Frammenti di un dialogo a più voci con Guildor, Marta Bianchi e Marta Cereda
L’altro giorno mi scrive N., un amico mio. Vuoi un’ossessione per l’ordine, vuoi la fobia per la mancanza di spazio sul cellulare, io, di norma, le chat private le cancello. Ma se potessi ricostruire la messaggistica con N., sono quasi certo che la chat figurerebbe come una lunga sequenza di link blu condivisi, intervallata generalmente da memistica varia dall’umorismo molto black. E infatti, anche l’altro giorno, N. mi condivideva un link che rimandava a un’inserzione Amazon. Il prodotto in questione era una pubblicazione stile “Settimana Enigmistica”, titolato Bestemmie intrecciate ed enigmistica per adulti. La descrizione recitava, fieramente, “ITALIANI: popolo di santi, poeti, evasori e BESTEMMIATORI. NON LEGGERAI DUE VOLTE LA STESSA BESTEMMIONA! È finalmente arrivato l’esilarante album di ENIGMISTICA PER ADULTI approvato anche dal bue e dall’asinello!” Al di là dell’occorrenza – un eventuale regalo scherzo per una laurea – a incuriosirmi è stata la modalità che aveva condotto N. a scovare questo liberculo da €9,90 tra le pieghe del più grande e-commerce al mondo. La sua risposta in merito è stata laconica, ma significativa: “Cookies”.
In tecnologia i cookies sono quelle cose che con cadenza giornaliera autorizziamo nei banner a scomparsa ogni qual volta visitiamo un nuovo sito internet. La conoscenza tecnica in materia di chi scrive si limita alla nozionistica di Wikipedia, ma i cookies sono “piccoli file di testo necessari affinché il server del sito web che li ha installati possa ottenere informazioni sulla specifica attività che l’utente compie su quelle pagine web”. In pratica, quando li autorizziamo, stiamo concedendo ai proprietari del server di archiviare e utilizzare informazioni legate ai nostri gusti e alle nostre abitudini. Una profilazione digitale, che consente ai vari algoritmi di suggerirci contenuti in linea con i nostri interessi. Vi siete mai chiesti perché i video del feed di Facebook si assomigliano stranamente tutti?
Hai condiviso così tanto che ti è rimasto ben poco
Visibile fino al 30 giugno presso gli spazi milanesi di Careof, la mostra personale di Guildor (1983), titolata Finestre di dialogo, pone al centro il rapporto ambiguo tra utenti, Internet e utilizzo dei dati digitali a fini di lucro. L’esposizione nasce all’interno di V-Data, “un progetto di ricerca pluriennale sviluppato da un team di ricercator* dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dell’Università di Pavia, con il contributo di Fondazione Cariplo, volto a indagare la consapevolezza e le opinioni dei cittadini che vivono in Italia sui processi di estrazione e sfruttamento dei dati digitali, tipici del capitalismo della sorveglianza”. La mostra presenta alcuni lavori sviluppati da Guildor negli ultimi anni e pone al centro la performance I biscotti della fortuna che ordino con Glovo sono stranamente accurati, messa in scena il giorno dell’opening e replicata giovedì 22 giugno. L’azione performativa ha visto Guildor mangiare una serie di biscotti della fortuna, condividendo con il pubblico le frasi al loro interno, statements dall’onesto ma spietato umorismo. Alla base, l’idea di un dialogo con e tra le persone, che scardini le logiche binarie dell’etere e i comportamenti standardizzati che, usando un termine del filosofo Luciano Florindi, adottiamo durante la nostra esperienza onlife. È proprio in virtù di questo ricerca di dialogo e di contatto tra gli individui che, incontrando Guildor e le due curatrici della mostra, Marta Bianchi e Marta Cereda, si è preferito il dialogo piuttosto che l’intervista, cedendo loro la parola. Qui, alcuni frammenti, salvati dall’oblio dell’etere (e dal cestino dei memo vocali del mio cellulare).
Guildor: L’idea della mostra nasce all’interno di un progetto di ricerca sociale universitario, dove sono stato coinvolto come parte attiva del gruppo di ricerca. Il tema (largo) su cui siamo stati chiamati a lavorare è quello del capitalismo della sorveglianza, che avevo già toccato spesso all’interno del mio percorso artistico. Quando ho contattato Marta Bianchi e Marta Cereda, speravo che Careof potesse darci un aiuto progettuale e alla fine sono molto contento del rapporto fluido e degli scambi che si sono andati a creare.
Marta Bianchi: Per noi di Careof, l’incontro con Guildor e la sua pratica artistica è stato un bell’incontro, tanto più perché per noi questa è stata una collaborazione innovativa. Non avevamo mai unito la produzione artistica con la ricerca sociale e scientifica. Da un certo punto di vista, è stato anche sfidante, perché abbiamo dovuto coniugare tutte le parti in causa e trovare un progetto comune sul quale lavorare. Inizialmente avevamo pensato di portare in mostra solo la parte performativa, ma poi abbiamo capito che era importante offrire spazio e durata per ospitare una serie di lavori consolidati.
Marta Cereda: Io credo che un elemento di particolare valore in questa esposizione temporanea sia legato alla genesi della mostra stessa. L’inserimento di Guildor nel gruppo di ricerca scientifica ha legittimato la pratica artistica in quel contesto e come Careof siamo contente di aver potuto ospitare la disseminazione dei risultati. Abbiamo provato a ricontestualizzare questa mostra non solo come risultanza di un lavoro di ricerca accademica, ma anche come interesse artistico già sviluppato in altri lavori. Alcuni progetti precedenti, quindi, vengono presentati in questa sede con l’intento di aggiungere un grado di lettura ulteriore all’opera e di creare un percorso espositivo coerente.
Guildor: Tutto il progetto parte dal confronto con i quesiti posti in sede accademica, che vengono presentati in mostra con un linguaggio differente, quello dell’arte. E come dice Marta, la presenza di vecchi lavori che afferiscono però allo stesso ambito tematico non fa che ampliare le possibilità di fruizione e di lettura dell’esposizione.
Ricordi quando i Google Glass erano un’invasione della privacy?
G: Il linguaggio artistico non può veicolare qualcosa di preciso e univoco come un dato scientifico. Ma quello che può fare è porsi come una traduzione della ricerca per arrivare al pubblico in una maniera differente, e non necessariamente semplificata. Il percorso espositivo della mostra è idealmente suddiviso in tre fasi, la prima in cui vengono mostrati alcuni aspetti delle piattaforme tecnologiche nascosti in piena vista.
Nella prima parte è presente l’installazione At the speed of feelings, composta da cinque schermi dove altrettanto soggetti in video loop fanno dei palloncini con un chewing gum di diversi colori, che poi scoppiano al ritmo ossessivo e apatico dei tasti di una tastiera iPhone. In questo modo, Guildor evidenzia come la risposta emotiva sia il principale motore della comunicazione online, esasperata dalle dinamiche dei social network. Accanto, troviamo l’installazione I will meet you across the surface, con riproduzioni trasparenti di smartphone su cui vengono tracciati con colori acrilici i movimenti che le nostre dita fanno mentre usano alcune tra le app più diffuse. I cellulari sono retti da piccole braccia bianche che spuntano da un tappeto di intonsa sabbia blu.
G: La performance I biscotti della fortuna che ordino con Glovo sono stranamente accurati, invece, è posta fisicamente al centro dello spazio espositivo, e rappresenta un primo passo verso una presa di coscienza, una problematizzazione dei meccanismi di estrazione e manipolazione dei dati da parte delle multinazionali. A risaltare è la dimensione che la soluzione a questi temi, qualsiasi essa possa essere, deve avere: quella collettiva. Sulla stessa linea si pone Data is mine, pay for what you mine in cui dichiaro di lavorare per Meta pur in qualità di solo utente, denunciando come il plusvalore generato dall’utilizzano della piattaforma non è comparabile al ritorno, ovvero l’utilizzo gratuito della stessa. Infine, la terza e ultima parte, più aperta, in cui si affrontano questioni legate al reddito universale o, come lo chiama il filosofo Maurizio Ferraris, webfare, che solo in apparenza sono lontane dal tema principale del capitalismo della sorveglianza. In controluce, compare anche la questione del tempo libero: come ci si realizza nel tempo libero, al di fuori del lavoro? E che valore ha questo tempo? Da un punto di vista curatoriale, ci sembrava coerente introdurre anche queste tematiche, questi lavori, che pongono delle domande che, presto o tardi, dovremo cominciare a farci. Il tutto alla luce di fenomeni come le Grandi dimissioni o il Quiet quitting, che evidenziano una volontà, o quantomeno un bisogno, di ricontrattare i termini dell’impiego lavorativo nella società occidentale.
Approdo finale del percorso espositivo è l’opera Letters to Adecco, composta da due parti da fruire in sequenza. La prima, Spare Timesheets, riporta semplicemente una serie di e-mail che l’artista inviava agli uffici di Adecco. Essendo impiegato presso la multinazionale con sede in Svizzera con un contratto a zero ore, l’artista era formalmente legato al suo posto di lavoro, pur avendo terminato il suo incarico. Lo scambio e-mail con un ignaro impiegato di Adecco si struttura quindi come una sorta di diario sentimentale, in cui Guildor racconta dettagliatamentele proprie giornate, ora diventate libere, mentre l’impiegato risponde in maniera ipercoincisa e formale. Fino a quando quest’ultimo smette di rispondere, in un dialogo da cui traspare la brutalità di un sistema di lavoro capitalista standardizzato su binari che non lasciano scampo alla soggettività. La seconda sequenza di cui si compone Letters to Adecco è invece Unresigned Resignation, in cui l’artista rassegna le dimissioni dall’azienda con un video assurdo, ma allo stesso tempo formalmente valido. È chiaro che questo progetto non indaga le tematiche dell’estrazione dei dati e del capitalismo della sorveglianza, almeno non direttamente. Però conferma come il sistema si regga su una serie di paradossi fragilissimi, interconnessi, per i quali basterebbe tirarne via una carta per far crollare tutto il castello, e indaga delle questioni che sono destinate a diventare centrali nel prossimo futuro, in cui l’automazione del lavoro scombinerà verosimilmente le strutture sociali che già oggi si rivelano tutt’altro che solide.
MC: È chiaro che queste tematiche così centrali nel dibattito attuale spesso sono avvertite come una tendenza di moda. Per questo motivo, la scelta di creare un percorso espositivo che intrecciasse lavori dalle cronologie differenti aveva anche lo scopo di mostrare come le ricerche di Guildor abbiano radici profonde e siano frutto di un percorso coerente. In questo modo la performance, che rappresenta il cuore del progetto, si distacca dalla dimensione estemporanea e si reinserisce in una linea coerente di ricerca.
Assistiamo assistenti virtuali per assisterci meglio
Nonostante tutta la mostra Finestre di dialogo abbia come oggetto d’indagine il rapporto dell’uomo con la tecnologia, a ben vedere l’interesse ultimo di Guildor è la persona, non la macchina. Questo è un aspetto peculiare nel momento in cui tanta arte si sbilancia nell’indagare le possibilità e i limiti della macchina, sulla scorta di un pensiero che propone un superamento dell’antropocentrismo.
MB: È significativo che il ruolo della parola sia fondamentale all’interno della ricerca artistica di Guildor, perché gli permette di instaurare un rapporto diretto con il pubblico, svincolandosi dalla pratica dell’arte come rappresentazione facilitata di altri discorsi o ricerche.
G: Il mio focus, sicuramente, è sulle relazioni. Linguaggio e relazioni sono il cuore della mia pratica, intesa come analisi dell’intersoggettività nell’ambito della contemporaneità. In questa mostra ci sono alcune riflessioni sulla tecnologia, che però risulta un riflesso per poter osservare dove siamo, dove stiamo andando o dove vorrebbero farci andare. È una sorta di riflessione indiretta su noi stessi e su come le nostre emozioni e percezioni siano mediate dalla piattaforma. Uno dei paper che ho studiato mentre costruivo la performance analizzava gli equilibri familiari in relazione all’intervento della tecnologia nella loro quotidianità. Si parlava di una donna che doveva accudire la madre, nel totale disinteresse dei fratelli lontani. Il fratello che abitava più distante, tenendo all’oscuro gli altri, ordina di installare in casa della madre un termostato automatico, regolabile a distanza. Un giorno, però la madre avverte freddo. E nella comunicazione con il fratello più lontano, che aveva fatto instaurare il termostato e unico detentore delle funzioni di regolazione, c’è incredulità e resistenza, poiché il termostato segnalava a suo dire una temperatura ottimale. Quello che non aveva preso in considerazione, era la possibilità che il termostato, semplicemente, non stesse funzionando. Questo ci dovrebbe spingere ad approfittare dei lati positivi della tecnologia, ma mantenendo sempre un dubbio vivo, un lato critico, perché è quello che ci permette di difenderci rispetto al sempre crescente determinismo tecnologico e alla supposta neutralità dell’algoritmo. Quest’ultimo non ti propone quello che è meglio, ma quello che è meglio affinché tu non lasci la piattaforma. Di questo aneddoto mi interessava la frizione concreta tra fratelli provocata dall’intelligenza digitale. In una delle frasi che leggo durante la performance dico che puoi oggi puoi parlare con la tecnologia, ma non riuscirai comunque farla ragionare.
A questo proposito citerei anche le così dette GPS Death. Il termine indica i decessi causati dall’acritica fedeltà nelle indicazioni fornite dai dispositivi di geolocalizzazione e mapping, che se sbagliano possono condurre in situazioni potenzialmente pericolose e, talvolta, letali. È di pochi giorni fa la notizia – ma non è certo la prima – di due turisti che alle Hawaii, seguendo le errate indicazioni del GPS, hanno guidato fino al porto e da lì direttamente nell’acqua dell’oceano Pacifico. Il video, che andrà ad arricchire le liste di epic fail di Internet, è spassosissimo, ma, per certi versi, anche inquietante.
G: Gli strumenti tecnologici sbagliano, ma non lo sanno, dobbiamo essere noi a considerare questa evenienza. Qualsiasi device segue uno schema fisso dettato dalle sue impostazioni. Per questo nella mia ricerca cerco di ridare centralità alla persona e alla comunicazione tra individui. Tendenzialmente all’inizio del mio lavoro performativo cercavo di stare lontano dal linguaggio verbale, lavorando maggiormente sulla prossemica. Poi l’elemento verbale è tornato con una sua efficacia. A me non è mai interessato tanto il corpo, quanto la persona, la comunicazione tra persone. La parola è diventato il mezzo migliore per rendere il corpo un’appendice e mettere l’individuo al centro. Quando possibile, cerco di espandere la performance in altri media, in modo da provare ad andare oltre l’effimerità che la contraddistingue. Alcune azioni performative, per esempio, sono strutturate in modo da poter vivere anche come video, senza che questo sia soltanto documentazione. In questo caso specifico, la performance è stata pensata anche per diventare strumento di ricerca, tramite le osservazioni raccolte dai sociologi durante il suo svolgimento. In questo modo l’opera allarga il suo raggio di azione oltre il “qui e ora” caratteristico della performance ed entra addirittura in un altro campo completamente differente, come quello della ricerca scientifica. Questo si connette a quanto detto prima relativamente alle potenzialità dell’arte nella ricerca, intesa non solo come disseminazione, ma come strumento attivo.
MC: Rispetto a quello che dice Guildor, è interessante notare come durante la performance non era solo l’artista a essere osservato, ma anche il pubblico. I ricercatori universitari, infatti, hanno preso nota delle reazioni e poi hanno condotto una serie di interviste una volta conclusa la performance. Si parte dalla ricerca per arrivare a una restituzione attraverso il linguaggio dell’arte, che poi a sua volta rientra nuovamente nella ricerca.
La tua cittadinanza premium sta per scadere
MB: in questi lavori vi è un grado di restituzione politica molto forte, che sottende l’idea basilare di tutta la mostra. La spinta e la vocazione politica sono chiare e forse non è un caso che con Guildor ci siamo conosciuti attraverso AWI (Art Workers Italia), associazione autonoma e apartitica che vuole vedere riconosciuto il ruolo dell’artista e degli operatori culturali.
G: Io credo che in questo momento storico sia importante ciò che nel metamodernismo viene definito informed naivety, ovvero “ingenuità informata”. Questo termine contempla la possibilità di studiare, di capire e poi di provare a fare un passo, pur sapendo che potrebbe anche non essere nella direzione più giusta. Si dice che il miglior modo per ottenere una risposta su Internet non sia formulare una domanda, ma postare direttamente la risposta sbagliata. Penso che questo sia dovuto al fatto che la sollecitazione è molto più forte quando possiamo correggere ciò che già c’è rispetto al dover formulare un pensiero dal principio. Anche per questo penso che oggi sia importante fare un passo nella direzione che si ritiene giusta anche senza esserne certi. Se poi ce ne è una migliore, qualcuno te lo farà prontamente notare. In questo senso, nella formulazione dei miei statements cerco di utilizzare un umorismo onesto, non l’ironia. Tutto quello che dico durante la performance è per lo meno onesto. Alcune cose sono personali e riguardano me come individuo immerso nel capitalismo della sorveglianza. Certo questo umorismo è amaro, ma penso crei un momento di incontro molto forte, arrivando senza essere una lezione impartita dall’alto. La parola è un ponte che richiede un impegno condiviso di codificazione e decodificazione. Una questione che io ritengo importante non solo per l’arte, ma anche per un’azione politica a tutto tondo, è cercare di far crescere la massa critica. Lo scopo è quello di riuscire a diffondere un pensiero tale che possa avere un impatto. Parlare di arte contemporanea in relazione a problemi concreti come la guerra, la mancanza di alloggi, la povertà è molto scivoloso. La speranza è però quella di riuscire a mettere in moto, all’interno della propria sfera d’influenza, un pensiero o costruire un’idea critica. Il tentativo per me è quello di recuperare la capacità di sognare un’utopia. Io credo nel valore dell’utopia. L’utopia può anche rimanere irrealizzabile, ma è utile per tracciare un orizzonte, una direzione da seguire.
In quest’ottica, tornano in mente le parole, fondamentali, di Mark Fisher e del suo Realismo capitalista. Dagli anni Ottanta ci è stata inculcata l’idea che non solo quella capitalista è la migliore forma di società possibile, ma che non esiste neppure un’alternativa e che, se esistesse, comunque non sarebbe desiderabile. Lo slogan There Is No Alternative di stampo thatcheriano ha avuto talmente tanto successo che “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. E nondimeno, come Guildor, anche Fisher nel suo libro offre una prospettiva possibilista, che apre alla speranza, che suggerisce che un’altra strada, comunque, è percorribile.
MB: Relativamente all’aspetto politico, io sono interessata al grado di verità e al senso di collettività. Parlare di comunità dal mio punto di vista oggi è un po’ difficile, per cui preferisco parlare di relazioni in seno a una collettività. Questa mostra, per me, ha un richiamo molto forte con la verità delle cose, nel suo umorismo onesto ma graffiante. L’esposizione porta con sé un senso di inquietudine, ma anche di benessere, perché si è di fronte a una verità, al di là della realtà delle piattaforme e dell’appropriazione dei dati da parte delle aziende. Guildor qui tenta di attuare un controsvelamento, un bilanciamento rispetto alle storture del capitalismo della sorveglianza. Se il capitalismo è in grado di appropriarsi di tutti gli ambiti, è interessante offrire la possibilità di deviare rispetto a questo meccanismo di appropriazione. La sussunzione messa in atto dal sistema capitalistico nega, di fatto, tutte le libertà. Se volessimo fare un esempio concreto, la Marciona, marcia queer transfemminista di qualche giorno fa, è come se fosse il controbilanciamento del Pride, ormai in mano agli stessi protagonisti e alle stesse aziende che alimentano le disuguaglianze. Questa mostra si interroga quindi sul futuro della democrazia, perché è chiaro, in ultima analisi, che alcune multinazionali hanno più potere degli stessi stati nazionali e si stanno dotando di strumenti per oltrepassare impunemente alcuni divieti relativi ai grandi temi contemporanei. Questo è il paradigma che è al centro di questa mostra.
G: Fa molto riflettere che il controllo pubblico sia in gran parte in mano ad aziende private, con gli stati nazionali che cercano di stare al passo, ma senza riuscirci. In più, in un momento in cui la democrazia rappresentativa è in profonda crisi, anche la battaglia culturale è diventata appannaggio della destra. È quindi importante creare un blocco culturale che parta dalla condivisione di pensiero e di obiettivi. Molto velocemente si è passati da politiche a lungo termine, da trasmettere di governo in governo, a una campagna politica perenne, dove le misure adottate guardano all’immediato, in un’ottica di rielezione.
Io, tra l’altro, come Guido Tarricone, vivo una contraddizione, perché accanto alla mia attività artistica, lavoro all’interno del sistema capitalistico. Poiché il mio lavoro come artista non è facilmente commerciabile, mi assumo la contraddizione di svolgere entrambe le attività, dando la possibilità alla mia identità artistica di indagare queste contraddizioni con il linguaggio dell’arte.