Teoria della prosa di Ricardo Piglia. La costruzione della finzione in Juan Carlos Onetti

Introduzione

«A good reader is a re-reader» Vladimir Nabokov

Negli ultimi anni, la teoria letteraria ha visto proliferare prospettive di ricerca mirate a ridiscutere la centralità della nozione strutturalista di testo. Si tratta di un fenomeno di lungo corso, già individuato da apripista della letteratura comparata come Remo Ceserani e Mario Lavagetto, che pone in questione l’autonomia del letterario rispetto a un quadro di discorsi e di pratiche complessivamente mutato. Eco-criticism, queer studies, trauma studies, neo-marxist theory, hanno soppiantato la branca degli studi letterari che tendeva a vedere in un testo il manifestarsi di tecniche narratologiche, retoriche e o linguistiche. Del resto, è cosa nota che alcuni tra i più influenti saggi di critica letteraria degli ultimi anni non sono libri apparentemente riconducibili a quella che, con dogmatismo scientista, una volta si chiamava “teoria della letteratura”. Pensiamo per esempio a saggi come Geografia di Franco Farinelli o ai numerosi lavori di Michele Cometa sull’immagine, e alla spinta che hanno saputo imprimere alla comparatistica di ambito accademico. Detto questo, bisogna anche constatare come la pluralità di metodologie di ricerca offerte dalla teoria letteraria recente, come qualche anno fa fece notare Barbara Carnevali circa la theory di ambito anglosassone, finisca il più delle volte per produrre confusione – talvolta imbarazzo – in chi legge, anziché contribuire all’interdisciplinarietà auspicata negli anni Settanta da Roland Barthes – e oggi promessa dalle locandine dei convegni universitari.

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Tra le poche eccezioni a questa tendenza verso la dismissione della critica letteraria cosiddetta pura c’è il recente volume Teoria della prosa di Ricardo Piglia (1941-2017), pubblicato da Wojtek Edizioni ad apertura della neonata collana di saggistica Ostranenie. Il libro raccoglie nove lezioni tenute dal critico letterario e narratore argentino all’Università di Buenos Aires nel 1995 sulla figura e sulle opere di Juan Carlos Onetti (1909-1994), maestro riconosciuto della letteratura sudamericana, scomparso l’anno precedente. Le letture sono state trascritte e raccolte per volontà di Piglia e pubblicate postume in Argentina nel 2019. Grazie alla curatela di Federica Arnoldi e Alfredo Zucchi, le lezioni di Piglia arrivano in Italia in un’edizione molta curata sia sotto il profilo grafico sia editoriale. I primi titoli di Ostranenie, tra cui figurano due testi di Danilo Kiš e Viktor Šklovskij di prossima pubblicazione, condividono l’obiettivo di portare nuovamente la teoria della letteratura nel cuore dell’esperienza estetica di chi legge e di chi scrive.

II saggio di Piglia fa parte di quella famiglia ideale di lezioni sulla letteratura tenute dai grandi scrittori del Novecento, come è per esempio il caso delle memorabili testimonianze di Calvino, Cortázar, E. M. Forster, Gardener, Nabokov – per limitarsi a citare le più note in Italia. Poterlo riscoprire oggi è un vero evento, una vera fortuna. Purtroppo, Teoria della prosa è irricevibile per i canoni dell’accademia di oggi e per il suo pensiero sistematico. In questo sta il suo felice anacronismo, che è la sua scommessa e la sua forza. Le domande nel cuore dell’indagine di Piglia sono infatti delle più impossibili: Cos’è e come si costruisce una finzione? Cosa distingue il racconto lungo (la nouvelle) dal romanzo e dal racconto? Che vuol dire interpretare o capire un libro?

Letto oggi, Teoria della prosa di Piglia ha un primo merito nel riportare la critica letteraria su temi fondanti dell’interpretazione e dell’ermeneutica testuale – dopo gli ultimi, fondamentali, attributi apportati dal monumentale Paul Ricoeur. Ma ne ha anche un secondo, ed è quello di avvicinare lettori e potenziali scrittori ai meccanismi della narrazione. Mostrandoci le differenze esistenti tra racconto breve, racconto lungo e romanzo, Piglia ci consegna oltre che un saggio – ed è un’alchimia rarissima e preziosa – un acuto manuale di scrittura creativa per chiunque voglia avvicinarsi alla forma del racconto lungo.

Quando, dopo oltre trent’anni di assenza dagli scaffali, Adelphi ripropose Lezioni di letteratura di Nabokov, se ne parlò molto bene e molto a lungo. Sarebbe bello che si parlasse di questo libro, non meno profondo e illuminante, con lo stesso entusiasmo e con la stessa intelligenza.

Teoria della prosa

«Capire è raccontare di nuovo»

Ricardo Piglia

Teoria della prosa si richiama già dal titolo all’opera omonima di Viktor Skovskij. Nei confronti del formalista russo P. ha sin da subito un debito riconosciuto; il titolo in questo senso indica l’intenzione, probabilmente maturata a posteriori da P. al momento di trascrivere e raccogliere gli incontri, di tracciare sin da subito una continuità con quell’opera ancora oggi fondamentale. Un titolo legittimo, quindi, ma anche, in qualche modo, un titolo ambiguo: per evitare fraintendimenti, va subito detto che il saggio non è una riflessione teorica sistematica, ma uno studio delle opere del narratore uruguaiano Juan Carlos Onetti, e più precisamente delle sue nouvelles o racconti lunghi a paragone con il resto della sua produzione. Si va dal Pozzo (1939), Gli addii (1954), Per una tomba senza nome (1959), Raccattacadaveri (1964), fino a La muerte y la niña (1973) e Cuando entonces (1987) – questi ultimi inediti in italiano. Il saggio raccoglie gli interventi di un seminario pensato per studenti già in varia misura familiari con Onetti; questo spiega perché in molte delle pagine del saggio P. dà per scontata una cognizione almeno generale dell’autore uruguaiano e passa immediatamente  approfondimenti specifici sulla trama e sui personaggi. In questo articolo, mi limiterò a trattare solo tangenzialmente il corpus di Onetti, preferendo concentrarmi sui nodi concettuali attorno alla forma della nouvelle che possono avere una rilevanza generale nello studio del genere. Più nello specifico, parlerò di due degli assi principali che sostengono la lettura di P.: il segreto della nouvelle e la differenza tra interpretazione e costruzione. Nel primo paragrafo parlerò delle caratteristiche generali della nouvelle deducibili dalla produzione onettiana; nel secondo e ultimo paragrafo, invece, allontanandomi in parte dal libro, proverò a mettere in comunicazione la teoria della lettura proposta da P. con l’estetica della ricezione di Iser e con le lezioni di Nabokov.

Juan Carlos Onetti
Questa fotografia e quella di copertina sono prese dal sito della casa editrice SUR, che pubblica tutto Onetti in Italia (e gran parte delle opere di Piglia)

La nouvelle e il segreto

Partendo con ordine, si può delineare così la fisionomia della nouvelle che emerge nel discorso critico di P. Per prima cosa, è un testo autonomo e «chiuso in se stesso», differente (benché contiguo) sia dal genere del racconto breve sia dal romanzo. La nouvelle è una forma letteraria (ma P. usa indistintamente anche il termine genere) intermedia per dimensioni tra racconto e romanzo. Basandosi su un criterio quantitativo, la si può considerare un testo di estensione oscillante intorno al centinaio di pagine. Un’ulteriore, e più importante, caratteristica della nouvelle sarebbe l’intenzione dell’autore di pubblicarla in modo indipendente rispetto altri racconti più brevi. In altre parole, non basta che sia un racconto di dimensioni maggiori; la nouvelle è un testo a sé, e in quanto tale non è pensabile come parte di una raccolta (per quanto talvolta, per ragioni puramente editoriali, venga accorpato nelle antologie assieme ai racconti brevi).

Nel corso delle lezioni, via via che P. amplia e ramifica la sua lettura di Onetti, la fisionomia della nouvelle si arricchisce di una molteplicità di attributi. Uno dei grandi piaceri di testi come questo, vale a dire di trascrizione di corsi e seminari tenuti originariamente davanti a una platea, è il carattere ondivago e mobile dell’argomentazione, che edifica una riflessione senza nessuna ambizione di chiudersi dentro un sistema chiuso. Cominciando Teoria della prosa, non bisogna temere di non comprendere subito la nouvelle nei suoi attributi generali; il discorso si delinea progressivamente, come seguendo le tappe di un percorso maieutico.

Un secondo elemento caratterizzante della forma-nouvelle è l’intrecciarsi di due diversi ordini della causalità degli eventi narrati. Per chi è familiare con la retorica classica, parliamo della «necessità» (ananke) che nella Retorica di Aristotele contraddistingueva la poesia mitica di Omero rispetto alla storiografia. Nel discorso storico ogni fatto può avere cittadinanza nel racconto, mentre nell’opera della finzione ciò che viene narrato deve essere sottoposto a un disegno superiore che organizza tali elementi dentro una rete di relazioni dotata di senso. Il senso di questo segno può essere chiaro e intellegibile o oscuro e impenetrabile. P., rifacendosi al saggio di Jorge Luis Borges L’arte narrativa e la magia, chiama questi due ordini verosimile e magico-finzionale: nel primo, gli elementi della storia A e B sono vincolati da un rapporto di causa-effetto; chi scrive mira proprio a rinsaldare questa «necessità» arricchendo la storia e la psicologia dei personaggi di dettagli utili all’interpretazione (come avviene, per P., nel romanzo realista propriamente detto). Nella nouvelle accanto a questo ordine, presente in ogni tipo di narrazione – anche nella più surreale e fantasiosa, in quanto ogni narrazione parte da un dato di realtà –, corre un ordine parallelo dove i fatti sono vincolati da un campo di forze sotterraneo, “inconscio” rispetto al testo. Non sappiamo quale rapporto leghi le storie che ci vengono mostrate; pur avendone davanti agli occhi i tasselli, non sappiamo distinguere con certezza il movimento che le tiene assieme. Per gettare una luce dentro il cono d’ombra di ogni narrazione, il lettore deve saltare idealmente dall’altro lato della pagina, mettendosi dalla parte di chi sceglie cosa narrare o meno. Se prima dovevamo battere una pista di indizi, tracce, segni lasciati per noi fino a giungere allo scioglimento della vicenda, come per P. avviene nel racconto poliziesco di Poe, adesso si tratterà di ripercorrere all’indietro questi elementi, così da penetrare nelle ragioni che giustificano il posizionamento di quegli indizi, tracce, segni :

Il processo di lettura è invertito: bisogna leggere a partire da colui che nasconde la trama, e non da colui che decifra e ricostruisce un significato perduto.

Deve passare dall’interpretazione alla costruzione dell’intreccio. La prima domanda di chi scrive è: «Cosa scrivere?» Ma immediatamente si pone all’attenzione un problema più importante: «Cosa lasciare fuori?» Lo scrittore e l’ermeneuta si scontrano entrambi con il segreto di ogni testo finzionale.

Per P., debitore di alcune intenzioni di Deleuze-Guattari contenute in Mille piani, la forma della nouvelle è dunque inseparabile dal concetto di segreto. Cos’è il segreto di una finzione? Esso è il «non narrato»; è una storia invisibile, sottostante alla superficie della trama, che il narratore non racconta e di cui non è a conoscenza. Con parole dell’autore: «Secondo Šklovskij, il segreto agisce come uno spazio vuoto che permette di unire personaggi, serie e frammenti all’interno di una storia». È qualcosa, che se narrato, ci permetterebbe di illuminare con chiarezza la trasformazione a cui vanno incontro il narratore, gli eventi e il sistema dei personaggi. Questo punto cieco, questa «stanza» a cui chi narra non può in nessun modo accedere, è il segreto. In un bel saggio dedicato al procedimento della lacuna nei classici della letteratura di ogni tempo, Nicola Gardini mostra come l’omissione da parte dello scrittore di una storia, di un’azione narrativa, di un commento, di una descrizione chiara e illuminante produca degli effetti di tensione maggiori rispetto all’essere didascalici. Per lui la lacuna, ciò che in modo equivalente al segreto si decide di omettere nel racconto, non implica un’attività di sottrazione quanto, paradossalmente, una tensione verso la costruzione e la pienezza. Di Balzac, ad esempio, un grande autore di nouvelles come Stevenson ebbe a dire che era inutilmente preso dalla furia di volere raccontare tutto, intessere tutto. Con il rischio di appiattire di molto i suoi romanzi. Stevenson ambisce al contrario di sapere scegliere con precisione cosa non far vedere: «O if I knew how to omit, I would ask no other knowledge». Nella parafrasi di Gardini, Stevenson istituisce una connessione tra l’attività di trasformare i dati realistici in letteratura e la potenza e la ragion d’essere stessa del discorso di finzione:

Artistic sight is judicious blindness. Si prende solo quel che serve. Ma neppure il solo prendere basta. Infatti, i dati, per quanto scelti, non fanno di per sé letteratura: poi vanno trasformati. Un conto l’osservazione, un conto la trasposizione letteraria. L’arte non può essere banalmente «realistica» o fattuale. Non copia, ma muta, in una sorta di cristallizzazione sognante, che persegue l’«ideale», non l’oggettivo.

Il segreto, però – e qui P. fa sua un’intuizione già di Auerbach –, non riguarda l’oggetto del racconto del narratore, ma la cornice di ciò che si narra. Altrimenti si configurerebbe come una semplice omissione.

Il terzo elemento che concorre alla formazione del segreto è la posizione indecidibile di chi scrive. «La nouvelle problematizza il sapere del narratore, il quale deve confrontarsi con una storia il cui funzionamento egli non capisce del tutto», incalza P. Non troveremo dunque il segreto in un grande romanzo realista che vede la presenza di un narratore esterno e onnisciente. Una delle caratteristiche del segreto è infatti l’ambiguità che aleggia sullo statuto di verità, sull’affidabilità di chi narra. L’inaffidabilità per altro può riguardare o meno l’intenzione o la volontà da parte del narratore di sviare chi legge da una giusta interpretazione dei fatti narrati. Nel caso di Onetti, come in Henry James, non si assiste alla manipolazione diretta dei fatti da parte di chi narra, che è semplicemente all’oscuro dei fatti. Per questo motivo, perché ci sia un segreto – meglio, perché il segreto si attivi esercitando una funzione nella narrazione –, abbiamo bisogno di trovarci davanti a un testo in cui chi scrive non ha esperienza dei fatti che narra ma intende ricostruirli attraverso delle testimonianze di altri narratori o personaggi. La nouvelle è un racconto multiplo, «un racconto riscritto varie volte da differenti narratori, un iper-racconto, ovvero un racconto del quale esistono diverse versioni». Questa molteplicità di letture però non porta a una comprensione maggiore, a un’interpretazione totale e univoca di quel di cui si parla. Al contrario, innesca una rete di letture potenziali, che chiamano in causa il giudizio e richiedono il posizionamento di chi legge. In un modello topologico-spaziale, il segreto è uno spazio vuoto posto all’interno della cornice di un racconto. Con un’immagine del Freud della Traumdeutung, possiamo immaginarlo come una specie di ombelico che congiunge il dentro e il fuori di un testo.

Tornando sul segreto, insistiamo sul fatto che non si tratta né di un significato né di un contenuto. Semplificando molto, si può dire che il segreto è l’azione narrativa non menzionata da chi parla dentro la cornice del racconto che innesca la trama invisibile attorno a cui si avvolge la trama vera e propria. Proprio perché il segreto di una finzione non è mai qualcosa di fisso e predeterminato (al contrario, tende a mutare più volte nello svolgimento di una storia),  P. gli attribuisce il ruolo di una funzione narrativa generale, che in James, Faulkner e Onetti ha tre aspetti principali: il rapporto di chi narra una storia con gli accadimenti; il funzionamento del sistema dei personaggi; il patto narrativo tra narratore e lettore. Bisogna immaginare che nei racconti brevi di Onetti esista uno spazio, inaccessibile alla narrazione, in cui chi narra nasconda un principio di ambiguità capace di determinare la coesistenza di modi diversi di leggere il racconto, «l’esistenza di una storia che è andata perduta e che è necessario ricostruire». In altre parole, per capire un racconto lungo di Onetti non basta affidarsi agli elementi altamente ambigui che il narratore, generalmente inaffidabile ci mostra, perché il narratore per primo è lontano dai fatti e anzi scrive proprio nel tentativo di darsene una spiegazione.

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Juan Rulfo e Juan Carlos Onetti che bevono vino (fonte foto)

Interpretazione e costruzione

Che uso possiamo fare del segreto, se esso non ci permette di comprendere il racconto dentro un senso onnicomprensivo? P. ci insegna non soltanto che di un testo è altrettanto, se non più, importante ciò che si lascia fuori rispetto a ciò che si decide di inserire. Ci insegna anche che questa particolare ambiguità della finzione letteraria, che la distacca dal fatto di cronaca quanto dal saggio, è una risorsa molto preziosa. Per vederla come tale dobbiamo compiere un salto da un lato all’altro della storia; passare dal punto di vista di chi legge al punto di vista di chi scrive. Il critico letterario non può porsi il problema di ciò che non è stato inserito in una storia, ma il lettore deve, anzi, non può non farlo, a rischio di compromettere momentaneamente quella strana forma di comunicazione che è il patto della lettura. In questo momento dell’ermeneutica il lettore deve farsi scrittore, re-inserire in una nuova cornice gli elementi disseminati, frammentati, nell’intreccio. Deve narrare una volta ancora ciò che arriva a lui come una comunicazione ininterrotta: deve, semplicemente, raccontare. Questo è il punto più serio e più problematico della Teoria della prosa.

Capire una funzione presuppone che si ponga in funzionamento un tipo particolare di lettura che io abitualmente chiamo la lettura dello scrittore, perché mi sembra che uno scrittore, per prima cosa, quando legge una finzione, cerca di scoprire come è fatta per vedere se può farne una uguale […] I testi diventano work in progress che possono essere migliorati; si tratta di localizzare ciò che tuttavia non è stato narrato come se fosse letteratura potenziale. Capire è raccontare di nuovo.

Su questo assunto Teoria della prosa sembra rimandare alle intuizioni geniali contenute di Vladimir Nabokov in Lezioni di letteratura. Nel suo seminario Nabokov smonta con pedanteria magistrale i complessi dispositivi di Stevenson, Kafka, Proust, Joyce, isolando quegli elementi nascosti che, invisibili a una prima lettura, una volta terminato il libro, ci permettono retrospettivamente di ri-narrare quelle storie a partire da ciò che il narratore omette: così, scopriamo ad esempio che Gregor Samsa, non uno scarafaggio ma uno scarabeo, dispone di ali, di cui egli stesso non è a conoscenza, che gli permetterebbero di fuggire dal suo confino; che in Dottor Jekyll e Mister Hide le facciate dell’edificio dove si svolgono le azioni rispecchiano la doppiezza della psiche del narratore; o che in Ulisse Dedalus e Bloom si danzano attorno per tutta la mitica giornata joyciana per effetto di complicatissime “sincronizzazioni”; e via dicendo. Nabokov mette continuamente in allerta i suoi studenti sui rischi dell’immedesimazione provocata dalla lettura ingenua di una storia: come nei suoi romanzi, così nelle ri-costruzioni che fa dei capolavori della letteratura europea, non bisogna mai fidarsi dell’ordine degli eventi di un romanzo, che nasconde sempre una verità altra nell’aldiquà del testo. Il lettore ideale nabokoviano non si lascia irretire dall’ordine degli eventi di una trama, ma è capace di muoversi nelle contraddizioni non esibite della finzione, fino a giungere nella stanza del tesoro, dove lo scrittore ha sepolto la verità in palio per i lettori più acuti. Per P., questa stanza della nouvelle, appunto il segreto, è vuota. Ma è un vuoto positivo, dove si raccolgono tutte le nostre letture – le congetture, emozioni, desideri, paure. «Un buon lettore è un ri-lettore».

Non per scimmiottare Blanchot, ma è evidente che la costruzione dell’intreccio avviene sul bordo dell’interpretazione, al limitare di ogni scommessa critica. Afferrare il senso di un testo significa ri-narrare un dato che però rimane assente ed è possibile avvicinare solo grazie a congetture parziali. Come vuole la teoria individuale della ricezione di Wolfgang Iser (1926-2007), in direzione opposta rispetto al “circolo ermeneutico” dei romantici, il senso di un testo non si esaurisce nell’atto della lettura ma si compone del contributo fondamentale di chi lo recepisce, di chi solleva ipotesi, prova emozioni ed emette giudizi sul narratore, i personaggi, la storia, che hanno al loro centro delle lacune (Leerstellen):

Ogni narrazione consegue il suo momento dinamico proprio e soltanto in virtù delle sue inevitabili omissioni. Perciò, se nella sequenza delle preposizioni si verificano delle interferenze o addirittura degli slittamenti nell’imprevedibile, si costituisce allora in simili momenti un libero spazio, solo debolmente determinato, di possibili relazioni.

È il lettore a dover fissare un senso che resterà sempre incerto; ci sono molti racconti possibili in un solo testo e chi legge deve sempre scegliere un percorso e abbandonarne altri

dice P. Forse in parte ispirato alle teorie decostruzioniste di matrice derridiana, lo scrittore argentino arriva a una conclusione più radicale della semplice sovradeterminazione di un testo: esiste una zona, non solo della nouvelle ma della finzione in generale, che bisogna accettare come definitivamente perduta. A me sembra che una critica del negativo e del fantasma, come quella di Gardini, Iser, Piglia, Nabokov, cioè una critica che abbia il coraggio di partire da quella parte della finzione letteraria più incoercibile e resistente a ogni discorso culturale, riesca nel difficile compito di preservare l’immaginazione narrativa dalla attività corrosiva del senso. Comprendere un’opera di finzione significa accettare la negatività radicale della storia, il suo stato originario di lacuna contro cui si scontra ogni ricostruzione potenziale:

Sarebbe una specie di prassi della lettura di una finzione che consiste nell’accompagnarla con altri racconti virtuali, che il lettore costruisce a partire da quello che legge. È un’operazione che consiste nel completare con altre versioni ciò che manca.

Leggere con accortezza significa distinguere questi elementi apparentemente irrelati rispetto alle vicende narrate, e una volta terminato il racconto o il romanzo, saperli interrogare per mostrarci il risvolto della vicenda, quale altra lettura potenziale potremmo farne. Ogni buon lettore è un ri-lettore, appunto. Perché solo arrivando allo scioglimento di un libro, quando la potenzialità delle storie viene interrotta, possiamo gettare un significato retrospettivo su quello che abbiamo letto. Solo allora rileggendo potremo accorgerci di quella causalità sotterranea che ogni grande autore sa impiegare per costruire degli intrecci originali e fare esperienza di ciò che per Nabokov, come per P., in fondo, è molto più che «un senso di beatitudine estetica» o l’identificazione con la mente dello scrittore: «L’arte dello scrivere è un’attività assai futile se non comporta anzitutto l’arte di vedere il mondo come potenzialità narrativa».


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