Trovare le parole per una generazione – Un racconto di Wissal Houbabi

Questo racconto di Wissal Houbabi nasce come postfazione al libro Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’impero (DeriveApprodi 2023), di Louisa Yousfi – giornalista e autrice del blog politico “Paroles d’honneur”. Figlia di algerini immigrati in Francia, con questo libro denuncia il conflitto assimilazionista che le politiche delle istituzioni francesi non smettono di alimentare da almeno mezzo secolo. A questo link potete trovare un estratto dal libro; a quest’altro una recensione su Il Tascabile.


Giro la chiave, apro la porta, accendo la luce. Nell’ordine appoggio le chiavi, la borsa, tolgo la giacca, le scarpe e mi spalmo sul divano, no, finisco il giro necessario. Vado in bagno, mi slaccio i pantaloni, mi siedo sul cesso, prendo il telefono e inizio a scrollare, scroll scroll scroll.

[notifica: «Wii, guarda questo»]

Video breve di mezzo minuto, intenso, un’unica inquadratura fatta da un telefono, immagini di ragazzini non bianchi che smontano bidoni e spaccano i vetri delle macchine. Ragazzini annebbiati, posseduti e sfasciano qualsiasi cosa gli passi davanti, rabbia incontrollabile, energia elettrica, strade fuori controllo e pericolose. Riguardo quel video, lo riguardo ancora e ancora, cercando dettagli minuziosi, non mi basta ma c’è un piano molto rincuorante, lo fanno insieme, sono un branco, e qualcosa li fa sentire più forti, determinati, potenti. Sono comunità, almeno in questo. Caos.

Mi piace. Mi distraggo guardando il vuoto, si amplifica la percezione, la fantasia prende il volo: vorrei di più, ancora, ancora, ancora, ancora di più!! Zooom… nella testa e sto per vedere occhi di passanti borghesi spaventati, bene! E poi cani calciati come palle di rugby, bruciati vivi per divertimento, ecco la prima action: un Bianco ucciso da qualche compagno di classe con sessantatré coltellate ben inflitte dappertutto, sulle cosce, le palle, il collo, gli occhi, le unghie. Poi corpi trucidati da qualche marocchino spacciatore, lì ne è stato lanciato uno nel vuoto per vedere se sa volare contemporaneamente cantando quello che ha reso R. Kelly un uomo di successo. Qualche assassinio qua e là per noia o svago, prima lei-Bianca solo per aver pensato di venire a vivere vicino casa Nostra, come osa, poi quelli che si azzardano a difendere il proprio salario, a chiedere un aumento di paga; vorrei che per strada regnasse l’insicurezza, si sparassero quattordici colpi di arma da fuoco, sprangate, stragi, un colpo di fucile, [colonna sonora, musica hip hop] vedere buttare giù dalle scale, carbonizzare, vorrei altre nove coltellate, e poi ancora fucili, ancora pistole, carbonizzare ancora, a mani nude, torturando con «trattamento ad acqua», altri sei colpi di pistola ora, altri colpi di fucile poi, ancora carbone, sparare in aria a caso cercando fisionomie chiare, rinchiuderli in strutture senza diritti, lasciarli lì dentro morire, [ora, smooth]. Ancora colpi di pistola che Nostra Sicurezza sia fatta (nel dubbio), pestare a morte e riprendere con i telefonini per renderlo virale su Instagram, lasciarli soffocare per aver provato a ribellarsi e forse, forse, mi va ancora di assistere a un ennesimo annegamento ma con un finale suspence… Fine prima stagione, trent’anni.

Vorrei avervi qui e rincuorarvi, di fronte a me, occhio per occhio e dente per dente, dire che sono solo incidenti di percorso perché l’integrazione è un processo complesso. Vorrei potervi dire che se resistete e vi impegnate a comprenderci, un giorno vi potremmo concedere la grazia e un invito a qualche festa trap. State da parte un attimo, Voi, che soffrite di insensata ingiustizia, non c’è spazio, dimostrate qualche azione eroica o andate a piangere su qualche commento Facebook.

Perché partirei ovviamente da chi ha già commesso le azioni, qui sopra cronologicamente elencate su persone razzializzate. Queste azioni maschili, raccapriccianti, perverse e sadiche che si manifestavano nella mia fantasia sono già avvenute (e sono solo alcune) per mano di assassini Bianchi di questo Bel Paese; voglio poi passare ai politici, per tutte quelle volte che ci nominano in modo deplorevole come se non avessimo orecchie per ascoltare e coscienza di capire, come se non avessimo amor proprio e dignità da preservare, vomitare sentenze in nostra presenza così? Come osano! Neanche contemplano l’ipotesi che sia offesa e calunnia, chi decide la calunnia? Chi decide l’offesa? Chi può permetterselo? Quanto costa?

Prenderei il parlamento con tanto di poltrone inchiodate ai loro culi di maiale e butterei tutto in Mare, rendere illegale qualsiasi tipo di indignazione e cambiare il disco, dire al pappagallo ufficiale:

«pure io non sopporto più tutto questo, pure io non vedo soluzione, decidiamo chi si può salvare in questa Storia che
è già putrefatta e sappiamo cosa la rende così marcia. È già chiaro. È Bianco. È chiaro. È bianco che la Razza Chiara continua a esistere, è bianco chi delega i coltelli alle penne e le pistole ai fanatici accuditi dalle parole, è chiaro nella sua fisionomia. O sbaglio?».
Vai pappagallo, ripeti in loop finché non perde di senso, come gomma da masticare dopo ore in bocca. Finché non si
assorbe ogni microscopica particella nella testa.
Vai pappagallo, sostituisci le virgole con la parola zebbi, solo per rompere il cazzo.
Vai pappagallo, al termine di ogni giro grida: «questo è per Amba Aradam: è un Montecitorio».
Vai pappagallo, per finire, aggiungi: «sono un pappagallo, difendo solo la versione dei fatti di chi comanda e mi sorride».

[L’altoparlante impostato] Volo di fantasia solo per una semplice domanda: se facessimo esattamente tutto quello che fanno i bianchi, saremmo dei barbari o dei civilizzati?

Cioè, se volessimo davvero davvero seguire l’esempio di chi dicendo di portare civilizzazione portò devastazione, di chi non ha chiesto permesso a niente e nessuno autodichiarandosi padrone di tutto, di chi se n’è fottuto del valore umano per portare a casa qualche lingotto d’oro.

Saremmo dei barbari o dei civilizzati, seguendo il «tradizionale» principio dell’Uomo Bianco come esempio di Vita, seguendo chi ci ha aperto la via e la possibilità di imparare come si può immaginare e controllare il mondo, l’Uomo Bianco che ci ha messo di fronte a una necessità nuova: la civilizzazione?

Viste le paure e le speculazioni, se potessi giocare ad armi pari e rimettere in discussione la vecchia maniera dell’occhio per occhio e dente per dente?

Se seguire il buon esempio potesse implicare l’annientamento del nostro Eroe? Abbiamo assunto gli strumenti del padrone, abbiamo studiato la vostra maestosa Storia, ora siamo pronte a civilizzarci. Abbiamo capito come funziona questa «Democrazia», e naturalmente anche il «Progresso», ultima ma non meno importante: abbiamo capito grazie a voi che cosa significa «Libertà».

Non ci è mai stata chiesta un’opinione sulla nostra Libertà, tanto meno filosofeggiare sulla Libertà Assoluta, al pari, a confronto con Voi, Liberi? Non intendo la libertà per cui molto spesso combattiamo: diritti civili, giustizia sociale, dignità lavorativa o reddito universale, non sto parlando delle disuguaglianze e il gap per arrivare al Loro standard. Sto parlando di «Libertà» come concetto da combattere, prima che da perseguire.

Mi sono persa un attimo, appoggio il telefono, mi pulisco il culo, mi alzo e mi rimetto i pantaloni, tiro l’acqua, mi lavo le mani, mi guardo allo specchio: «Sei una pervertita. Sai benissimo che non puoi pensarlo, è mostruoso, è bene restare barbari».

In ginocchio una vita e finalmente la lettera: il fatidico documento di «riconoscimento», la cittadinanza, si dovrebbe seguire il protocollo che ci si aspetta: gratitudine, festeggiare, vestirsi bene, commuoversi, amare la vita. Finalmente si è compiuto il processo tanto atteso, finalmente essere cittadina italiana, finalmente!! Il giorno del giuramento ha gli stessi schemi di un matrimonio civile, il rito richiede di dire due volte «Lo Giuro», uno per la Repubblica e uno per la Costituzione, al termine di questo ricatto morale farcito di finta laicità riceverai la Bandiera Italiana, una copia della Costituzione e il numerino per andare all’anagrafe, per una nuova Carta d’Identità, nuova Vita.

E se non volessi giurare? Se ritenessi quanto meno strano che per riscuotere un maledetto pezzo di carta rincorso per decenni, con umiliazioni difficili da scrostarsi di dosso, tasse pagate per razzismo istituzionalizzato, ricatti di ogni sorta e sempre in bilico nella precarietà di un permesso di soggiorno imposto a chi molto spesso qui ci è nato. Se non mi andasse di dire «Lo Giuro», che sembra un colpo di grazia, come se dopo una quantità di mazzate prese devi essere sempre tu a chiedere scusa, come se dopo aver servito ai tavoli dovessi anche pagare i clienti che hanno mangiato? Come se fossi sempre in debito, dopo che ti è stata sottratta la Storia.

Dire «Lo Giuro» è solo un gesto simbolico. Cosa cambia dire queste due parole, dopo così tanti anni in attesa del documento? Io stessa le ho dovute pronunciare, senza preavviso, senza la prontezza di capirne il senso. Ho sentito in quelle due parole tutto l’odio verso questo ipocrita processo maledetto, e più passa il tempo e più quel «Lo Giuro» mi tormenta l’anima, mi nega il rispetto, mi umilia di fronte al privilegio conquistato. No, non ho giurato per alcuna fedeltà plausibile di cui non riesco nemmeno a dedurre gli aspetti concreti, ho giurato sotto la pressione e il ricatto che mi è stato imposto. Non avevo scelta. No, non sono solo due parole simboliche di un rito che si fa, qualcuno a quel rito ha dato vita, senso e valore formale.

No, non mi è stata chiesta nessuna opinione sul cosa ne pensavo di questo rito, fatto e costruito solo per gente come me, «naturalizzata».

No, non mi è stato chiesto cosa significa simbolicamente avere un Permesso di Soggiorno, crescendo.

Per l’Enciclopedia Treccani1, «Permesso»: licenza, Autorizzazione verbale o scritta di dire o di fare qualcosa, di tenere […], accordare, rilasciare, negare; «Soggiorno»: il dimorare per un certo periodo di tempo in un luogo che non sia la propria abituale residenza. Parafrasando: degli esseri umani sono tenuti in una condizione di perenne sudditanza, le loro scelte passano attraverso un’autorizzazione scritta costantemente da rinnovare per meriti e con clausole che sono a carico del suddito stesso. In una terra amministrata con questa formula, il suddito è considerato per sua stessa natura un estraneo. È stato pensato per un altro luogo e qui risponde a leggi speciali. Appunto, fino alla naturalizzazione.

Queste leggi speciali concedono una copertura minima di diritti inventati di cui il Primo Mondo si gongola. In primo luogo, il suddito, naturalizzato, non ha voce in capitolo rispetto alla sua sfera pubblica e personale, con ciò si intende che non è né politicamente rappresentabile da nessuna forza politica, né tantomeno ha diritto alla partecipazione.

Il suddito è un osservatore esterno. Anche quando si tratta del suddito, il Bianco deve prendere delle decisioni. Il suddito può ascoltare discorsi su di lui ma non deve interferire. Il Bianco basa buona parte delle decisioni sul cosa farne di questo suddito. Come meglio controllarlo, cosa concedere e non, come mantenere le giuste differenze (che non si basano su differenze sostanziali ma su una gerarchia da santificare) ed è per questo che «Lo Giuro» intende «mi sottometto nuovamente», mi naturalizzo, non può più essere considerato un soggiorno, ciò che si attiva è la Fede. Il rito di fatto è quello Dio, Patria e Famiglia. Si richiede Fedeltà a uno Stato di diritto, si intende il suddito assimilato alla Nazione, cittadino Frankenstein, nella forma di un matrimonio civile. «Naturalizzazione»: concedere a uno straniero il diritto di cittadinanza che un tempo si diceva naturalità. Il mio problema con questo termine non è tanto politico quanto semantico, il termine naturalizzazione è l’applicazione di un meccanismo artificiale, l’aggiunta di «izzazione» a un termine che per eccellenza dovrebbe intendere il suo contrario. Essere italiana per Natura, da intendersi non tanto per l’aspetto fisico quanto per l’eredità di sangue. Il sangue è associato al diritto, questo è il vero meccanismo artificiale. Non viceversa. Pensare che globuli rossi, bianchi e piastrine abbiano un legame diretto con il diritto al voto.

Le parole hanno un peso massiccio in relazione a ciò a cui sono destinate, i documenti in cui vengono espresse queste parole sembrano all’apparenza solo fogli di carta con dell’inchiostro buttato sopra ma ci manipolano nella percezione di noi stesse, nel pensarci come corpi liberi di essere ed esistere. Sono la discrepanza tra ciò che pensiamo di essere e ciò che nel documento dobbiamo performare. Si è invece prima di tutto quello che il documento dice che siamo e addomesticare la manipolazione è il processo di coscientizzazione.

Fatto sta, la razzializzata naturalizzata vive nella migliore delle condizioni amministrative della grande famiglia diasporica. Ma la libertà che si conquista è fittizia, finta, di plastica. Gratitudine, festeggiare, vestirsi bene, commuoversi, amare la vita, la cornice ti ha già disintegrato.

Noi siamo Diaspora, che spesso è intesa come dispersione, una condanna. Il sintomo di paesi che non riescono a contenere tutto il proprio popolo, una Sindrome di Stoccolma verso il colono, oppure la grande illusione di un Primo Mondo o buco nero della Storia raccontata dai civilizzatori. Ma migrare è un processo in perfetta armonia con la natura, non solo se si tratta di umani. Preferisco ritenere la Diaspora come una massiccia disseminazione, come spore che espandendosi rivelano le sperimentazioni umane più disparate, un’idea di Identità fuori dal concetto di Stato Nazione, di fluidità storica che si contrappone alla cristallizzazione e all’Impero. Spore che contaminano un sistema in putrefazione e rigenerano il nuovo.

Dalla prima migrazione all’ultimo sbarco, la nostra Storia diasporica è legata da un unico filo conduttore. Ci si esorcizzi da qualsiasi pensiero penoso, ciò che ci rende libere è evidente nella quotidiana repressione. Siamo figlie e figli di pirati del nuovo millennio, siamo stati istruiti e ci siamo decostruiti, se è questo che fa paura, se è questo che ci rende dei barbari, è perché nel limite occidentale bianco, non conoscete altre lingue.

[rispondo al messaggio: «Ho visto, avevano annullato il concerto che Baby Gang doveva fare a Riccione.
Ormai ha il Daspo dappertutto e ora è in carcere un’altra volta. Hai sentito qualche rapper bianco dire qualcosa?»]

Baby Gang, un barbaro, che ha saputo trovare le parole per una generazione intera. Volevano civilizzare i selvaggi, chi si è ribellato è stato chiamato barbaro. Allora sì, è così che intendo la Libertà.

Esco dal bagno, vado in camera, mi spoglio, mi stendo.

[notifica: «In effetti no»].


[1] E se le ipotesi di senso e significato sono da ritenersi fuorvianti, qui le definizioni sono scolpite su Google come la Bibbia e ci fidiamo di chi ha fatto di questo paese un emblema della Letteratura mondiale, dove le parole hanno raggiunto apici di bellezza incommensurabile e quindi, imparando dal Bianco oltre la lingua anche la sua importanza, chiedersi dietro a ogni parola di questa lingua la profonda radice, che non è mai lasciata al caso. Qui, la semiotica e la burocrazia si incontrano prendendosi a pugni come pugili delle parti in guerra fredda.


Le immagini vengono da la muta – spettacolo di Wissal Houbabi e Vittorio Zollo, 10 febbraio 2023, Benevento.

Wissal Houbabi (1994) è una scrittrice, artista e poeta. Si muove in differenti ambiti, dalla ricerca sul femminismo hip hop alla scrittura di racconti brevi che esplorano la condizione della cultura diasporica. Ha collaborato con varie riviste online e cartacee, tra cui Jacobin, Zapruder, Noisey. Ha realizzato workshop, percorsi e progetti di poesia con diverse istituzioni culturali e artistiche, tra le quali Iuav, Goethe Institut, Muciv, Mudec. Collabora con numerose realtà nel mondo dell’arte e della cultura, tra cui il collettivo di poesia orale Zoopalco_ZPL (Bologna) e il Premio di poesia con Musica Alberto Dubito (Milano/Treviso).