enrico robusti

Azzurro a righe d’oro – un racconto di Wolfdietrich Schnurre tradotto da Dario Borso

Vi proponiamo la traduzione inedita di un racconto di Wolfdietrich Schnurre (1920-1989), a cura di Dario Borso. Nella premessa a cura del traduttore viene brevemente raccontata la curiosa vicenda editoriale legata a questo racconto. Un ringraziamento è dovuto ad Arianna Bonino per aver curato i profili biografici e il rapporto con il traduttore.


Premessa

Nel 1959 la casa editrice Feltrinelli acquistò i diritti di Eine Rechnung, die nicht aufgeht, raccolta di tredici racconti di Wolfdietrich Schnurre uscita l’anno prima in Germania, e li fece tradurre da Amina Lezuo Pandolfi. Per uno di essi però Valerio Riva, ideatore della collana in cui uscivano, preferì sostituire la traduzione italiana con un rifacimento in dialetto. La raccolta Un conto che non torna uscì così nel giugno 1960 con una breve premessa al racconto “milanese”, anonima ma con ogni verosimiglianza di Riva stesso:

L’Editore italiano, di fronte alle particolari difficoltà che presentava la traduzione di alcuni racconti di Wolfdietrich Schnurre, ricchi di inflessioni e coloriture dialettali berlinesi, ha voluto fare il tentativo, per quanto ardito e opinabile, di dare una versione assolutamente dialettale, possibilmente scegliendo i mezzi espressivi in altre aree che non quelle ormai troppo saccheggiate del romanesco e del napoletano. Per questo l’Editore italiano si è rivolto al prof. Dante Isella, apprezzato cultore di studi portiani, chiedendogli di travestire uno dei racconti nel milanese di quella tradizione letteraria che è a lui familiare. Isella l’ha fatto, assai gentilmente e finemente, con un risultato che ha divertito editore e traduttore e divertirà, forse, anche i lettori. Ma non va imprestata all’iniziativa nessuna intenzione di polemica culturale; e deve essere del resto apertamente dichiarato che questa traduzione milanese non pretende in alcun modo di inserirsi nell’ormai esagerata polemica sui rapporti lingua-dialetto. Scopo precipuo dell’Editore era di dare una versione più cospicua e gustosa di un testo originariamente pieno di sali e di umori. E del resto una moglie può essere uccisa con uguale soddisfazione tanto a Berlino quanto alla periferia di Milano.

Nella speranza di accrescere ulteriormente il divertimento, in aggiunta al travestimento iselliano, vi propongo di seguito la mia traduzione in italiano del racconto.

Dario Borso

Scarica la versione originale in tedesco e la traduzione in dialetto milanese


Azzurro a righe d’oro

di Wolfdietrich Schnurre

“Un altro”, disse Rob.

L’oste versò.

“Tempi magri, Hannes.”

“Caro mio”, disse l’oste, “se non ci foste voi…”

“Cronisti di nera sono niente; gli avvocati dovresti avere.”

“Prova te, con una licenza di mescita e basta. Quelli vogliono sempre qualcosa da mangiare.”

“La mensa dovevi accaparrarti, Hannes.”

“None. Ogni giorno in tribunale, finisci intontito. Allora meglio il bar qui.”

“Ancora”, disse Rob. “Hai detto proprio bar?”

La porta girevole cigolò. L’oste guardò nello specchio dietro il banco.

“Ciao, Rob”, disse Fries.

“Come va?” chiese Burkner.

“Deve andare”, Rob si accese una sigaretta.

“Un altro, Hannes.”

“Anche a me”, disse Fries.

“Idem”, disse Burkner.

“Subito.” L’oste versò. “Forza, gente.” Bevvero.

“Senti”, disse Fries; “ma la storia del Butgereit, com’è finita?”

“Finita”, disse Rob.

“Omicidio per rapina?”

“Omicidio doloso”, disse Fries. “Fatta fuori la vecchia.”

“Un altro.” Rob allungò all’oste il bicchiere.

L’oste versò. “Su, racconta.”

“Butgereit è un dilettante,” disse Rob. “In più anche un po’ grullo.”

“Come lo sai?”, chiese Fries.

“Avrebbe sennò combinato il guaio della tappezzeria?”

“Alt”, disse l’oste; “di cosa?”

“Non ci senti?” disse Burkner; “della tappezzeria.”

“Comico” disse Fries; “non ne hai scritto niente.”

“A che pro?”, disse Robi. “Tanto non ti credono.”

“Su, “disse l’oste, “racconta.”

“C’è poco da raccontare. Una volta infilata sotto il letto, dice, è andato al cinema. Poi ha dormito ventiquattro ore.”

“E poi?”, chiese Fries.

Robi scrollò le spalle. “Bene, allora seguitemi. Una sera giunge un uomo nel laboratorio del tappezziere Krause. Buondì, disse, vorrei una bella carta da parati. Ne ha di azzurra a righe d’oro?

Il tappezziere Krause gli mostra i campioni.

Ecco, dice l’uomo già subito al primo, prendo questo. Quando viene?

Krause ci pensa su. Domattina.

None, dice l’uomo, non se ne parla nemmeno. Faccia il doppio e inizi subito.

Sciroccato, pensa Krause. Soppesa l’uomo. Uno che vive di rendita, scommette; vincita al lotto o sciroccato. Può esserci dietro anche una donna. Mah, me ne infischio. Importante è la grana. Bene, dice, dia un acconto e affare fatto.

L’uomo estrae il portafoglio.

Eh no, pensa Krause, il lotto è escluso; troppo sottile. Dunque sciroccato.

Ecco, dice l’uomo. Quando arriva?

Mezz’ora. Mescolo solo la colla.

Appena l’uomo è fuori, Krause si accorge che ha dimenticato di chiedergli dove abita. Ehi, gli grida dietro, l’indirizzo!

Perché? chiede l’altro.

Prego, pensa Krause, che ho detto? Beh, signore, penso di dover venire, no?

Ah già. Dunque Badstrasse 9. Cortile; secondo piano.

Nome –?

Cosa –? ah, Butgereit.

Butgereit, pensa Krause; se domani è sul giornale che un Butergeit si è buttato a culo nudo dal campanile, sarà lui.

Krause torna in laboratorio e rimescola la sua colla. Poi fa lo zaino, appende il secchio al manubrio e salta in bicicletta.

Mezz’ora dopo è lì che lega la sua bici nel cortile, Badstrasse 9. Sì, secondo piano a sinistra vive Butgereit. Dietro la porta si ode grattare e raschiare, e uno che pure ci fischia su. Krause suona.

Momento! grida dentro qualcuno. Viene spostata una sedia, poi biascicato qualcosa allo spioncino. Cosa vuole?

Santiddio, pensa Krause. Ma sono io, dice, il tappezziere.

La porta viene aperta, e Butgereit è lì, ammiccante, maniche di camicia e un cappellino di carta in testa. Dietro di lui Krause vede il corridoio intasato e a sinistra in fondo un pezzo di cucina illuminata.

Venga, dice Butgereit, ho già iniziato.  –

Dal corridoio raggiungono la cucina. Lì Krause posa il secchio di colla sulla stufa crepitante e si toglie lo zaino.

Ha lavorato proprio bene, dice ed esamina la parete. La vecchia carta da parati sta in brandelli sull’assito.

No? dice Butgereit. Alza il cappello dalla fronte e si lascia cadere su una sedia. Deve capire, tutta una vita la stessa tappezzeria – proprio no.

Krause disfa il suo zaino, mescola nel secchio e si guarda attorno. Il letto, avrebbe fatto meglio a tirarlo via.

Il letto resta lì, dice Butgereit. Si alza e mette un bricco d’acqua sul fuoco.

Mah, pensa Krause, secondo me –, anche di una sedia ho bisogno.

Butgereit ne va a prendere una in corridoio. Ho messo su l’acqua per il caffè.

Buona idea, dice Krause. Si toglie la giacca e sputa nelle mani. Allora su, eh!

Butgereit si è riseduto. Fischia piano e batte il tempo col piede; un buontempone.

Krause sale sulla sedia e comincia a sfregare: un caffè non è mai sbagliato.

Vero, no? Butgereit, mani in tasca, si avvicina lentamente al letto; poi si ferma e spinge via qualcosa col piede.

Krause ha guardato e si sente male; non può giurarci, ma se non ha preso un abbaglio, era proprio una mano. Di colpo s’ingarbuglia nel lavoro.

Incredibile quanto ci sa fare, gli dice dietro Butgereit. Krause è muto. Sgobba come un pazzo; vuole andar via, il sudore gli imperla la fronte.

Quand’ecco suonano. Butgereit esce. Krause giù dalla sedia e zac al letto. Tasta lì sotto. Sente un sacco, un pacco o qualcosa del genere –; tira, ed ecco dal pacco cade giù qualcosa. Krause solleva la sovracoperta del letto, e quella è una mano; veramente: una mano attaccata a un braccio, il braccio dentro il pacco.

Fuori la porta chiude. Zacchete, e Krause è di nuovo sulla sua sedia.

Ragazzo mio, dice Butgereit il naso nel giornale, ne fanno di fesserie.

Novità? domanda Krause.

Nonò. Butgereit si tira la sedia accanto al fornello e sfoglia. Sempre lo stesso; si beccano l’un l’altro che è un piacere.

Stupidi sono, dice Krause, senza interrompere il suo lavoro. Dovrebbero metterli al muro i guerrafondai, e fine. Si raschia la gola; è diventato un po’ più rauco, il buonuomo.

Butgereit annuisce: Proprio così.

Krause intanto stabilisce il nuovo record di tappezzeria; ha già rivestito mezza stanza; adesso è accanto al letto.

Butgereit si è infilato il giornale sottobraccio e versa il caffè.

Eh, dice e schiocca, senta che profumino!

Krause esita. Che si fa col letto?

Lasciar perdere, dice Butgereit. Va a prendere panini, burro e una bottiglia di cognac mezza piena dalla credenza. Si dondola sui fianchi e canticchia a bocca chiusa; passando tambureggia con la mano sulla parete appena tappezzata. Cosa non fa una tappezzeria nuova!

Eh già, dice Krause, anche se invero si è prefisso di non dire più niente.

Butgereit si siede e si accende una sigaretta. Una anche lei?

Nonò, Krause non vuole, lui lavora. Fuori di qui, caro mio; dacci dentro.

Butgereit tace per un po’. Fantastica sonnolento dietro al fumo. Senti solo lo sbattere del pennello, e da qualche parte echeggia una radio nel condominio.

Se Krause si fosse girato, avrebbe potuto vedere Butgereit sorridere.

Azzurro e oro mi sono piaciuti fin da piccolo, dice Butgereit finalmente.

In effetti è bello, gracchia Krause. Strizza gli occhi, il sudore gli cola giù.

Una volta da giovane avevo un teatro dei burattini, dice Butgereit. C’era un re che portava un mantello azzurro con stelle d’oro.

Krause tossisce. Sposta la sedia cerimoniosamente. Così; adesso ancora l’ultimo quarto, ed è fatta. Già si agita di nuovo.

Qua, dice Butgereit e solleva un brandello della vecchia carta da parati e lo tiene contro la nuova: Dica lei – non c’è proprio confronto.

Già, dice Krause, che non ha idea di cosa intenda, neanche l’ombra.

Una volta ero a Monaco, dice Butgereit; per affari. In un locale, ecco entrare una ballerina; nuda; solo un velo azzurro a strisce d’oro aveva intorno.

Mhm, fa Krause; ha giusto finito. Fuori; fuori subito di qui, uomo; fallo.

Butgereit pesca la bottiglia sotto la sedia e manda giù un sorso. Poi si asciuga la bocca. Si fallisce così tanto nella vita – una volta o l’altra deve pur riuscire qualcosa, no?

Questo è vero. Krause è improvvisamente di buon umore, si vede sulla bicicletta.

Qua –, dice Butgereit e gli passa la bottiglia.

Non male. Krause si lecca le labbra. Forse avrebbe dovuto sposarsi, dice e ripassa l’ultima porzione di muro.

Butgereit tiene in bocca il cognac; si scuote e butta giù. Forse avrei dovuto non sposarmi.

Allora è sua moglie, pensa Krause; Diomio. Cominciano a tremargli le ginocchia. Se quando ha conosciuto sua moglie indossava una camicia a quadri lilla, dice Butgereit e ingurgita un altro sorso, allora nel suo matrimonio deve sempre indossare una camicia a quadri lilla.

Gorgoglia nuovamente alle spalle di Krause. Costui passa forte col palmo di una mano l’ultimo metro quadro. Così, allora dice, scende dalla sedia, va al rubinetto e si lava chiassosamente; soddisfatto –? Butgereit fissa assente il soffitto.

Mollalo, pensa Krause; l’importante è aver finito. E raccatta tutto.

Chiaro, dice Butgereit allora. Si alza. Eccome. Così; e adesso finalmente ci beviamo tranquilli il caffè.

Mi spiace. A Krause ritremano improvvisamente le ginocchia; deve fare una fatica boia a non guardar di sottecchi il letto. No, davvero, dice precipitoso, non posso.

Bene, dice Butgereit; allora niente.

Ecco il conto, dice Krause con voce roca. Più due ore e mezza di manodopera a tre marchi, sono diciotto e cinquanta. Può pagare subito o passare da me.

Butgereit preferisce passare. Qua, dice, ne beva almeno un goccio.

Salute, dice Krause.

Poi Butgereit lo conduce alla porta.

Grazie tante, dice Krause a voce troppo alta.

Ma no, dice Butgereit, sono io che ho da ringraziare. Guarda indietro sorridendo alla cucina appena tappezzata: azzurro e oro – nonò, non può credere quanto l’ho sempre desiderato.

Quando si gira, Krause è già oltre il pianerottolo.

Butgereit si sporge dalla ringhiera. Grazie mille ancora! grida.

Krause non risponde. Butgereit lo sente armeggiare alla sua bici. Allora no, madonnina. Canticchiando Butgereit torna dentro.”

“Non male”, disse Burkner. “Versacene un altro, Hannes. E il tizio là, il Krause, naturalmente sarà corso con la sua fifa alla polizia.”

“Chiaro. Sai cos’ha dichiarato?”

“None.”

“Puzzava, signor giudice, proprio come la volta che avevano esposto il feretro di mia nonna; così – così dolciastro; come una vecchia torta cosparsa di polvere tarmicida.”

“Vero”, annuì Burkner.

“Che stupido”, disse Fries; “in un vano riscaldato –!”

“Dunque, questo non capisco”, disse l’oste; “come mai non l’ha sotterrata.”

“Posso dirtelo con precisione”, disse Rob. “L’ha dimenticata.”

“Altolà”, disse l’oste; “l’ha –?”

“Sì”, disse Rob. “Quando il tappezziere iniziò, ha dichiarato, allora mi tornò in mente un attimo, signor procuratore.

Come, dice il procuratore; questo proprio non lo comprendo; come pensa di motivarlo?

Dio –, dice Butgereit, ero così lieto dopo, che l’ho letteralmente dimenticata.”

“Ripeti”, disse l’oste; “cos’era dopo –?”

“Lieto”, disse Burkner; “ci senti poco?”

trad. di Dario Borso


Profili biografici

(a cura di Arianna Bonino)

Poco noto in Italia, Wolfdietrich Schnurre è uno scrittore molto apprezzato all'estero per i suoi racconti. Nato a Francoforte nel 1920, non ha fatto studi se non quelli primari. Fu imprigionato per diserzione, ma riuscì a fuggire dal campo di prigionia. Catturato e incarcerato per un breve periodo dalle truppe britanniche, fu poi rilasciato. Iniziò a scrivere con costanza dal suo rientro in Germania, nel 1946. Morì a Kiel nel 1989. La guerra e soprattutto il tema della colpa sono centrali nella sua opera. È un autore spesso ricondotto alla cosiddetta "letteratura delle macerie" (autori tedeschi, non di rado ex soldati, che si ponevano l'obiettivo di ricostituire un senso della letteratura postbellica). Schnurre ha ricevuto diversi premi, tra cui l'Immerman Preis nel 1959, il Bundesverdienstkreuz nel 1981 e il Premio Georg Büchner nel 1983. In italiano esiste solo una raccolta di racconti edita da Feltrinelli nel 1960, intitolata Un conto che non torna.
Dario Borso è nato a Carigliano nel 1949. Ha insegnato Storia della filosofia alla Statale di Milano e Estetica alla Facoltà di Architettura del Politecnico. Traduttore e scrittore, è noto in particolare per le curatele di Celan, Schmidt e Kierkegaard. Recentemente ha curato la pubblicazione dell'antologia di poesie di Georg Trakl Quaranta poesie, per Giometti & Antonello, e opere di Jean Paul e Claire Goll. Ha pubblicato diversi saggi come cultore di storia contemporanea, ed è autore dei romanzi Tre quadernetti indiani e Ostaggi d’Italia (Exòrma). Ha pubblicato il saggio Celan in Italia per Prospero Editore. 



In copertina © Enrico Robusti