Snuff box: poesia e presa di parola | Interviste a Agustoni e Lotter

Si estrae una presa di tabacco da una scatola, generalmente di latta, la si posa sul dorso della mano o nello spazio tra i tendini alla base del pollice (la “tabacchiera anatomica”). Poi si aspira col naso. È un gesto inconsueto ormai. La narice si fa nera. Nera la saliva. È un gesto inelegante.
Come quello del/la poeta, quando prende tra le dita la materia del reale, inspira, la incorpora. Mastica.
La presa di realtà può diventare presa di parola. È uno dei gesti dell’impegno. Le interviste di questo ciclo vogliono sondare il rapporto tra poesia e impegno, le parole che lo connotano, i gesti tesi che lo caratterizzano: prendere la parola, dare voce, ma anche togliere la parola, o restituire il silenzio. 

Ciclo di interviste a cura di Massimo Palma e Sara Sermini per lay0ut magazine. A ogni autore sono state sottoposte otto domande fisse e un numero variabile di domande individuali. Il terzo episodio dà in parallelo le risposte di Nadia Agustoni e di Maddalena Lotter.


Parte prima – 8 domande fisse su impegno e presa di parola in poesia

Gesto. Prendere la parola, dare voce, togliere la parola, restituire il silenzio. C’è un gesto, tra questi, che ti sembra rappresentare la tua scrittura poetica? Oppure nessuno di questi?

Agustoni: Prendere la parola e ascoltare il silenzio, a volte restituirlo, nel senso di lasciare respiro nelle parole. Lasciarle in uno spazio dove chi voglia entrare deve sentire di rischiare qualcosa di sé perché non troverà quello che crede di sapere.

Lotter: Direi che dipende dai libri. Nel mio ultimo lavoro, Atlante di chi non parla, già dal titolo il lettore comprende che la volontà è quella di ‘dare voce’ a chi generalmente non ne ha: in questo caso sono anche animali, vivi, o estinti, o immaginari, personaggi insoliti e non del tutto identificati, come il testimone del poemetto finale. Quindi, per quanto riguarda l’ultimo libro direi che il gesto che mi corrisponde è ‘dare voce’, ma anche, volendo, ‘restituire il silenzio’, perché ci sono luoghi del libro in cui non si parla (per esempio negli abissi), eppure anche lì accade qualcosa di importante. Il mio secondo lavoro, la silloge Questioni naturali, a cui tengo molto perché vedo che mi ha traghettata al terzo (non ci sarebbe stato l’Atlante senza le Questioni), è incluso nel XIV Quaderno Marcos y Marcos ed è una tappa importante per la mia scrittura. Con le Questioni naturali ho visto delinearsi meglio le mie attuali urgenze poetiche.

Voce. Cos’è la voce dell’altrə? Un fatto acustico, sonoro? Una presenza o un’assenza? Un fantasma o una realtà fisica? E come ti rapporti con questa voce?

A: È semplicemente l’altrə. La sua parte più intima che cerca di comunicare, a volte andando fuori strada o mascherandosi, ma ogni maschera rivela, quanto un viso, quanto un gesto.

L: In un suo saggio molto interessante intitolato Alterità, in Italia edito da Mimesis, il filosofo Francois Jullien esprime chiaramente quali sono state le responsabilità della filosofia occidentale nei riguardi della postura nei confronti dell’Altro, quando scrive che nella prospettiva della dialettica «l’Altro è ordinato (rangé), non disturba (dérange). La dialettica è una sublime creazione, ma la sua conseguenza è quella di ordinare l’Altro, privandolo della sua capacità di essere Altro». E ancora, cito un altro passo: «Per accedere all’Altro, bisogna far riferimento a una concezione differente, la quale racchiude una nozione di alterità che non scaturisce dalla logica, ma da ciò che dovremo chiamare, aprendo uno scarto con la logica, l’esistenza. L’esistenza è proprio l’Altro della logica, dal momento che, come sappiamo, almeno da Kant in poi, l’esistenza è ciò che non rientra in alcun ragionamento: non la si può che constatare». Queste riflessioni di Jullien mi permettono di spiegare meglio cosa intendo io per ‘voce dell’Altro’ e cosa ho cercato di fare nella scrittura: ho cercato di constatare l’esistenza dell’Altro, un Altro disordinato e che disturba in quanto esiste di fronte a chi dice io. Sono i vulcani e le balene che abitano i testi. Certo, nei testi questi soggetti appaiono filtrati dalla mia coscienza, e questo non posso impedirlo, perché anch’io esisto, ma ho cercato nella scrittura di frenare la consueta ‘violenza’ che riduce l’Altro a oggetto, azione che è stata fatta per secoli, per esempio nei confronti della natura: la natura in letteratura è stata spesso ridotta a paesaggio, a veduta, a specchio del sentimento umano, mentre in ambito scientifico «segmentata in una serie di analisi specifiche, lodevoli quanto divaricate, approfondite quanto isolate. […] Così la natura è scomparsa, dissolvendosi nei suoi costituenti e smarrendo una visione d’insieme, cioè una riflessione filosofica capace di affrontare un meta-oggetto così vasto e diversificato», come scrive Paolo Vidali nel suo bellissimo studio dal titolo Storia dell’idea di natura (Mimesis).

Oggetti infami. Ci sono a tuo parere oggetti ‘esclusi’ dalla voce poetica e che, invece, per questa voce sarebbero appropriati? Ci sono oggetti infami che ‘aspettano’ questa voce?

A: Non ci sono oggetti infami almeno per me. La poesia è nel modo in cui diciamo le cose. 

L: Ci ho pensato e no, non mi sembra che attualmente ci siano ‘grandi esclusi’ dalla voce poetica. Probabilmente ce ne sono, ma al momento non saprei dire quali. Mi sembra ci sia un’offerta vastissima di temi affrontati dagli autori della contemporaneità, e anzi molte volte mi sento schiacciata da tutti questi argomenti.

Impegno. Una parola sulla bocca di tuttə, e non da poco: impegno. Quanto conta l’impegno nell’orizzonte della poesia? Descriveresti la tua poesia come impegnata?

A: Descrivo la mia poesia come poesia; non mi penso come poeta impegnato e anche la parola poeta a volte è pesante. Nel mio scrivere parlo di cose che conosco, o di cose che vedo o mi raccontano, a volte usando l’io o il tu a volte (raramente) il noi, voi, essi… una voce poetica se riesce ad essere, ad avere vita, ha in sé l’io il tu il noi il voi eccetera… Abbatte questi steccati senza senso. L’impegno riguarda la vita; quello per cui ho lottato, in cui ho creduto, in cui credo. È giusto aggiungere che quello in cui credo si riflette in quello che decido di dire, ma scrivo da molto tempo e ho scritto di tante cose che dare un’etichetta è impossibile.

L: Fino a poco tempo fa avrei detto che no, la mia non è poesia impegnata. Invece a pensarci meglio credo che lo sia, in un modo poco dichiarato, forse. Nei miei lavori mi sembra di suggerire tra i versi alcune istanze piuttosto attuali, come quella, appunto, sulla differenza non-differenza tra Uomo e Natura (un sogno che ci portiamo dietro dal Seicento, pensando di essere superiori a tutti gli altri), sulla necessità di ricomporre un rapporto inter-specie (come sostiene con la sua scrittura visionaria proprio Donna Haraway, che avete giustamente citato in questa intervista) per affrontare anche l’emergenza ambientale dei nostri anni.
La questione ambientale è la questione della nostra generazione, ed è una questione più grande del surriscaldamento globale, il quale è solo un effetto di qualcos’altro, e cioè della nostra postura sulla Terra. La questione ambientale implica un mutamento di prospettiva etico-politica enorme per la nostra società. Credo che certi autori della letteratura (in tutte le sue forme) stiano, da tempo, esprimendo il loro impegno anche in questa direzione. 

Colpa-debito. In origine, impegnarsi è dare un oggetto a garanzia del fatto che si ‘restituirà’ un debito. Quanto c’entra l’impegno con l’essere in debito? O, come diceva Nietzsche, con la confusione che c’è tra l’essere in debito e il sentirsi in colpa?

A: Secondo me non si tratta che di una cosa: mettersi in gioco in quello che si fa; cercare di dare realtà e verità a qualcosa che si sente in modo forte. Non parlerei di debito o colpa. 

L: Beh, in riferimento alla questione ambientale, di cui ho parlato nella risposta precedente e di cui parlo nell’ultimo libro, il debito (con il mondo) è tantissimo e altrettanto grande è il senso di colpa da cui evidentemente muove, in parte, l’urgenza dell’impegno. Un problema, però, è che sono in pochi a sentirsi in colpa.

Verità obliqua. «Di’ tutta la verità ma dilla obliqua», ha scritto Emily Dickinson. Come interpreti questo verso? Che senso ha, per te, l’aggettivo “obliquo” nel dire-il-vero in poesia?

A: Ha il senso di lasciare che la poesia respiri; che viva, abbia leggerezza, scivoli via toccando punti vitali. Lasciare un po’ di mistero, di ampiezza; lasciare lo spazio perché altri possano leggervi cose a cui tu non pensavi mentre scrivevi. Creando magari altri significati, più profondi. O non usuali. Non metterla tutta su un piano come se cadesse dall’alto su un altare. 

L: Come è noto, in musica si parla di ‘staccato’ e ‘legato’ per indicare due modalità di esecuzione che sortiscono nell’ascoltatore effetti molto diversi, nel primo caso di brillantezza, nel secondo di vividezza melodica. Nella mia esperienza di scrittura, concepisco l’andatura obliqua di cui parla Dickinson come un’esecuzione legata, in cui ogni nota-parola si allaccia alla precedente e alla successiva, quasi come se si appoggiassero l’una sull’altra, stanche dopo una lunga permanenza in piedi sul rigo musicale-pagina. Dunque per ‘obliquo’ intendo un suono che fa la parola poetica quando fila via sulla pagina, quando le parole scelte scivolano una dopo l’altra nel racconto, giuste, appropriate, contenendo al contempo ambiguità e nitidezza.

Empatia. “Soldato russo, ragazzo ungherese, non v’ammazzate dentro di me”, scrive Franco Fortini in occasione dell’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956. Parla dell’evento storico e del suo significato per la sua personale militanza in una certa cornice. Fortini mette in prospettiva l’evento presente, chiede a sé di non “empatizzare” – di non sentire l’evento e la sua violenza dentro di sé, e rivendica una distanza per esprimere un giudizio dentro la poesia. Pensi sia una strategia condivisibile? Ce ne sono altre?

A: Senz’altro vi sono altre strategie.  Chi è contro le guerre lo è perché a morire sono gli inermi, i deboli, specialmente nelle guerre di adesso. A me interessa più si parli di questa realtà: degli inermi sacrificati come se la loro vita fosse senza peso. In questo senso sono di parte, ma non con odio. Sono di parte schierandomi con la fragilità delle vite di chi perde sempre, ovvero i civili, donne, bambini, anziani, chi non può scappare per tanti motivi. E sto coi disertori delle guerre, degli stati nazione, degli eserciti. 

L: Una certa distanza in poesia è importante specialmente per non risultare retorici. Nel caso del mio ultimo libro, ho giocato a prendere le parti e lo sguardo del naturalista / scienziato, proprio per cercare di parlare di temi particolarmente toccanti (la morte, la minaccia dell’estinzione ecc.) senza incorrere in un eccesso di empatia. In altre situazioni invece, è chiaro che funzionano altre strategie. Dipende da cosa si vuole scrivere e da quale effetto si vuole ottenere sul lettore.

Margini. La poesia riveste un ruolo “eccentrico” rispetto al mercato editoriale e alla letteratura, di cui è riferimento necessario, ma spesso marginalizzato. Si può dire che la vera ‘potenza’ della poesia sia – parafrasando una riflessione di bell hooks – stare nel margine, ovvero in uno spazio di possibilità e di radicale apertura? E raccogliere, in questo spazio, le voci di sottofondo, inaudite?

A: Questa definizione di bell books mi piace; ma l’eccentrico presuppone che le definizioni col tempo possono cambiare anche se all’inizio piacevano e anche se le abbiamo trovate cariche di libertà. Il margine è dove comincia lo sconfinamento, lo sconfinato. E l’inaudito. Potrebbe, però, anche sorprenderci un tipo di poesia che nasce lontano da dove pensiamo noi. Poi che la voce della poesia sia fuori dal mercato editoriale forse è un vantaggio: permette una libertà di ricerca che la prosa non ha più, se non in rari casi. 

L: Nella mia esperienza di lettrice di poesia e nei miei tentativi di scrittura di testi poetici, ho avuto senza dubbio la sensazione di muovermi in un margine, abitando in quel punto in cui visione, immaginazione, oggetto reale e simbolo trovano un’integrazione e un’unità. Penso che la potenza della poesia – almeno per come la intendo io – sia quella di lasciar presagire la vertigine della visione pur mantenendo un appoggio nella realtà: questo appoggio è la lingua. Cioè il fatto che il testo voglia comunicare con un Altro. La ‘radicale apertura’ e ‘l’inaudito’ possono dunque essere comunicati tramite il linguaggio poetico, che per forza di cose si crea su questo margine. Va precisato però che il linguaggio della poesia può essere usato con gli stessi scopi anche in un testo in prosa, anche in un saggio (Ne ho letti molti che si muovevano negli stessi margini della scrittura poetica: per andare tra i classici, penso a La conversazione infinita di Maurice Blanchot, tanto è vero che gli studiosi faticano a dire con certezza se Blanchot sia stato un filosofo o un critico letterario. I suoi lavori sono stati tante cose). Tutto dipende da come un testo è scritto e cosa cerca di toccare. In questo credo che l’idea dei margini ben si sposi con quella di ‘ibridazione’: i margini, per loro natura, si mescolano, si ibridano con quello che trovano nel margine. Guardiamo la riva del mare. Dove finisce il mare e dove finisce la spiaggia c’è uno spazio marginale e ibrido in cui la sabbia e la fine delle onde si mescolano insieme, formando una schiuma piena di piccoli detriti (alghe, conchiglie, a volte corpi di animali, sabbia). Così anche nelle scritture che si muovono ai margini: sono piene di ‘detriti’ di altri linguaggi.

Parte seconda – domande individuali su poesia e presa di parola

Domande a Nadia Agustoni

di seguito, tutte le domande rivolte specificatamente a Nadia Agustoni

“Il vento non ha immagini”, dici in un componimento del lavoro alla corazzata Potemkin che hai pubblicato per la prima volta nella fanzine “Versante ripido”. Pochi anni dopo, definisci le poesie di La casa è nera “poesie sulla guerra, la distruzione, sulle lacerazioni”. Si potrebbe provare a ‘comporre’ le due affermazioni e dire: “la guerra non ha immagini”? Nel senso: le immagini di sofferenza in fondo anestetizzano, o è piuttosto il loro montaggio a farlo? E pensi che le parole, in particolare quelle poetiche, abbiano un potere diverso che non coincide né con l’anestetizzazione né col suo rovescio altrettanto rischioso, ovvero l’estetizzazione?

Le parole che usiamo se sono efficaci è perché, al di là delle varie retoriche che ci propinano un po’ tutti, toccano nuclei di verità. Sono aderenti a qualcosa e liberano qualcosa nel pensiero. La poesia è questa libertà dell’umano di dire senza anestetizzare, ma anche senza estetizzare. Ci si accorge subito se c’è un altro fine o una nota stonata. La guerra ha fin troppe immagini, non dobbiamo immaginare nulla. È quello che reiterano i giornali e le TV che anestetizza. Toglie umanità a quei corpi dilaniati. E si finisce che non li si vede veramente. Un altro esempio: persone che fanno il bagno in mare mentre a riva ci sono corpi annegati di migranti. Per loro sono corpi senza peso, non contano. Tant’è che spesso dicono: “Anche laggiù loro sarebbero comunque morti, di fame o malattia”. Questo fa l’unione di ignoranza, razzismo e presunzione. Quello che anestetizza è pure questa presunzione, che è presunzione di superiorità, se vogliamo dirla tutta.

“La storia è estinzione di infanzie”. Un verso molto potente, come ha notato anche Giovanna Frene nella sua nota a La casa è nera. Anche perché in fondo ambiguo. Non c’è il solo senso letterale, acido, di un contesto di guerra che elimina, cancella (i nazisti dicevano ‘Ausmerzung’, eradicazione), ma volendo anche un altro: la storia come narrazione che ‘estingue’ il debito di non potere, non sapere parlare. Secondo te la poesia può in questo senso dirsi (anche) la storia di chi per vari motivi non parla? O questa è una definizione troppo consolatoria?

È una definizione consolatoria, ma chi parla sa senz’altro che non può parlare per gli altri e che il debito non si estingue nemmeno dando loro valore, dicendo che ogni vita ha valore. Chi parla, può parlare di come vede/vive la storia/il presente; può farlo raccontando. Però sempre da un suo punto di vista; un testimone insomma. Quello che rimane fuori è sempre molto. L’idea di “restituire” non so dirvi quanta realtà abbia. Cosa restituisci alla gente di Hiroshima? Me lo chiedo seriamente. Anche per quanto riguarda l’essere testimone, con la poesia, con la parola, bisognerà che ci si chieda, prima o poi, perché la parola così poche volte si fa azione; non è che facciamo una bella figura a dire le cose e poi lasciare il mondo com’è. Quello che manca oggi non è la poesia, è l’azione che chiede con forza un’altra vita, altre possibilità. Manca più di tutto l’innocenza, quello stato che porta a immaginare un futuro per tutt*; L’innocenza di chi ha una verità che è un modo di essere nel mondo che non esclude nessuno.

«Non vorreste dirmi nulla su di voi?» «Avrei preferenza di no». Dopo un’epigrafe nel segno di Bartleby lo scrivano, la silloge Racconto (2016) si apre con un verso che dice lo scivolamento narrativo del soggetto in una zona di ‘alienazione’: «esistono storie in cui sono straniera». Vengono in mente anche le parole di Adriana Cavarero che chiudono Tu che mi guardi, tu che mi racconti: “il sé narrabile si costituisce pienamente solo nel racconto della sua storia, ossia nel disegno di una vita che solo il racconto raffigura”. Nella tua raccolta la parola ‘racconto’ sembra inglobare quest’oscillazione tra il sé narrante, quello narrabile e quello ‘inenarrabile’ nel luogo di un ‘noi’ che continuamente ritorna: «così il racconto è un pomeriggio / dove parliamo». Chi è questo ‘noi’?

Facciamo che questo noi può essere chiunque abbiamo vicino. “Racconto” è un libro in cui parlavo anche di amore. Una figura, lì vicino, pensata, anche se ormai lontana, a cui parlavo, cui raccontavo delle storie come in un gioco. Un libro in cui le amanti, per gioco e con serietà (il gioco è sempre una cosa seria) reinventano il mondo, lo riscrivono, lo colorano. Un libro che mentre racconta un amore, racconta quello che accade in quel momento nel mondo intorno a quell’amore. Un po’ come nel Flaubert dell’Educazione sentimentale. 

Domande a Maddalena Lotter

di seguito, tutte le domande rivolte specificatamente ad Maddalena Lotter

Già nel titolo della tua ultima raccolta, Atlante di chi non parla, è iscritta la necessità di raccogliere la memoria di chi non parla, non perché invisibile/reso invisibile ma perché morto, estinto, messo a tacere da una improcrastinabile fine. Si sente nonostante tutto una grande fiducia nella parola e nell’umano, nel ruolo del testimone («Non posso non occuparmi / ogni giorno della fine») e nella possibilità di “dar voce” alle altre specie, alle creature che non hanno parola. Questo libro sembra dunque andare controcorrente rispetto a larga parte del pensiero contemporaneo, alla necessità di ripensamento della relazione tra la nostra umanità e le altre specie, “mettendo in gioco anzitutto la lingua in cui ci riconosciamo, senza piegare il resto del mondo al nostro linguaggio, ma lacerandolo per ospitare il resto del mondo” (cfr. Chthulucene di Donna Haraway). Perché questa scelta?

Esordisco nella risposta con un’altra domanda: osservando il panorama in cui viviamo, vi sembrano possibili altre scelte? Per me in questi anni non è stato proprio possibile pensare ad altro che a cercare di dare voce a chi ne ha poca. Mi sembrava l’unica cosa utile che potessi provare a fare nella scrittura. Parlo per me, ovviamente, ognuno ha il suo percorso e segue le sue voci. Non saprei dire se nell’Atlante ci sia una grande fiducia nell’umano; c’è sicuramente una fiducia radicale nella vita, in quanto sento che la vita continuerà come processo fisico e chimico ben dopo di noi, così come ha prosperato anche in nostra assenza, creandosi dove non c’era quasi niente e in modi veramente assurdi, e questo mi dà una grande pace a livello interiore, mi fa sentire parte di un processo infinitamente grande e misterioso. La paura della morte dentro di me viene scavalcata da questo stupore nei confronti della vita.
Il testimone non è un umano, è un’entità non specificata (anche se la citazione di Weil sulla forza ‘deifuga’, alcune immagini di creazione del mondo e altre cose che il testimone pronuncia suggeriscono al lettore che si tratti di un essere divino).
Donna Haraway in quel bellissimo saggio che è Chtulucene ha ragione: ospitare il resto del mondo nel linguaggio, è esattamente quello che dobbiamo fare da adesso in avanti per imparare a stare sulla Terra con altri occhi, in una ‘sfida post-antropocentrica’, come direbbe la studiosa Rosi Braidotti. Uno sguardo del genere può spalancare porte magnifiche a chi si occupa di scrittura poetica.

Sempre in questa raccolta, la sezione “Il testimone” si apre con un testo in 14 movimenti intitolato dichiarazioni spontanee, nel quale rintocca la parola “valore”: «il primo valore / è la testimonianza»; «il secondo valore è la visione»; «il terzo valore dunque è la distanza», una distanza che si fa «mutamento» e «movimento». E il testo si chiude con una citazione in calce tratta da L’ombra e la grazia di Simone Weil: Il existe une force “déifuge”. Sinon tout serait Dieu. L’umano dunque non si riscatta, ma come si legge nell’epigrafe della raccolta, tratta dal salmo CXX (121): «Dominus custodiat introitum tuum et exitum tuum» (letteralmente: «Il Signore custodisca il tuo ingresso e la tua uscita»). L’afflato etico (e spirituale) che connota la tua raccolta, sembra riscattare il significato del termine “valore”, che non lascia trasparire la sua connotazione (neo)capitalista, anche in rapporto a quell’Antropocene che dà il titolo a uno dei componimenti centrali della tua raccolta. Eppure ‘valore’ è in effetti termine sulla bocca di tuttə, abusato, e perciò scivoloso. Cosa significa invece per te questo termine? Cosa ‘vale’ il dare voce?

C’è senza dubbio nella mia scrittura (specie in quest’ultimo lavoro) una propensione, o come scrivete voi, un ‘afflato’ spirituale; non si tratta propriamente di una scelta di poetica, ma di una mia indole privata, che evidentemente si riverbera anche in quello che viene fuori quando scrivo.
A proposito di quell’epigrafe iniziale tratta dai Salmi, essa si trova incisa da tempo immemore sull’architrave di uno degli ingressi secondari dell’Ospedale civile di Venezia, il mio ospedale di riferimento. Mi capitò di notarla alcuni anni fa e ne rimasi colpita. È dolce pensare di essere accompagnati e ‘custoditi’ nel momento del grande passaggio dalla condizione di viventi a quell’altra sconosciuta che ci fa tanta paura. I ‘valori’ di cui si parla nel libro e che emergono specialmente nelle dichiarazioni del testimone sono in un certo senso dei principi fondativi ed evidenti, che precedono una qualsiasi postura etica; in matematica si direbbe forse che sono degli assiomi, su cui ho immaginato che si siano potuti sviluppare gli elementi (basici e complessi) della vita – “il secondo valore è la visione” = qualcosa ‘esiste’ in quanto il primo testimone può immaginarla – e gli esseri – “il terzo valore è dunque la distanza” = se c’è una distanza, significa che siamo almeno in due, cioè che c’è un elemento A e un elemento B distinti fra loro, e che dunque possono entrare in relazione. La distanza è bellissima, a questo punto anche in termini etici, visto che, per esempio, quando riconosco la distanza fra me e l’Altro sto dunque riconoscendo che l’Altro esiste, in sé e per sé, portatore della sua Alterità, e dunque lo sto rispettando. Non so se ho risposto del tutto alla domanda, potremmo parlarne per ore. Non mi pare che il termine ‘valore’ sia sulla bocca di tutti, purtroppo mi sembra che sia molto più spesso sulla bocca di chi ha posizioni, diciamo, strettamente conservatrici nella società, e in questo modo forse sì che il termine si rovina e invecchia.

«Da giorni migriamo con i piccoli/che si misurano al seguito», leggiamo in apertura di un tuo componimento dell’Atlante. E in chiusura: «Ci guardano da una nave ferma come per capire». Questa contrapposizione tra movimento migratorio e immobilità della prospettiva di chi invece non migra mette in questione il tema della prospettiva (“ci guardano da”), ma anche l’ambivalenza di quando si pretende di cogliere, e dire, la complessità: “come per capire”. C’è a tuo avviso un’urgenza del gesto poetico, dettato dall’impegno, il coinvolgimento, lo spazio d’azione che si apre quando la parola poetica ‘dice’? Oppure la poesia deve preservare la complessità, ‘dire l’oscuro’, “come per capire, appunto”?

Nel testo citato, a parlare sono i narvali, un tipo di cetacei dotati di un lungo corno – che in realtà è un dente! – sulla fronte, che li fa sembrare un po’ degli unicorni. Chi è che guarda «dalla nave ferma come per capire» è presto detto: siamo noi, meravigliati di fronte alla bellezza dei lunghi movimenti delle migrazioni animali, che facciamo whale watching e speriamo di capire qualcosa in più di un mondo in larga parte ancora sconosciuto.
Dal punto di vista simbolico, il mare è affine alla parola poetica che ‘dice e non dice’, in quanto del mare conosciamo bene solo la superficie o poco più, mentre la sua complessità, la sua essenza in un certo senso, rimane nei fondali inesplorati. Poi, io non so cosa debba o non debba fare la poesia… diciamo che, in tanta della poesia che piace a me, valgono le parole di Rilke, quando sostiene che compito della poesia non è rivelare qualcosa, bensì trasportare le cose nell’invisibile e preservarle. Non dico questo pensando che la poesia debba essere oscura e debba occultare le evidenze, anche perché io per prima non penso di praticare una scrittura oscura, dico solo che se questo compito – custodire una dimensione in cui il silenzio sia quasi più importante dell’enunciato – se questo compito non se lo assume la poesia, nessun altro linguaggio artistico lo farà.


Nadia Agustoni (1964) scrive poesie e saggi. Suoi testi sono apparsi su riviste, antologie, lit-blog. I suoi ultimi libri sono del 2021 [la casa è nera] (Vydia edizioni), del 2020 è Gli alberi bianchi (Gialla oro Pordenonelegge-Lietocolle), del 2017 è I Necrologi (La Camera verde), del 2016 è Racconto (Aragno), del 2015 Lettere della fine (Premio Bologna in lettere ex-equo 2017) nuova edizione ampliata sempre per Vydia 2022. Vive vicino Bergamo.

Maddalena Lotter (1990) ha esordito nel 2015 con il libro di poesie Verticale (Lietocolle&pordenonelegge). Nel 2019 la sua silloge dal titolo Questioni naturali è stata raccolta all’interno del XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos) a cura di Franco Buffoni, con una prefazione di Gian Mario Villalta. Nel 2022 ha pubblicato il suo secondo libro dal titolo Atlante di chi non parla, nella collana i domani di Nino Aragno Editore a cura di Andrea Cortellessa, Laura Pugno e Maria Grazia Calandrone. Altri suoi testi sono apparsi in riviste cartacee e online. E’ co-curatrice della collana di poesia A27 (Amos Edizioni).


La foto che ritrae Nadia Agustoni è di Dino Ignani.

La foto in copertina è tratta da Bande à part di Jean-Luc Godard.

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Massimo Palma ha pubblicato Berlino Zoo Station (Cooper 2012), Happy Diaz (2015, Castelvecchi 2021), Nico e le maree (Castelvecchi 2019). Con Movimento e stasi (Industria & Letteratura 2021) ha vinto il Premio Fortini per la poesia. 

Ha scritto i saggi I tuoi occhi come pietre. Trauma e memoria in W.G. Sebald, Paul Celan, Charlotte Salomon e Foto di gruppo con servo e signore (Castelvecchi 2020 e 2017). Ha curato opere di Max Weber (Economia e società, Donzelli 2003-2018), Walter Benjamin (Senza scopo finaleEsperienza e povertà, Castelvecchi 2017 e 2018), Georges Bataille (Piccole ricapitolazioni comiche, Aragno 2015), Georg Heym (Umbra vitae, Castelvecchi 2020), Fredric Jameson (Dossier Benjamin, Treccani 2022).

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Sara Sermini lavora come ricercatrice all’Université Paris Nanterre. Ha dedicato una monografia alla figura e all’opera di Amelia Rosselli: «E se paesani /zoppicanti sono questi versi». Povertà e follia nell’opera di Amelia Rosselli (Olschki, 2019). È autrice di una raccolta di poesie intitolata Diritto all’oblio, in parte pubblicata nel Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2021).


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