Upgrade della realtà – Virus e feticci nella circolazione digitale

Come è adesso! è un contenitore eterogeneo che vuole avere al centro il Mondo. Si è detto del mondo fisico che va diminuendosi con Luca Mercalli, climatologo di fama internazionale; si è avviata un’indagine personalissima sul concetto del male nella poesia contemporanea. In questo pezzo Valerio Cianci si (pre-)occupa del digitale, questo schermo di immagini che va sempre più inspessendosi. Consigliamo di leggere altri suoi pezzi: su Not ha parlato di memificazione del reale; su Singola di desiderio e inconscio.


Il mito, il discorso, si evolvono, così come si evolvono i media.
O così come si evolvono la tecnologia e le nevrosi.

L. Armand, The Medium Is the Fetish.

Prendete qualsiasi testo di teoria critica dei media e troverete inevitabilmente utilizzate due figure: i virus e i feticci. Che si parli di visual culture, di memetica, di codici e circolazione, è praticamente impossibile non incontrare queste due “metafore”. Verrebbe da chiedersi, in primo luogo, che cosa possano avere in comune due elementi così distanti: l’uno “biologico”, l’altro – nel più vago senso del termine – culturale; in seguito, eliminando a priori l’ipotesi di una certa mancanza d’inventiva, come queste stesse figure possano venire utilizzate per descrivere fenomeni appartenenti ad ambiti all’apparenza così eterogenei. Preliminarmente potremmo dire che entrambe designano qualcosa di indistinto: un feticcio è un oggetto su cui vengono proiettati valori e potenzialità a esso estranei, e che pure, sembra agire come se gli appartenessero. Un virus invece è un’entità che una volta penetrata in un organismo opera mescolando i propri criteri e le potenzialità dell’ospite: non è né interno né esterno. Ed è proprio questa sorta di generale indistinzione e confusione dei confini evocata dalle due figure che svela come possano ricorrere in diversi ambienti. Questi stessi ambienti tendono sempre più a confondersi fra loro, dimostrando come sia difficile categorizzare il loro oggetto: nella circolazione digitale ogni certezza tende a svanire.

Ciclicamente, proprio le difficoltà “tassonomiche” incontrate dalle più diverse analisi, rendono quasi inevitabile ricorrere a questi due piccoli “mitologemi”. Cercare di capire le interrelazioni fra la “forma” del digitale e le figure che questo evoca può forse aiutarci tanto a definirne meglio il contenuto, le figure con cui viene “narrativizzato”, ed evidenziare le sfide che questi pongono alle nostre categorie conoscitive.

Come scrive Roland Barthes in Miti d’oggi “il mito è un sistema di comunicazione, è un messaggio”. Messaggio che tuttavia non si definisce per il proprio oggetto ma per “il modo in cui lo proferisce”. Sostanzialmente, dunque, il mito è forma – una funzione operativa. Forse (e non senza forzature) è possibile rendere ciclica la tesi e sostenere che, in una certa misura, la “forma” degli elementi  sottoposti a mitogenesi influenzino la struttura del mito stesso. Allora potremmo iniziare chiedendoci: qual è la forma della circolazione digitale?

Che cosa circola online

Aden Evens, studioso dei media, interrogandosi sull’effettiva natura del “contenuto” che circola online giunge a una conclusione che sovverte l’apparente ovvietà del termine: gli elementi modulari che rendono possibile la circolazione del contenuto online sono “del tutto indifferenti rispetto al contenuto”. Questi elementi supportano un certo quantitativo di memoria – che questa sia occupata da un’estensione jpeg; docx; mp4… è completamente ininfluente. A partire da questa constatazione, Scott e Mackenzie Wark, nel loro saggio Circulation and Its Discontents, concludono che

Il contenuto è il contenuto delle piattaforme, ma non si tratta dei media o dei dati che popolano i nostri feed e con cui interagiamo. Il contenuto è l’insieme di parametri da seguire per poter riempire i compartimenti modulari. […] Il contenuto è a sua volta una forma vuota.

Questa stessa “forma vuota” prodotta dai media – ossia la “logica” delle piattaforme, indifferente alla effettiva forma di un elemento (immagine, audio, testo…) – secondo gli autori, a sua volta “media la teoria mediale stessa”. Di conseguenza, i concetti prodotti dalla teoria “riproducono l’incommensurabilità che si suppone debbano spiegare”. Allora di preciso che cos’è che circola online?

Non stupisce, di conseguenza, che a fronte di una certa evanescenza dei confini fra forma e contenuto, in larga parte la teoria critica digitale esamini le modalità di circolazione dei contenuti piuttosto che la loro effettiva “natura”. Ed è proprio rispetto alla circolazione che iniziano a ricorrere la già menzionata terminologia-iconologia virologica – i contenuti diffusi online non circolano o vengono prodotti per imitazione, ispirazione o una qualsiasi altra attività ascrivibile al registro “artistico” umanista, ma si diffondono per infezione, parassitano l’ospite umano per replicarsi. Una delle ragioni per il ricorso a queste figure è forse una particolarità intrinseca di questo contenuto: nel caso della circolazione online, il contenuto sembra sottrarsi alle categorie “logiche” che permettono di “scomporre” in elementi nucleari altre forme di produzione culturale. Viene meno, oltre alla differenza fra forma e contenuto, anche la distinzione fra type (contenuto generico) e token (esemplare specifico). Come sostengono Scott e Mackenzie Wark:

“Un meme di internet può essere, contemporaneamente, questo meme – un caso specifico, e il meme, ossia la pluralità a cui diversi casi appartengono”

Per servirci di un loro stesso esempio: nel caso dei meme di Spongebob, non si tratta di uno specifico template o della categoria meme di Spongebob, che contiene in sé qualsiasi possibile istanza singolare, ma della totale indistinzione fra le due. Lo stesso principio è applicabile a cascata a ogni forma di contenuto che abbia raggiunto una certa soglia di viralità.

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A partire da queste considerazioni, Dominic Pettman nel suo breve saggio Memetic Desire propone una serie di tesi circa il rapporto fra contenuto/forma, media e circolazione. I media, scrive Pettman, non sono solo “un’interfaccia” comunicativa, ma più complessi assemblaggi che “progettano nuove ‘strutture della sensazione’”. La circolazione dei contenuti nel contesto digitale è

principalmente una questione di contagio ed entusiasmo, il che ci porta a focalizzarci su ciò che Hayden White chiama ‘contenuto della forma’” (corsivo mio).

Questa forma di diffusione, secondo Pettman, porta a una condizione “sinestetica” in cui si fondono tecnologia, operatività, sensazione ed estetica, ricordandoci la comune radice di arte e tecnologia nel concetto di τέχνη in cui convivono le nozioni di creazione, artificio, e strumentalità. Secondo Pettman dunque

Internet e in particolare i cosiddetti “social media” possono essere considerati una camera di proliferazione globale, o una macchina memetica globale, che veicola micro- e macro- entusiasmi su una scala e a una velocità mai viste prima.

La condizione “virologica” di proliferazione di entusiasmo mediante figure d’indistinzione fra contenuto e forma, “progetta” una nuova forma di sentire o di desiderio che Pettman, in un evidente riferimento a René Girard, ribattezza “memetico”. Secondo Girard, in estrema sintesi, il desiderio nasce nell’uomo per imitazione rispetto a ciò che l’altro possiede. Nel contesto digitale, invece, questa dinamica viene meno, per lasciare spazio a una forma “infettiva” di replicazione indipendente dalla volontà umana.

«i post-umani di oggi desiderano ciò che viene detto loro di desiderare – e come desiderarlo – dall’elaborazione algoritmica delle tendenze del momento»

Il desiderio memetico […] non nasce dall’imitazione, piuttosto dall’infezione o dal contagio. Mantiene tracce della struttura triangolare originale ed essenziale (soggetto del desiderio–mediatore–oggetto desiderato) ma la frattalizza attraverso la rete al punto che un mediatore specifico non è più individuabile. Il soggetto, dunque, è meno l’apice di pattern ideologici consolidati e più il riflesso, il mezzo o l’ospite attraverso cui le correnti memetiche fluiscono […]. I post-umani dell’era pre-internet desideravano ciò che gli altri ritenevano desiderabile […] i post-umani di oggi desiderano ciò che viene detto loro di desiderare – e come desiderarlo – dall’elaborazione algoritmica delle tendenze del momento […]. Noi stessi, ora, funzioniamo come nodi semi-organici della rete memetica.

Pettman sembra, indirettamente, suggerire che l’indistinzione fra forma e contenuto nella circolazione digitale abbia un effetto anche a livello “esperienziale” – la “datificazione” del contenuto (che come evidenziato in apertura consiste in realtà in una serie di parametri modulari) progetta nuove “strutture della sensazione” in cui i modelli rappresentativi e mimetici che hanno per secoli caratterizzato la cultura visuale iniziano a venire meno, lasciando spazio a una diffusione operativa, virologica, che appiattisce forma e contenuto sulla sola funzione.

La stessa enfasi sul concetto di τέχνη, la cui natura è intrinsecamente estetico-tecnologica, risuona con una tesi proposta dal Nicholas Mirzoeff, critico dei media, secondo cui la cultura visuale contemporanea non riguarda esclusivamente i contenuti visivi o le loro tecniche di produzione, ma affonda le proprie radici in una nuova struttura della sensazione – in cui si fondono oggetti e tecniche – che implica una sempre maggiore tendenza alla visualizzazione. Insomma, il contenuto che circola online è prevalentemente visuale, ma di una visualità in cui l’immagine non è (solo) rappresentativa, ma produttrice di nuove concatenazioni cognitive-esperienziali.

Dalla mimesi alla modellizzazione

Queste formulazioni, anche per via della forma “poetica” adottata da Pettman, possono risultare piuttosto vaghe, tuttavia rivelano tutto il proprio spessore speculativo se confrontate con le analisi – decisamente più “formali” – di Hans Belting, storico dell’arte e critico dei media. Nel suo saggio Immagine, Medium, Corpo, Belting evidenzia alcune particolarità fondanti della dimensione iconica della modernità: innanzitutto la nostra concezione dell’immagine, e del medium che la veicola come due entità o domini distinti, deriva dalla nostra percezione “analitica” dei fenomeni visivi, in cui interviene una sorta di categorizzazione logica a posteriori che opera una scissione fra ciò che in realtà è indistinguibile. La medialità delle immagini insomma è fondamentale. Queste difatti non si danno se non in relazione alle tecniche che le rendono manifeste. In secondo luogo, Belting evidenzia come ci sia una continuità inscindibile anche fra l’immagine concreta (figura) e l’immagine mentale che questa suscita, in un meccanismo che permette alle rappresentazioni di “imprimersi” nella memoria collettiva e di essere poi – in un ciclo – (ri)prodotte. Questa constatazione lo porta a definire il nostro rapporto con le immagini non tanto in termini di percezione, quanto di animazione – siamo noi grazie alle nostre immagini mentali a infondere vita alle immagini materiali e, viceversa, è grazie alla simbolizzazione delle immagini materiali che queste possono esercitare su di noi il loro fascino. In questo senso Belting pensa al nostro stesso corpo come medium per la circolazione visuale, che è così slegata dai limiti della rappresentazione per entrare in un regime di operatività-funzionalità intermediale, la cui stessa forma dei media diviene contenuto.

Il medium è una forma e trasmette la propria forma grazie a cui noi percepiamo le immagini.

In questo modo diviene evidente come le immagini non siano solo di pertinenza estetica o percettiva, ma vengano veicolate e, allo stesso tempo, veicolino la forma stessa che le rende possibili, influenzando in questo modo non solo i criteri “rappresentativi” o di raffigurazione ma gli stessi criteri percettivi secondo una progressiva indistinzione mediale fra apparato tecnologico e corpo. In particolare, le immagini nell’ecosistema digitale sembrano non solo influenzare e rispecchiare la nostra percezione ma renderla l’oggetto stesso della loro iconologia.

Le immagini digitali si rivolgono alla nostra immaginazione corporea e attraversano il confine tra immagini visive e immagini virtuali, tra immagini viste e immagini proiettate. In questo senso, la tecnologia digitale persegue l’imitazione della nostra immaginazione.

Benché Belting parli ancora di “rappresentazione” e “imitazione” è evidente come la descrizione che accompagna queste dinamiche abbia ben poco a che vedere con i concetti tradizionali di raffigurazione e mimesi. Se, infatti, ha luogo una progressiva indistinzione fra immagini visive e proiettate questa stessa è possibile solo a detrimento di un’effettiva funzione rappresentativa. Anziché dire che il digitale imita la nostra immaginazione, avrebbe più senso riprendere i termini di Pettman e dire che il digitale infetta la nostra immaginazione.

In primo luogo, la circolazione digitale delle immagini opera secondo criteri di induzione algoritmica (dal singolo contenuto viene desunta la categoria che, ciclicamente, viene diffusa e produce nuovi contenuti), che, come evidenziato da Wark, da un lato erodono alcuni elementari modelli di semiosi (type/token) e dall’altro manifestano contenuti secondo una forma puramente operativa modulare che risponde a esigenze economiche, politiche e culturali, portando a una iper-codificazione del contenuto e alla conseguente implosione dei significati.

La tendenza alla visualizzazione poi indicizza un secondo fenomeno di “falsificazione” – sempre più elementi non-visibili vengono visualizzati secondo criteri dati non da un’esigenza mimetica ma dalla funzionalità stessa della circolazione: a influenzare ciò che viene visualizzato e soprattutto come viene visualizzato non è un’esigenza conoscitiva, ma la necessità di dare forma a contenuti a seconda dell’investimento attenzionale che questi incanalano, informato dai criteri operativi propri delle piattaforme – trending topics, indicizzazione delle ricerche, hashtagsInfine, anche nei casi più prosaici come selfies, vlogs e Tik Tok, ciò che viene “rappresentato” – quantomeno in larga parte – può essere digitalmente modificato fin nei minimi dettagli, facendo sì che le immagini veicolate non rappresentino una “realtà” ma ciò che vorremmo che questa fosse – o meglio, ciò che ci viene detto di desiderare (Pettman). E il desiderio che le riguarda, viene, circolarmente, influenzato dalla diffusione di immagini simili secondo i criteri sopra menzionati facendo sì che il “desiderio mimetico” venga a poco a poco infettato dall’“entusiasmo” e dalla viralità – funzioni che ricodificano secondo una logica digitale le nostre proiezioni e le nostre percezioni, fra cui, in maniera più plateale, i nostri meccanismi identificativi sempre più logorati da immagini “irreali” a cui è impossibile adeguarsi, come testimonia una sempre più diffusa serie di disturbi legati a diverse forme di disforia. La circolazione digitale non opera una mimesi del reale, ma un suo upgrade.

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Un’opera di Neil Beloufa esposta al Pirelli HangarBicocca all’interno della mostra Digital Mourning

Computazione come progettazione del reale

Come sostiene Louis Armand nel saggio citato in esergo, la dimensione visuale moderna opera una sorta di implemento della feticizzazione che non concerne più singoli aspetti figurativi, ma si ripiega sull’atto stesso della visualizzazione, sotto l’influenza dei media che rendono possibile una raffigurazione sempre più dettagliata e sempre più impossibile.

In questo modo sembra che la “realtà” fornisca via via una conferma empirica alle tetre speculazioni di Jean Baudrillard che in The Evil Demon of Images scrive:

Il segreto dell’immagine non deve essere cercato nella sua differenziazione dalla realtà e dunque nel suo valore rappresentativo […] ma, al contrario, nella sua capacità “telescopica” rispetto alla realtà, nel suo cortocircuito con la realtà e infine nell’implosione di immagine e realtà. […] Avviene una sempre più definitiva mancanza di differenziazione fra immagine e realtà che non lascia più spazio alla rappresentazione in quanto tale.

Secondo Baudrillard, dunque, se le immagini digitali ci affascinano così tanto

non è perché sono il luogo della produzione del significato o della rappresentazione […] ma è al contrario perché sono il luogo della scomparsa del significato e della rappresentazione […] luoghi di una fatale denegazione del reale e del principio di realtà.

«le immagini sono “il luogo della scomparsa del significato e della rappresentazione”»

La “complicità” fra immagini e circolazione digitale – e, più precisamente, datificazione algoritmica – è il filo rosso di un densissimo libro di Steve F. Anderson, intitolato Technologies of Vision. La complessa analisi di Anderson è una sorta di esplicitazione di una tematica che sembra serpeggiare fra le righe dei testi già menzionati: la dimensione “visiva” della nostra cultura non è un elemento scindibile dalla logica algoritmica che regola la produzione online; è, invece, una sorta di sua manifestazione epifenomenica, che indicizza una più profonda ricodificazione fra immaginazione, visione e “sensazione”. Già nell’introduzione Anderson osserva come “stiamo testimoniando una radicale trasformazione della cultura visuale, le cui radici affondano nell’evoluzione della relazione fra dati e immagini”. Questa trasformazione si riverbera in primo luogo in una mutazione nella natura “iconografica” dell’immagine stessa che, come evidenziato da Pettman, Belting e Baudrillard, perde progressivamente la sua funzione mimetica e rappresentativa, divenendo ciò che Anderson definisce “immagine computazionale”.

Un’immagine computazionale non ha più a che vedere, in senso stretto, con la mimesi e nemmeno con la significazione. Le immagini computazionali possono operare invece come interfacce, veicoli o raffigurazioni (renderings) superficiali la cui reale importanza è data dai processi o dalle strutture di dati sottostanti.

Simultaneamente però, secondo la tendenza alla visualizzazione menzionata da Mirzoeff

Le immagini diventano computazionali [e] i dati sembrano incompleti se non sono visualizzati.

La codificazione visiva dei dati e degli algoritmi e la codificazione algoritmica delle immagini risponde, come già evidenziato da Pettman, a una ri-progettazione della sensazione. L’operatività algoritmica e le strutture di dati non equivalgono a una “rappresentazione” mimetica del “reale” ma derivano da un processo di selezione operato secondo criteri economici, culturali, sociali, che, inseriti nella circolazione digitale vengono poi diffusi memeticamente, intensificati e replicati. Ed è precisamente questa sovrapposizione di livelli eterogenei che porta a ciò che Baudrillard definisce “scomparsa della significazione e del principio di realtà”. La realtà insomma non è raffigurata ma creata e ri-prodotta visivamente e algoritmicamente.

[L]a politica dei dati diventa una politica della sensazione (sensing). […] I sensori sono inventati e utilizzati per obiettivi specifici. Raccolgono alcune informazioni ma al contempo ne ignorano altre. Sono parte di un sistema ideologico, tecnico e sociale.

In questo senso, dunque, non avviene una rappresentazione della realtà, ma una sua progettazione e replicazione secondo criteri opachi che vengono sintomaticamente inquadrati secondo le figure della virologia. Si tratta di contenuti e operazioni infettivi, parassitici, in cui l’agentività umana perde via via la propria importanza. Nel suo breve saggio Neither Black Nor Box, Taina Bucher cerca di demistificare l’opacità e la presunta oggettività algoritmica rimarcando come la stessa manifestazione visiva dei sistemi di dati risponda a necessità di modellizzazione – o visualizzazione – che, in definitiva, ne rimarcano tanto l’arbitrarietà, tanto la dipendenza da criteri estrinseci.

A livello dell’interfaccia, gli algoritmi “descrivono sé stessi” mediante l’output visivo delle informazioni che veicolano.

E, dal momento che “i dati non hanno necessariamente una forma visuale”

Ciò che vediamo, dunque, non è mai un dato puro, ma dati a cui è stata conferita una forma mediante un processo di in-formazione algoritmica.

Non esiste in ultima istanza un “dato puro” – come sostiene Johanna Drucker, la stessa parola “dato” è fuorviante poiché implica la preesistenza di fenomeni indipendenti dall’osservazione e dalla selezione. In questo senso diventa evidente il senso della tesi di Anderson secondo cui dati e immagini sono legati da una “relazione funzionale” – non si tratta di domini separati ma di due diverse ma interrelate manifestazioni della circolazione digitale, informata dai parametri di operatività algoritmica.

Nonostante l’inevitabile violenza della sintesi, le teorie riportate dimostrano sia una tendenza a gravitare attorno a nuclei tematici comuni – nonostante l’eterogeneità dei cambi di indagine e delle conseguenti metodologie – sia come, in ultima istanza, la figura della virologia sia un punto d’arrivo quasi ineludibile. In breve: la circolazione online è indipendente dal contenuto che veicola; il contenuto a sua volta è indistinguibile dalla propria forma – una forma vuota modellata da funzionalità algoritmica. La circolazione veicola poi per lo più informazioni visive, condensate in immagini che, si diffondono secondo criteri non “estetici” ma funzionali – in base a processi di feedback e indicizzazione. Tuttavia, questa predilezione raffigurativa, informa la nostra stessa percezione, sviluppando una sempre maggiore tendenza alla visualizzazione. In questo modo – come rimarca Belting – adeguiamo la nostra produzione di contenuti, e la nostra stessa immaginazione ai criteri della circolazione delle immagini, che sono, in ultima istanza, algoritmici. In questo modo il contenuto online è una iper-stratificazione di domini semiotici differenti: culturale, politico, economico, informatico… in una tendenza asintotica alla totale perdita di significato. È in sostanza sempre più difficile discernere cosa circola, come circola e chi o cosa lo fa circolare. Il meccanismo è perfettamente virale: i contenuti online hackerano le nostre “sensazioni” – immaginazione, modelli identificativi e proiettivi – vi si mescolano e ne influenzano le strutture per poi venire replicati, secondo i loro stessi criteri, in una progressiva indistinzione fra ospite e parassita. In che modo però tutto questo è conciliabile con il feticismo?

Feticci digitali – produzione del valore e distribuzione dell’agency

Benché non compaia nelle citazioni riportate, è una tematica che pervade tutti i testi menzionati e, come precedentemente accennato, viene usata a seconda degli autori, per descrivere strutture di dati, algoritmi, immagini… ora però dovrebbe essere più o meno chiaro quanto non faccia molta differenza. Resta invece meno chiaro che cosa intendano i singoli autori quando parlano di feticismo, e questa opacità è sena dubbio imputabile alla lunga e tortuosa storia del termine. C’è chi ne parla in termini economici, chi in termini psicologici, chi in termini culturali… e ogni denotazione riflette senza dubbio alcune delle più note speculazioni elaborate in relazione al concetto (Marx, Freud, Levi-Strauss, etc. etc.). Ora, è senza dubbio impensabile cercare di darne una definizione univoca, considerando inoltre la condizione particolare del concetto/oggetto che, come evidenzia l’antropologo William Pietz “non ha mai posseduto l’attualità sociale di un oggetto istituzionalmente definito nell’ambito di una specifica cultura o di uno specifico ordine sociale” per cui, in definitiva, il feticcio “deve essere inteso come non appartenente a nessun campo storico preciso se non quello della parola stessa” (W. Pietz, The Problem of the Fetish, Part I).

Tuttavia, è possibile isolare una componente nucleare che accomuna tutti i diversi usi del termine: l’atto feticista implicherebbe, in ogni sua dimensione, una sostanziale sopravvalutazione dell’oggetto. Si tratta, in nuce, di una questione di assegnazione di valore e di agentività: a un determinato oggetto, nel feticismo – sia esso psicanalitico, economico o “rituale” – vengono attribuite qualità a questo estraneo, e la capacità di agire indipendentemente dalla volontà umana. È singolare però, che già la nascita del termine, nel corso dell’incontro fra i mercanti portoghesi e le popolazioni africane nel XV secolo, indicizzi una sorta di fraintendimento. Le pratiche rituali e le “abilità” associate a determinati oggetti non corrispondevano – se non in minima parte – con quelle ipotizzate e poi proiettate dai mercanti europei sulle popolazioni indigene. Il feticcio, dunque, emerge come momento costituente di un incontro fra diversi codici – come apice della loro reciproca influenza. Come scrive Pietz:

Il feticcio […] resta una specificità del problema del valore sociale degli oggetti materiali così come si rivela in situazioni che costituiscono l’incontro fra sistemi sociali radicalmente eterogenei.

In questo modo dunque in concetto/oggetto diviene il fulcro dell’articolazione di credenze, strutture narrative e catene desideranti, fissate dal feticcio grazie alla sua capacità di

Ripetere il suo atto originario di formazione di un’identità di relazioni articolate fra determinati elementi altrimenti estranei.  

Questo incontro, secondo Pietz, corrisponderebbe a una sostanziale assenza di valore simbolico – data dall’incommensurabilità fra differenti sistemi valoriali – e, paradossalmente, proprio la sua “incodificabilità” porterebbe a un momento di espressione di valore assoluto. Il momento liminale di “fissazione” di un (nuovo) valore ha tuttavia una sorta di contro-effetto, ossia quello di dimostrare l’“arbitrarietà” – o la strutturazione non-oggettiva – di entrambi i sistemi nel momento del loro incontro. Come scrive Baudrillard in Per una critica dell’economia politica del segno:

il termine «feticismo» reca con sé una fatalità che fa sì che, in luogo di designare ciò che vuol dire (metalinguaggio sul pensiero magico), si rivolge surrettiziamente contro coloro che lo impiegano e designa per loro l’uso di un pensiero magico.

È precisamente in questo senso che Bruno Latour, descrivendo la relazione cognitiva fra modernità e tecnica parla di fatticci (factiches): oggetti prodotti secondo criteri “scientifici” quindi idealmente oggettivi a cui, tuttavia ci relazioniamo secondo modalità “pre-moderne”. Inoltre, la nozione di fatticcio, secondo Latour, evidenzia come anche i “fatti” siano elementi a loro volta fabbricati (come nel caso dei “dati” che sono in realtà prodotti e non rispecchiano alcuna realtà). In questo modo, specularmente, anche il soggetto diviene prodotto di una relazione, facendo sì che inizi a venire meno la distinzione fra esperiente ed esperienza (come evidenziato da Belting nel caso del rapporto fra le immagini, che non sono solo “rappresentazioni” ma elementi attivi della produzione di significato) e si inizi a scorgere una forma di agentività intrinseca agli oggetti. È in questa cornice teorica che per William Mitchell, teorico della cultura visuale, diviene possibile sostenere che “osservatori e immagini esistono in un campo di reciproco desiderio”.

«osservatori e immagini esistono in un campo di reciproco desiderio»

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Un frame da The Mitchells vs. the Machines (2021)

Ed è proprio Mitchell, nel suo What Do Pictures Want, a svolgere la complessa interrelazione fra le figure della virologia e del feticismo in seno alla cultura digitale/visuale. Secondo Mitchell le immagini – e tutto il loro portato – non sono oggetti di valutazione secondo criteri preesistenti, bensì luoghi della produzione del valore, secondo una complessa interrelazione fra osservatore e osservato, che influenza – come già evidenziato da Pettman e Bleting – il processo esperienziale stesso: “Se le immagini ci insegnano come desiderare, ci insegnano allo stesso tempo come vedere”.

È possibile, dunque, parlare del valore delle immagini come fossero entità evolutive o co-evolutive; semi-forme di vita (come i virus) che dipendono da altri organismi (noi) e non possono riprodursi senza la partecipazione umana.

In questo modo, la questione del valore diventa una questione di vitalità, una questione in sostanza di capacità riproduttiva. Capacità intrinseca all’oggetto in grado di modificare

il nostro modo di pensare, vedere e sognare. [Le immagini] ricalibrano i nostri ricordi e la nostra immaginazione, immettendo, nel mondo, nuovi criteri e nuove forme di immaginazione.

Così, se la figura della virologia rende conto dell’interazione e la progressiva indistinzione fra “criteri” o segni umani e digitali, la figura del feticismo indicizza l’emergere di un nuovo oggetto – o sistema – che porta in sé una modalità di produzione del valore secondo schemi “non-codificati”, filtrati, paradossalmente, dalle stesse immagini che questo produce. Il feticcio mercantile del XV secolo nasce dall’incontro traumatico con un sistema di segni estraneo, su cui viene proiettata un’immagine “scollata” dal suo oggetto, proprio perché questo si sottraeva alla comprensione, confondendo così proiezione e visione. Allo stesso modo, la circolazione digitale produce segni, immagini, codici e dati, e li veicola in un flusso che crea una nuova economia del valore, che viene però investita di “precomprensioni” che la deflettono e in tutta risposta creano le immagini che si suppone debbano descriverla.

È per questo che Scott e McKenzie Wark, nel loro Circulation and Its Discontents[DM20] , sostengono che la feticizzazione della rete – ossia la proiezione di strutture valoriali a essa estranea – non maschera una qualche profonda realtà, ma precisamente il processo della sua produzione, proprio perché si innesta in un momento in cui

Gli oggetti che abbiamo creato e di cui ci siamo serviti per i nostri scopi, d’un tratto iniziano a essere visti come forze a cui dobbiamo sottostare, esattamente quando iniziano a incarnare una nuova forma di legame sociale.

In sostanza, i nostri valori socioculturali e la dimensione algoritmica si dimostrano incommensurabili

non perché rappresentano diversi sistemi di valore sociale, ma perché ci pongono dinnanzi ai nostri limiti epistemologici.

Di conseguenza, concludono che la circolazione, le strutture di dati e le piattaforme non sono in realtà feticci ma “producono feticismo producendo la sua forma”.

Bucher, nel già citato Neither Black Nor Box, constata a sua volta questa forma di relazione feticistica nei confronti – nel caso da lei preso in esame – degli algoritmi. Tuttavia, acutamente constata che

Se [dobbiamo] evitare di “feticizzare gli algoritmi” […] allo stesso tempo non dovremmo accantonare troppo frettolosamente [la figura del] feticismo. […]. Il feticismo […] non offusca la visione ma la conduce altrove, a volte persino in posti in cui è possibile vedere in maniera più chiara.  

Così, prendendo atto della emergente indistinzione fra forme, immagini e processi, e del rapporto di circolarità che li lega alle loro “raffigurazioni”, è forse produttivo considerare le figure e i miti che accompagnano il digitale parte fondante nella loro analisi, e non semplice orpello narrativo. Spesso infatti, queste immagini derivative, condividono la stessa forma del processo che le produce e rendono così possibile ripiegare su se stesso il nostro sguardo e renderne forse meno oscuro il funzionamento.  



BIBLIOGRAFIA MINIMA

  • S. F. Anderson, Technologies of Vision. The War Between Data and Images, MIT Press 2017.
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  • S. e M. Wark, “Circulation and Its Discontents” in A. Bown e D. Bristow (Ed.), Post Memes: Seizing The Memes of Production, Punctum Books 2019.

In copertina: Neil Beloufa, “Global Agreement”, 2019, Veduta dell’installazione alla Schirn Kunsthalle Frankfurt