli occhi, perché se no le lacrime cadono sul foglio, si mescolano con l’inchiostro e viene fuori un pastrocchio. Non bisogna scrivere con le lacrime agli occhi; ma con la memoria delle lacrime”. Ecco, questa mi pare una sintesi straordinaria, in cui riesco a riconoscermi perfettamente.

Margini. La poesia riveste un ruolo “eccentrico” rispetto al mercato editoriale e alla letteratura, di cui è riferimento necessario, ma spesso marginalizzato. Si può dire che la vera ‘potenza’ della poesia sia – parafrasando una riflessione di bell hooks – stare nel margine, ovvero in uno spazio di possibilità e di radicale apertura? E raccogliere, in questo spazio, le voci di sottofondo, inaudite?

G: Anche in altre epoche, nella storia moderna, la poesia ha rivestito un ruolo marginale paragonabile a quello che ricopre adesso. E, tutto sommato, visti i meccanismi commerciali e conformistici che stanno condizionando la narrativa, imponendo mode e stili ‘semplici’, mi sembra vantaggiosa questa posizione liminale  (che pure la espone, però, a una certa confusione da parte del pubblico non esperto che fatica a orientarsi – in mancanza di coordinate critiche percepite come legittime – nell’affollato agone dei poeti più o meno riconosciuti). Vantaggiosa perché permette una maggiore libertà, ma non saprei dire quanto spesa bene e se davvero permetta che ci sia più spazio per le voci di sottofondo. Se è vero che la poesia contemporanea italiana vive un momento interessante, per varietà e complessità di voci, mi pare ci sia ancora molto da fare. Basti pensare a quante poche voci del sud Italia (non dialettali) riescono a imporsi a un pubblico più esteso, nazionale, e quanto poco riescono a farlo se decidono di raccontare la vita (e la visione del mondo) di quei contesti, che non è né quella delle grandi metropoli, né quella delle periferie urbanizzate, né tanto meno di contesti di provincia a forte impronta borghese. Questo sarebbe un ‘inaudito’ che sarei felice di vedere apparire più spesso nello spazio della poesia contemporanea; sarei curiosa di scoprire le nuove lingue capaci di farlo (io, finora, non ci sono riuscita).

P: Certo che si può dire (mi sa che l’ho detto e scritto anch’io, in più di un’occasione); sapendo però che qualcuno sorriderà malevolo, e tirerà fuori la vecchia favoletta della volpe e dell’uva. Corriamo pure il rischio, penso io. Perché la verità dello “stare ai margini” mi sembra importantissima e irrinunciabile; è proprio ai margini (del mercato, della semiosfera, di noi stessi in un certo senso) che abbiamo la possibilità di incontrare quel famoso “altro” e di ascoltarne la voce. Uno esce dal supermercato, magari da una porta di servizio che si apre sul retro, nei parcheggi dei camion; e trova quasi sempre una cassiera esausta che sta fumando, un magazziniere in pausa con cui scambiare due parole. Nel “centro” non succedono quasi mai cose interessanti; il centro è troppo soddisfatto di sé, non ha tempo di pensare ad altro. Ai margini, invece, si muovono i mondi.

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Parte seconda – domande individuali su poesia e presa di parola

Domande a Carmen Gallo

di seguito, tutte le domande rivolte specificatamente a Carmen Gallo

La traduzione, come racconti in un’intervista su La balena bianca, «è una delle esperienze di scrittura che preferisci». Nella nota introduttiva a una raccolta di scritti e di traduzioni intitolata Tradurre poesia, Joyce Salvadori Lussu scriveva: «Tradurre poesia è sforzo per comprenderla, è quasi riviverla. Basta solo (ma è indispensabile) avere col poeta il denominatore comune della posizione dell’uomo nei confronti della vita». Ti riconosci in questa affermazione? Quanto, per te, la traduzione ha a che fare con l’impegno?

L’idea del denominatore comune mi piace molto, anche se ho un’idea della pratica della traduzione non solo come sforzo per comprendere la poesia, ma anche per restituirla, per darle il volto e il corpo con cui potrà aggirarsi nel nuovo mondo linguistico nel quale la invento e la affido. Questa restituzione ha a che fare con un corpo a corpo con il testo originale, con la lingua in cui traduco, con il contesto letterario in cui l’opera sarà accolta, ecc.  Forse per me la traduzione, più della poesia, ha a che fare con l’impegno. Qui la questione della responsabilità diventa ancora più centrale: si ha la responsabilità dell’opera di un altro/altra: e, nel caso di testi inediti, la responsabilità della loro circolazione nel nuovo contesto; nel caso di classici, invece, la responsabilità che è quella di mettere in discussione interpretazioni precedenti per dare spazio a ciò che il classico può ancora dire e consegnare al futuro di vecchi e nuovi lettori.

“La caduta più del salto”. Così si intitola l’ultima sezione della tua raccolta Appartamenti o stanze. E anche Le fuggitive cadono continuamente. Andrea Cortellessa ha parlato di una “disciplina del cadere” a proposito di quest’ultimo libro. La caduta è un fatto politico, come ci ricorda di continuo Beckett (e Deleuze, lettore di Beckett). Cosa significa per te “cadere”?

Il salto è lo slancio nel vuoto, l’incoscienza, ma anche la potenzialità, la promessa. Se si vuole, è un atto di fiducia nel futuro e nelle sue possibilità. La caduta invece è stare schiacciati a guardare il presente solo per ciò che è, avvertire tutto il peso della difficoltà, cedere all’inerzia, alla gravità. È, in ultima istanza, la lucidità: quella che ci convince che il salto, il lancio, non sono più possibili, o comunque non vale la pena. In questo senso la caduta può alludere a una dimensione politica di disincanto, da cui però – soprattutto in Appartamenti o stanze e nelle Fuggitive – i soggetti cercano di uscire, sapendo bene che la lucidità senza la capacità di slancio e di rilancio (la capacità di immaginare un futuro diverso, in senso personale o collettivo) non serve a nulla, ma anzi incatena, paralizza. La disciplina del cadere allude in parte a questo: trovare un equilibrio tra l’analisi lucida del presente e la capacità di saltare, di superare la paura o il disincanto, di tornare ad avere fiducia nel senso stesso del gesto e del movimento che si estendono nel futuro.

“Fuga”, “corsa”, rifiuto di forme di cura violente. Ma anche ‘gioco’, anche strategie per “uscirne vivi” (come recita il titolo della terza sezione). C’è come un aspetto tattico che emerge ne Le fuggitive e che dall’impronta autobiografica si sposta, specie in Uscirne vivi, a toccare storie ‘minime’ – faits divers – in cui al rifiuto delle cose si accompagnano piccole modifiche, espedienti. Un catalogo di “piccole virtù”, quasi giocoso. Questo gioco di spostamenti, dilazioni, straniamenti, ha tratti politici?

Lo spostamento che attraversa il libro è quello dallo spazio mitico e infantile, fantasmatico e claustrofobico del soggetto (La corsa, Le fuggitive), a quello reale delle cose più o meno bizzarre o sorprendenti che accadono (Uscirne vivi). Le paure e le inquietudini individuali sono dislocate in una cornice collettiva, che restituisce il quadro di un mondo in cui tutti cercano un modo per uscirne vivi, cercano cioè nuovi modi, spesso anche paradossali, per saltare, oppure per imparare la disciplina del cadere. Questa espansione della visione ha un valore politico, così come la decisione di assegnare a questo allargamento alla realtà una scrittura in prosa e non i versi. Ma è forse più in generale il tema della fuga da ciò che minaccia la sopravvivenza la questione centrale o più politica del libro: il desiderio della fuga che non sempre appare possibile (si pensi alla città di Taranto, nominata non a caso nel primo verso, e al vulnus che rappresenta nella storia del nostro paese, oppure alle piccole storie di Uscirne vivi dedicate al carcere o istituzioni di fatto detentive per indigenti). La fuga ha a che fare con il desiderio insomma di liberarsi e mettersi in salvo (in questo senso è centrale il tema della fiducia e del futuro), ma anche con le aberrazioni del potere da cui si tenta di fuggire: fra tutte quelle delle istituzioni – lo stato, la società, la famiglia -, con il loro portato di ambivalenza della cura, e di persecuzione e violenza più o meno dissimulata.

Domande a Fabio Pusterla

di seguito, tutte le domande rivolte specificatamente ad Fabio Pusterla

La dimensione del passaggio sembra centrale nella tua scrittura, a partire dal luogo dei tuoi versi, la Frontiera sereniana, ma anche dal tuo nome: pusterla è la «piccola porta laterale», aperta nelle mura di città e castelli, come scrivi nella nota a un testo (Regole per il custode della piccola porta, in Argéman, 2014). Nel primo movimento dello stesso testo ti domandi: «Passare: che cosa significa?». E nel recente Requiem per una casa di riposo lombarda ti interroghi sulle possibilità dello sguardo del passante, su quel che non vede e potrebbe vedere. Il “passaggio” è un atto politicamente connotato, c’entra con la dimensione performativa del linguaggio. Com’è cambiata nel tempo la tua interrogazione poetica su questo concetto?

Non so se è cambiata, ma certo si è precisata; anche in questo caso devo dire onestamente che quando ho cominciato a scrivere di cose ne sapevo poche, anche se forse ne intuivo molte. Poi, con il passare del tempo, con l’esperienza e con le letture, spero di essere diventato più cosciente. Il “passaggio”, tanto per cominciare, si oppone allo “stare”, suggerisce un cammino e anche la possibilità di superare un ostacolo, di attraversare qualcosa: «caminante, no hay camino: / se hace camino al andar» dicono due versi splendidi di Machado; quando li ho incontrati, quei versi, credo si sia formata nella mia immaginazione una specie di antitesi, tra il caminante  di Machado e i cocci aguzzi di bottiglia di Montale (l’autore su cui all’inizio mi sono probabilmente formato, e che oggi sento molto più lontano). Questa idea del passaggio ha poi molto a che vedere con la caratteristica forse maggiore della poesia: il ritmo, che è soffio e respiro, vento, cioè movimento del linguaggio. Verso dove? Non c’è risposta, e forse il “passaggio” è possibile soltanto quando la meta è incerta o inesistente. Passa il vagabondo, passa il fuggiasco, passa lo smarrito; e quasi mai passano dalle porte principali, riservate ai regnanti e ai loro eserciti (di nuovo l’idea dei margini). Così quando ho scoperto (grazie a un esame di storia medioevale che non ho passato, perché la prima assurda domanda era stata: «mi parli della sua famiglia» e io ovviamente non capivo) l’origine del cognome “Pusterla”, mi è sembrata simpatica quella porticina laterale, che probabilmente i miei antenati dovevano custodire (per impedire appunto il passaggio), e che invece io vorrei provare a socchiudere. Quindi l’idea del passaggio è per me piuttosto complessa; riguarda la parola poetica, prima di tutto, e riguarda anche me, che sono (vorrei essere) contemporaneamente custode del passaggio e passante. E quando sono io a passare, a vagare per le strade come un casuale passante, ho l’impressione di poter vedere cose che altrimenti non avrei visto.

Sin da Concessione all’inverno, è stato notato, rivolgi un’attenzione particolare al tema dello scarto, del detrito tanto geologico quanto umano, storico – un oggetto che sta fuori dal riuso, dal riciclo, che è uscito dai meccanismi del valore, senza soggetto che gli doni un senso. Questo soggetto può essere quello poetico?

È vero: il detrito e lo scarto, nelle loro varie forme, hanno sempre attratto il mio sguardo e i miei tentativi di scrivere. Credo dipenda dal fatto che queste realtà di deiezione mi sembrano indizi, tracce di qualcosa; e insieme oggetti che portano in sé un senso potenziale, tutto da scoprire. Ancora una volta torna il discorso di prima, i margini che si oppongono al centro, l’inutile e il dismesso al valore d’uso e alla merce. Poi c’entrano forse anche il posto e il «tempo del mondo» in cui sono cresciuto: Chiasso, sulla frontiera, con la sua vasta stazione commerciale, e gli anni ’60 del secolo scorso, con la megalopoli padana in espansione: tutto questo produceva, per chi voleva vederlo, uno sterminato paesaggio di detriti e di scarti, in cui io giocavo e vagavo. E dal quale forse non mi sono mai allontanato troppo. «Gatti ciechi, salamandre, rotaie: / moltissime ricchezze» mi pare di aver scritto in una poesia antica, dedicata appunto a quel periodo. E c’era anche un’intuizione: che la parola che cercavo, cioè la parola poetica, non potesse che trovarsi laggiù, tra gli scarti.

In Bocksten un distico parla di “Argini, casse d’orologi, fotografie stinte /tutto un bisogno di parola, insoddisfatto”. Nel vortice, a volte piuttosto retorico, di narrazioni che vogliono restituire parola a un passato muto o intorpidito, la poesia può fornire risposte, o indicazioni meno ireniche? Può aiutare a dire l’insoddisfazione? Se sì, come?

Questa è davvero una domanda difficile. Non penso che il «passato muto e intorpidito» della domanda possa mai essere detto fino in fondo; adesso che non sono più giovane mi rendo conto che anche il “mio” passato, l’esperienza fatta a quindici, venti o trent’anni, non sono forse narrabili o trasmissibili facilmente. Una volta, con mio figlio adolescente, eravamo soli in casa; lui doveva aver combinato l’ennesima stupidaggine, io avrò tentato di farlo ragionare, e lui, con un sorriso un po’ di sfida mi ha detto: «eh, dai, anche tu alla mia età…». Era un momento complicato, forse, sarò stato stanco o esasperato; fatto sta che mi sono messo a piangere, e gli ho risposto: «tu di me non sai un cazzo».
Fatta questa premessa, posso dire che con Bocksten mi sono immerso in un tentativo di scrittura di cui ignoravo il percorso e gli esiti, e che forse, nella mia esperienza, è stato uno dei tentativi più estremi. Cosa avevo in mano? Un lutto privato (la morte di mio padre), e l’immagine misteriosa di questo morto ammazzato alcuni secoli fa, riemerso in una torbiera svedese, il Bockstensmannen. Le due cose erano entrate in contatto in modo per me abbastanza misterioso, e ho deciso di provare a vedere dove mi avrebbe condotto la scrittura. Adesso devo dire, per spiegarmi, alcune cose che sembreranno un po’ ridicole o un po’ retoriche. La prima: per «entrare» nel personaggio Bocksten mi pareva necessario avere la percezione del buio totale, che però non avevo mai visto; non mi era possibile scendere in una delle miniere di sale o di carbone dove ad un certo punto si spengono tutte le luci e i turisti si spaventano. Ma nella scuola dove insegnavo avevano da poco ristrutturato i gabinetti; e avevo scoperto che se mi chiudevo in uno di quei cubicoli e aspettavo che non ci fosse più nessuno nell’area comune dei lavandini, e stavo perfettamente immobile, si spegnevano tutte le luci (a meno che non entrasse qualcuno a rovinare tutto) e rimanevo completamente al buio, grazie alle nuovissime porte massicce. Così ho passato qualche ora lì dentro, sperando che nessuno si accorgesse di questa mia stranissima operazione. Forse anche questa immersione quasi totale nel personaggio Bocksten, forse più simile alla ricerca di un romanziere che a quella di un poeta, ha propiziato una cosa che non mi aspettavo: a un certo punto il Bocksten ha preso vita dentro di me, e ha cominciato a parlare autonomamente; io scrivevo quello che lui mi dettava, si potrebbe dire; e anche se naturalmente stiamo parlando di un fenomeno immaginativo, e forse psichico, la cosa è stata importante, appunto per evitare la retorica e per avvicinare per quanto possibile la scrittura poetica a un barlume di verità, perché quello che Bocksten diceva era molto poco pacifico e molto arrabbiato. Se dovessi cercare di trarre una lezione da tutto questo, forse dovrei dire: se voglio dare la parola all’altro, devo cercare l’altro dentro di me, devo diventare l’altro con tutti i rischi del caso. Un po’ come si narra che Dustin Hofmann, prima di affrontare le riprese de Un uomo da marciapiede, avesse deciso di trascorrere alcuni mesi con un clochard zoppo, per imparare a muoversi e a comportarsi come lui. Ma Dustin Hofmann si era formato all’Actors Studio, dove il discorso di prima, sul metodo attorale, era ben vivo e presente. Dunque: diventare l’altro, immergersi empaticamente nell’altro e nel suo buio; e contemporaneamente conservare la distanza necessaria per poterne poi scrivere («con la memoria dell’altro», se vogliamo parafrasare Zanzotto). E se il buio dell’altro ci inghiottisse davvero? Anche questo fa parte del rischio, del prezzo da pagare. (Quando Bocksten venne pubblicato, Maria Corti telefonò a Claudia, la mia compagna, molto preoccupata, per sapere se stavo bene. Stavo bene, per quel che si può; ma credo che lei avesse intuito che camminavo su un margine molto pericoloso).


Carmen Gallo ha pubblicato i libri di poesia Paura degli occhi (L’Arcolaio 2014), Appartamenti o stanze (D’If, 2016) e Le fuggitive (Aragno 2020), che ha vinto il Premio Napoli per la poesia 2021. Nel 2019 è stata inclusa nel XIV Quaderno di poesia contemporanea a cura di F. Buffoni (Marcos y Marcos) con La Corsa. I suoi testi sono apparsi su riviste e in diverse lingue. Un’ampia selezione tradotta in tedesco è presente nell’antologia Die Maulposaune. Gedichte aus Italien, a cura H. Thill e C. Caradonna (Das Wunderhorn). Come anglista e traduttrice, ha curato Tutto è vero, o Enrico VIII di Shakespeare (Bompiani 2017), tradotto un dramma di Caryl Churchill, Ritratti di figure con veleno (Editoria&Spettacolo 2020), e pubblicato il saggio sui poeti metafisici L’altra natura. Eucaristia e poesia nel primo Seicento inglese (ETS 2018, Tempera Book Prize 2018). Il suo ultimo lavoro è una nuova edizione e traduzione commentata di The Waste Land di T.S. Eliot, intitolata La terra devastata, per il Saggiatore (2021). È nella redazione della rivista “il verri” e del blog Le parole e le cose2. Insegna letteratura inglese alla Sapienza Università di Roma.

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Fabio Pusterla insegna presso l’Università della Svizzera Italiana; ha insegnato anche presso  le Università di Ginevra e di Pavia. È poeta, saggista e traduttore. Dirige la collana “Le Ali” per l’editore Marcos y Marcos. Si occupa soprattutto di letteratura moderna, di traduttologia e di poesia contemporanea. L’esordio in poesia è del 1985, con la raccolta Concessione all’inverno, a cui seguono numerosi altri titoli. Le sue opere poetiche sono in parte riassunte nelle antologie Le terre emerse (Einaudi, 2009) e Da qualche parte nello spazio (Le lettere, Firenze, 2022); tra le raccolte più recenti, Cenere, o terra (2018), e le plaquettes Truganini e Requiem per una casa di riposo lombarda (2021), prime anticipazioni del libro imminente, Tremalume (Marcos y Marcos, settembre 2022). Tradotto nelle principali lingue europee, ha ricevuto molti riconoscimenti, tra cui il Premio Montale, il Premio Schiller, il Premio Gottfried Keller, il Premio Dessì, il, Premio Ceppo Pistoia, il Premio Svizzero di Letteratura, il Premio Napoli, il Premio Vittorio Bodini e il premio Dedalus. Su di lui è stato realizzato da Francesco Ferri il film documentario Libellula gentile. Il lavoro del poeta (Ventura Film, 2018), a cui è seguito l’omonimo libro curato da Cristiano Poletti (Marcos y Marcos, 2019).

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Le foto in copertina e prima della seconda parte sono tratte dal film La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri con protagonista Gian Maria Volonté.

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Massimo Palma ha pubblicato Berlino Zoo Station (Cooper 2012), Happy Diaz (2015, Castelvecchi 2021), Nico e le maree (Castelvecchi 2019). Con Movimento e stasi (Industria & Letteratura 2021) ha vinto il Premio Fortini per la poesia. 

Ha scritto i saggi I tuoi occhi come pietre. Trauma e memoria in W.G. Sebald, Paul Celan, Charlotte Salomon e Foto di gruppo con servo e signore (Castelvecchi 2020 e 2017). Ha curato opere di Max Weber (Economia e società, Donzelli 2003-2018), Walter Benjamin (Senza scopo finaleEsperienza e povertà, Castelvecchi 2017 e 2018), Georges Bataille (Piccole ricapitolazioni comiche, Aragno 2015), Georg Heym (Umbra vitae, Castelvecchi 2020), Fredric Jameson (Dossier Benjamin, Treccani 2022).

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Sara Sermini lavora come ricercatrice all’Université Paris Nanterre. Ha dedicato una monografia alla figura e all’opera di Amelia Rosselli: «E se paesani /zoppicanti sono questi versi». Povertà e follia nell’opera di Amelia Rosselli (Olschki, 2019). È autrice di una raccolta di poesie intitolata Diritto all’oblio, in parte pubblicata nel Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2021).


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