Praticare alternative: ricezione di un libro su violenza di genere e carcere

Una conversazione con Giusi Palomba

Giusi Palomba è scrittrice, traduttrice di saggistica e narrativa, autrice per diverse riviste e organizzatrice comunitaria a Glasgow, dove vive. A marzo di quest’anno ha pubblicato per minimum fax La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere, un testo ibrido che ci spinge a ragionare sulle possibili alternative a una giustizia che prevede sempre una vittima e un carnefice, una denuncia alle autorità, delle indagini, un processo e la speranza di una punizione dura ed esemplare (di questo libro, su lay0ut, ha parlato anche Martina Neglia). A questo modello fatto di certezze, Giusi Palomba contrappone un percorso di domande, dubbi e possibilità, mostrandoci una trama alternativa in cui la reazione a un abuso all’interno di una comunità diventa uno strumento di responsabilizzazione collettiva sulle dinamiche e le strutture che hanno permesso che quell’abuso avesse luogo. Non solo perché possa essere riparato, ma innanzitutto, in futuro, prevenuto. Quello che l’autrice ci invita a intraprendere è un lavoro di analisi e decostruzione a cui lei stessa non si sottrae mai, né nelle pagine del libro, né al momento del confronto con le persone incontrate durante le numerose presentazioni. Palomba non si ripara dietro posizioni predeterminate, né si erge a dispensatrice di linee guida, lascia piuttosto la porta aperta a chiunque voglia trovare, pluralmente, delle risposte. In questa intervista riflettiamo sull’accoglienza, gli incontri, le consapevolezze e i fraintendimenti che si è portato dietro questo testo così complesso e profondo.

Cominciamo: come stai e com’è stato il tour del libro? È stato come te lo aspettavi o ti ha sorpreso?

È complicato al momento dirti come sto, per farlo rispondo alla seconda domanda. Nei mesi scorsi ho visto posti che non conoscevo e forse ho capito qualcosina in più di come sta cambiando l’Italia: vivendo fuori, la mia visione era, e continua a essere, falsata. Gli ultimi anni di politiche razziste, repressive e securitarie, già in atto da un bel po’, hanno guadagnato molto terreno, e il margine di azione politica e le possibilità di cambiamento sembrano visibilmente ristrette. Ma in un quadro così depresso, in realtà, è stato possibile aprire spazi inediti di discussione. Nonostante la complessità dei temi, il libro sembra avere avuto molto riverbero, la ricezione è stata ampia e articolata, e comprendo qui anche le perplessità e le critiche. Nella maggior parte dei casi sono arrivate da chi non aveva ancora letto il libro e manifestavano l’idea che contenesse una lista di prescrizioni, o imposizioni, o l’invalidazione di altri tipi di percorsi. Potrei dire che mi ha sorpreso, ma probabilmente me lo aspettavo. Più sorprendente invece sono state la qualità dell’ascolto, la partecipazione e la volontà tangibile di investire energie in discorsi nuovi. Poi di certo la mancanza cronica di risorse ed energie rende difficile mettere in campo certe pratiche, come espresso dal racconto di molte persone. Eppure, le alternative nascono esattamente nella necessità, nei margini in cui non c’è altra soluzione che autorganizzarsi. Forse è questa la connessione che manca più spesso tra chi porta in campo grande scetticismo, e a volte ostilità, e chi invece vuole aprire crepe nell’asfalto.

Un’altra sorpresa sono stati i gruppi di lettura: non li ho contati ma sono numerosi, e credo abbiano dato al libro la possibilità di essere modellato dalle esperienze comunitarie in modi che non potevo nemmeno immaginare. Lo ritengo un grande risultato.

Libreria Antigone (Milano), 5 ottobre 2023, con Maria Catena Mancuso
Foto di Elena Panciera

Quello che dici mi fa pensare a due cose: al sogno, che sta nel sottotitolo del tuo libro, e alla “realtà più grande” da inventare di cui parli, citando Ursula Le Guin, nell’ultimo capitolo; al margine come elemento vitale, creativo, lo spazio — l’unico? — in cui nuove possibilità possono essere immaginate e create. Per trasformare la realtà dobbiamo avere fiducia nel potere di sognare, immaginare, inventare da capo qualcosa che sta solo nelle utopie, senza vergogna di passare per ingenu*. La giustizia trasformativa ha bisogno di una grande dose di speranza di cambiamento per essere messa in atto… Ma basta guardarsi attorno per sentirsi invas* da un senso di impotenza: come si possono cambiare le strutture che sorreggono il mondo così come lo conosciamo? In altre parole: come possiamo concepire l’utopia in un mondo così distopico? Non ti chiedo di darmi una risposta, ma immagino che in questi mesi diverse versioni di questa domanda in qualche modo ti siano state poste. Quindi ti chiedo: com’è stato il confronto con l* più realist*? 

Il realismo non è necessariamente un ostacolo, la rigidità e l’immobilismo che si porta dietro possono diventarlo. Per fare un esempio, chi ha accumulato esperienza in spazi collettivi sa che sono spazi in cui dovrebbero prodursi soluzioni speculative, immaginazione e fantasia, eppure a volte capita che si esprimano chiusura ed estreme difficoltà comunicative. Ma la chiusura può essere il risultato di tante cose, comprese le volte in cui sono stati silenziati conflitti e negate violenze in nome di un obiettivo considerato più importante, o in cui ha prevalso l’incapacità di affrontare momenti difficili, di nominare squilibri di potere e gerarchie silenziose. Ed è per questo che non mi interessa confrontarmi da un punto di giudizio, credo sia più utile la ricerca delle cause. In comunità che si dedicano al cambiamento sociale, prima di poter aprire spazi di immaginazione, a volte sarebbero necessari spazi di guarigione e decostruzione, e a volte è difficile anche solo pensarlo. 

Per quanto riguarda riflessioni di persone singole, di domande e suggestioni arrivate da chi ha letto senza far parte di gruppi organizzati, credo che questo libro, ma non solo — il racconto problematico della violenza di genere che viene fatto nei media, ad esempio —, stiano aprendo canali, stiano servendo ad aprire percorsi critici sul punitivismo in generale, ed è un gran bene. Per me la scrittura è stata una maniera di affrontare quel confronto anche con l’impotenza, ma ce ne possono essere tante altre. 

Per citare Mariame Kaba, “La speranza è una disciplina”, ed è forse l’unico modo di concepire l’utopia per me: facendola, ma stando in ascolto di ciò che chiede il corpo nella lotta. Il mondo distopico ci logora, è per questo che insisto molto sulla sostenibilità. Il tempo per la cura collettiva va preservato a tutti i costi, serve a coltivare quella speranza e quella utopia. 

Hai avuto modo di confrontarti sulle tue idee anche con persone che non necessariamente hanno letto il libro — perché magari non hanno familiarità con la parola scritta? Come hanno reagito di fronte all’idea di una giustizia che non preveda il carcere?

Raccontare questo libro a chi non lo ha letto può essere un’impresa ardua, sì, perché le pagine esprimono anche un’attitudine rispetto alle vicende descritte e alle riflessioni riportate che non so se riesco a riprodurre anche a voce. Le prime presentazioni le ho vissute malissimo a livello emotivo! Ma so che stai parlando di altro, della relazione con gli ambienti della nostra classe di appartenenza, e in questo caso i temi spesso risuonano, magari non per via di letture fatte, ma di esperienza vissuta. E se è così, forse ho più da ascoltare che da raccontare. Di certo questa appartenenza mi rende molto più consapevole del fatto che le parole possono raggiungere o meno certi spazi in base alle forme che assumono. La scelta delle parole si porta dietro fantasie e aspettative e io so di essere profondamente connessa all’ascolto di quelle fantasie e aspettative, e questo comprende anche evitare che facciano troppa pressione, che mi condizionino troppo. E’ una lotta costante anche contro l’idea di ridurmi a una casellina, spezzettare la mia identità, o fare percorsi obbligati persino nei temi e nella forma in cui scrivo, ma direi che di questo non devo troppo preoccuparmi: in questo libro non è chiara nemmeno la distinzione tra narrativa e saggistica e mi sono dovuta arrendere all’oggetto così ibrido che ne è venuto fuori.

Quali sono le fantasie di cui parli? 

Le fantasie riguardano prima di tutto il vedersi pubblicata. C’è la resistenza a lasciarmi andare a entusiasmi che mi spaventano molto, ma c’è anche la consapevolezza che per una persona come me, la pubblicazione è il risultato di mille costellazioni allineate, e a volte c’è molto bisogno di concedersi una celebrazione. Anche tu, da autrice working class, potresti parlare molto bene della difficile convivenza tra le aspettative esterne e la fatica, purtroppo ancora molto individuale, di tenere insieme i pezzi di sé, il senso del dovere verso i propri contesti e il tema dell’indipendenza artistica. Sembra una oscillazione irrisolvibile tra la gratitudine e il sentirsi comunque un pesce fuor d’acqua, nel mezzo tutte le altre istanze, dalle più materiali alle più spirituali. Non ne verremo a capo facilmente, ma questa è un’altra storia.

Circolo Sparwasser (Roma), 20 settembre, con Caterina Peroni e Sofia Torre
Marzabotto (Bologna), 27 settembre, a cura della Bisaboga di Montasico

Mi fai venire in mente una scena del film Mixed by Erry, che ho visto qualche tempo fa. Il protagonista, Enrico Frattasio, nato e cresciuto in una famiglia molto modesta nel quartiere Forcella a Napoli, vuole diventare un dj e ha tutte le capacità per farlo, ha la passione e, si dice nel film, addirittura il talento — e sul concetto di talento ci sarebbe molto da dire, magari avremo modo di farlo in futuro. In ogni caso, quando una sera si presenta in una discoteca per chiedere di esibirsi, il titolare del locale (interpretato da Raiz degli Almamegretta) gli dice chiaramente che non ha lo stile, la presenza, né il nome giusto per essere un dj. In pratica, nessuno vuole ascoltare dj Enrico da Forcella. Quando scopre che il negozio di elettrodomestici in cui lavora facendo le pulizie sta chiudendo, Enrico teme di non riuscire a trovare un altro impiego, ma il suo ormai ex datore di lavoro, Ferdinando, lo sprona a mettersi in proprio e continuare a coltivare la sua passione. Enrico, facendo sue le parole del titolare della discoteca, dice di non avere lo stile, né l’internazionalità per essere un dj. E qui c’è uno scambio di battute che ho trovato magnifico, perché Ferdinando gli dice: “Lo stile, l’internazionalità, ma chi ti ha detto che le cose si fanno come dicono al nord? Guarda, Enri’, che un dj può nascere pure a Forcella”. In queste poche parole secondo me è racchiuso un mondo, perché quante volte ci è stato detto, direttamente o indirettamente, che chi proviene da certi ambienti, con certi nomi, certi modi di fare, di vestire e di parlare non potrà mai campare della propria passione o del proprio talento senza rinnegare, nascondere o rinunciare a importanti pezzi di sé? E quanti sogni vengono abbandonati per strada proprio perché è troppo difficile mettersi in ascolto di quelle fantasie di cui parli, reprimendo l’impulso a soffocarle per la troppa vergogna? Mi fermo qui, ma concludo dicendo che Mixed by Erry, se vogliamo, offre anche delle riflessioni importanti sul carcere, per tornare ai temi del tuo libro. Perché chi finisce in prigione alla fine di questa storia saranno solo i fratelli Frattasio, mentre il milanese Arturo Barambani, amministratore delegato di un’azienda produttrice di supporti audio che fa affari con loro, riuscirà a patteggiare una sorta di immunità in cambio di informazioni.

E a proposito di ambienti e provenienze, hai presentato il libro in grandi e piccole città, da nord a sud e persino all’estero. Hai notato differenze nel modo in cui è stato accolto nei vari contesti che hai attraversato?

Il discorso che si instaura è molto differente a seconda dei contesti, è vero. La sorpresa più grande forse è stata vedersi accendere riflessioni sul punitivismo anche in ambienti mainstream, di solito abbastanza impermeabili alla critica e alle istanze che provengono dai margini. Nonostante il clima di forte repressione sociale, sembra sia minimamente possibile riaprire il discorso sulla disumanità del carcere portato all’attenzione dalla militanza di base negli ultimi mesi (anche se sappiamo bene che è un lavoro che dura da decenni e appartiene a vari fronti, da quello più militante a quelli più accademici).

Per il resto, sembra che il libro abbia diversi canali d’entrata, ci sono contesti a cui risuonano maggiormente le esperienze comunitarie, e altre letture sono più personali, e partono da riflessioni anche sui propri atteggiamenti nei propri circoli intimi. Mi sembra anche che tra luoghi in cui il welfare è molto presente e molto forte, si ricerchino e quasi pretendano soluzioni istituzionali e penali, mentre in contesti di meno privilegio è evidente che l’apparato penale non è visto come soluzione ma come persecuzione delle fasce consistenti del proprio ambiente o comunque in maniera problematica. Credo che la connessione maggiore si sia instaurata con chi ha fatto esperienza oppure ha più prossimità col lavoro in contesti marginali. A quel punto le parole assumono tutto un altro significato, non vengono percepite come teoria inapplicabile, troppo utopica, ma come elementi della propria realtà finalmente raccontati. 

Questo confronto continuo con chi ha partecipato alle presentazioni del libro  ti ha portato a cambiare idea su qualcosa o a maturare nuove consapevolezze?

Non ho mai considerato il libro come un discorso chiuso, ma come contributo in un mondo in cui questi discorsi erano assenti o presenti sotto forma di linee guida e casi studio. Ho imparato molto dal confronto col pubblico, innanzitutto mi sembra che ci siano decine di progetti che vanno avanti senza visibilità e a cui mi piacerebbe contribuire, se avessi il tempo. Magari non trattano esattamente di giustizia trasformativa o violenza di genere, ma il lavoro che fanno, alla fine, entra nel grande apparato di tutte quelle figure e infrastrutture sociali di cui avremmo bisogno per fare società più giuste e quindi meno violente. E penso che avremmo bisogno di riconoscerci a vicenda proprio per sentirci parte di un progetto comune.

Da un altro punto di vista, forse ho sottovalutato quanto sia forte il desiderio di arrivare al più presto alle soluzioni, sacrificando la complessità e magari saltando tantissimi passaggi. C’è la ricerca spasmodica o di una chiusura che ci eviti i conflitti e le difficoltà, o di una comprensione unica da calare su tutti i contesti, e forse non avevo ancora avuto una percezione così ampia di quanto questa richiesta fosse pressante.

C’è un aspetto o un passaggio del libro che secondo te è stato particolarmente mal interpretato? 

Più che di passaggi male interpretati, mi sento di nominare l’illusione che porta la lettura di un libro, che è quella di “possedere” gli argomenti, “padroneggiarli”, “dominarli” al primo incontro. Eppure, in questo caso, forse più che in tanti altri, abbiamo tra le mani una materia non addomesticabile. I dubbi e le esperienze possono diventare più rilevanti delle convinzioni o dei titoli di studio, in maniera più evidente. 

I contenuti del libro sono un precipitato di anni, ancora tempestato di dubbi, a testimoniare che né il tempo della lettura, né la sola lettura siano sufficienti a scalfire pensieri e comportamenti sedimentati e indotti dal tipo di società in cui ci ritroviamo a vivere, e spesso purtroppo a sopravvivere. La possibilità di non dover percorrere i solchi conosciuti e l’idea delle alternative è entusiasmante, e si può facilmente arrivare a credere che sfuggire agli automatismi e alle polarizzazioni sia facile, anche solo attraverso il linguaggio. E invece serve affiancarlo a qualcosa di diverso, serve il lavoro su sé stess*. Quell’entusiasmo è sicuramente il motore del cambiamento, ma non è la benzina. Si tratta proprio di cambiare il carburante dei pensieri e delle azioni.

Cuore di Vetro (Berlino), 27 agosto, preparando la presentazione con Mimmo Grimaldi
Libreria delle Donne (Bologna), 4 maggio ,con Antonia Caruso e Gloria Baldoni

Quello che dici sulla “facilità con cui si può arrivare a credere che sfuggire agli automatismi e alle polarizzazioni sia facile” mi riporta ai fatti di quest’estate, la notizia dello stupro di una ragazza avvenuto a luglio a Palermo da parte di sette coetanei, e quello di due cugine di 13 anni  da parte di sei ragazzi nel quartiere Parco Verde di Caivano, in provincia di Napoli. In entrambi i casi è molto facile concludere che i ragazzi che hanno compiuto le violenze siano irrecuperabili, che non sia possibile reintegrarli nella società — tanto più a causa della loro provenienza geografica, la condanna a un destino già scritto secondo una grossa fetta della società —, che sia necessario privarli della loro libertà e rinchiuderli in un luogo, il carcere, dove possano essere puniti per quello che hanno fatto.  E qui torna la domanda fondamentale del tuo libro, quella che bell hooks pone a Maya Angelou nel 1998 durante un dialogo su compassione, responsabilità collettiva e arte: “Come facciamo a rendere una persona responsabile di un torto commesso, e allo stesso tempo a restare in contatto con la sua umanità quanto basta per credere nella sua capacità di trasformarsi?”.

Ho ricevuto numerose richieste di commento sulle violenze di Palermo e di Caivano, formali e più informali. Ma devo dire che l’urgenza più grande di questa estate per me è stata il silenzio. Ho risposto a una sola intervista radio, con interventi dal pubblico, dopodiché mi sono resa conto che non ero pronta nemmeno per un intervento così breve. Si tratta di una questione di salute mentale, certo: le invocazioni di morte e tortura su dei ragazzini, ovvero le reazioni più comuni alle notizie di violenze, sono dure da leggere e da ascoltare, più che altro perché testimoniano quella normalizzazione dell’ultra punitivismo di cui il governo attuale è massima espressione. Ma si tratta anche di rimanere leale al lavoro che ho deciso di fare, e cioè sovvertire i modi e i tempi dell’attenzione mediatica e degli algoritmi, per quanto possibile, e concentrare le energie in spazi e momenti che riservano meno sensazionalismi, ma più costanza.

Nel libro mi sono soffermata sulle dinamiche che cronicizzano il punitivismo nella società, e in questi giorni le vediamo svolgersi in maniera chirurgica. Una notizia e i suoi protagonisti diventano concentrazione unica del male, l’ossessione di seguire ogni passaggio, conoscere ogni dettaglio della violenza sfociano nel morboso, si tramutano in un reality show. In questo stato alterato collettivo, si spiana la strada alle politiche carcerarie e repressive, all’idea che la tortura, la castrazione e la pena di morte siano ammissibili e desiderabili come risposta alla violenza di genere. E mentre questo accade, lo spazio per indagare le cause e le soluzioni alla violenza, lo spazio del cambiamento, viene azzerato, silenziato e mortificato. E la dinamica stessa diventa impossibile da riconoscere, perché siamo tutt* troppo coinvolt*.

Chi sperimenta il sistema carcerario si ritrova spesso a fare i conti con ferite emotive, difficoltà materiali e traumi che attraversano le generazioni…«Il carcere è una macchina in grado di immagazzinare errori e restituire violenza», racconta Giuseppe Rizzo in un reportage dove affronta il tema del rapporto tra padri detenuti e figli, una relazione presente anche nel podcast “Io ero il milanese”, di cui abbiamo parlato in passato. Le pratiche di giustizia trasformativa avrebbero il potere non solo di mitigare gli effetti immediati che il sistema detentivo ha sulle famiglie e le comunità ma anche quelli che rischiano di passare di generazione in generazione. Solo in Italia parliamo di 100 mila bambin* e ragazz* che hanno uno o entramb* l* genitor* in carcere…

Nel podcast “Io ero il milanese” il protagonista delle vicende raccontate, Lorenzo, ripercorre la sua storia di carcere e poi di libertà. Lorenzo entra per la prima volta in carcere da figlio, a fare visita al padre. E uno dei primi sentimenti che si sviluppano in questo rapporto sono la vergogna del padre e la delusione del figlio allo scoprire la verità nascosta della carcerazione. In un tentativo di tenere il figlio fuori da quelle mura, il padre gli racconta una bugia, gli dice che è dentro per lavoro. È un rapporto che nasce intorno alla menzogna, forse il primo grande trauma che si trova a vivere. Solo un esempio per dire che in questi due casi che citi, è evidente come la relazione già difficile con la genitorialità venga aggravata dalla privazione della libertà. In qualche modo lo stato penale contribuisce alla costruzione di una mascolinità impossibile, irraggiungibile, che si aggiunge ai danni fatti dai padri stessi.

Un’ultima domanda: hai da poco finito il secondo ciclo di presentazioni del libro, quali sono adesso i tuoi piani per il futuro?

Di sicuro continuare il lavoro lasciato in sospeso tra Glasgow e Edimburgo, collaborazioni con diverse realtà sui temi della giustizia e della punizione che prevede anche percorsi artistici e a cui tengo particolarmente. Tornerò in Italia a Natale e in primavera per rispondere ad altri inviti che sono arrivati nelle ultime settimane. Per il resto, la mia scrittura si nutre sia di grandi urgenze che del desiderio di orizzonti larghi, e sono la prima a sorprendermi dei possibili risultati di questa alchimia.


Giusi Palomba vive a Glasgow, in Scozia, ed
è originaria della provincia di Napoli. Traduce narrativa e saggistica e si occupa inoltre di organizzazione comunitaria.