Critica e non – Intervista a Mark Bould | Anteprima

Questo articolo è un’anteprima da L’eruzione del Monte Tambora del 1816 e non – Intervista a Mark Bould, curata da Marta Olivi per il nuovo numero cartaceo di lay0ut magazine, Sono hackeratə (Industria&Letteratura), in prevendita sul sito nostro temporary shop fino al 7 luglio, data della presentazione a Milano. L’illustrazione in copertina, completamente inedita, è di Claudia Cerulo.


L’Antropocene inconscio (Giulio Perrone, 2022) è un libro sull’Antropocene ma soprattutto sulla cultura transmediale sviluppatasi al tempo della crisi climatica; è un libro di critica letteraria ma anche di metodo, di letteratura “alta” (cioè canonica) e di cinema “trash”, di fantascienza di genere e di cinema d’essai, di ipercontemporaneità e di Novecento, di 2001: Odissea nello spazio e delle opere di Jane Austen. Un libro che tiene insieme gli opposti, che prende le dicotomie e le fa esplodere, che mentre parla di qualsiasi cosa non può non parlare anche di contesto e di percezione, esattamente come la cultura, oggi, non può non parlare di cambiamento climatico. Una vastità che affiora alla lettura ma che mi è soprattutto esplosa addosso mentre lavoravo al libro. Per capirne di più, ho chiesto direttamente a Mark Bould. 

Marta Olivi: Quando in L’Antropocene inconscio suggerisci che ogni lettore e spettatore può mettersi alla ricerca del mondo inconscio di un testo – che si tratti di un inconscio politico, un inconscio queer, oppure dell’Antropocene inconscio, appunto – emerge naturalmente un’idea che mi sembra fondamentale: che si possa e si debba immaginare una critica diversa, democratica, militante, rivoluzionaria, prima di tutto extra-accademica. 

Mark Bould: Esiste già un mondo intero di critica extra-accademica: i bookclub, Goodreads, Letterboxd, i commenti degli utenti di imdb, anche solo chi parla di un film appena visto di fronte a un caffè o una birra. Forse non si tratta di critica nel modo in cui il mondo accademico o le riviste letterarie la intendono, è comunque però critica. Le persone reagiscono ai testi in modi vari e complessi, compresa la dimensione inconscia, e questo vale anche se non hanno letto Pierre Macherey o Fredric Jameson. 

Prendiamo il caso di tutto il fandom che si struttura attorno alla fantascienza: c’è una storia lunghissima di critica extra-accademica in quell’ambito, e tanta è di alto livello, intelligente e stimolante. Pur attingendo ai modelli e alle risorse critiche umanistiche, nel complesso li rigetta, anche perché espressione di un potere istituzionalizzato, bisogna riconoscerlo.
Noi accademici dovremmo trattare questa critica “laica” con cura. Anche se gran parte del lavoro critico non ci sembrerà rilevante, o magari ci sembrerà perfino robaccia, vale lo stesso per ciò che sentiamo in università. Quante volte durante i panel accademici i contributi risultano veramente deboli! Però raramente lo si dice durante il dibattito finale, forse per una forma di educazione e perché il lavoro (e la vita) sono cose difficili; ma spesso perché nell’accademia è radicato un certo tipo di potere elitario – impersonato da professori anziani, uomini, bianchi perlopiù – per cui è molto complesso esprimere disaccordo, mettere e mettersi in discussione. Si ha troppo rispetto di questo tipo di critica, poco di quella fuori dall’università. 

MO: Certo, sono d’accordo.

MB: Gli accademici sono intellettuali pubblici, confrontarci con questi mondi più ampi è parte della nostra responsabilità. Il che significa che è nostra responsabilità scrivere e parlare in altri tipi di spazi, imparare voci diverse, capire pubblici diversi. Ti faccio un esempio, ti racconto cosa ho fatto questa settimana: oltre a fare il solito mucchio di burocrazia, ho tenuto una conferenza, preparato lezioni, corretto i paper dei miei alunni, e fatto da peer-reviewer per un articolo, ma sono anche stato ospite di una puntata di un podcast sul fantasy in cui abbiamo parlato di Free Guy (2021), ho scritto un articolo per il blog di Verso Books in occasione dell’Earth Day riguardo il sabotaggio delle infrastrutture per i combustibili fossili, ho proposto alla Los Angeles Review of Books una recensione del nuovo “anti-memoir” di M. John Harrison, e mi sono offerto volontario per presentare un vecchio e sconosciutissimo film di Norman J. Warren a un festival – e poi ho fatto questa intervista con te (ma non tutte le mie settimane sono così impegnative). Nessuna di queste “altre cose” fa parte del mio lavoro universitario, e l’università non le apprezza, non le ricompensa e non le rispetta – ma non dovrebbe essere così.

Quando le università britanniche parlano di cose come questa – le chiamano “trasferimento di conoscenze” o “scambio di conoscenze” [l’equivalente della nostra “terza missione”, ndr] – hanno come unico obiettivo il fare rete con il mondo del lavoro e dell’industria, cercando di assicurarsi delle entrate aggiuntive. Il che può aver senso per alcune discipline, credo, ma è una visione veramente ristretta del ruolo che potremmo e dovremmo svolgere nella vita sociale, culturale e politica delle città in cui le nostre università hanno sede. Le università e chi ci lavora sono una parte importante delle economie locali e regionali, ma non siamo solo questo, e anzi potremmo essere molto di più di questo.

MO: Verissimo, ma non tutti gli accademici sono interessati a ciò che succede fuori. 

MB: Non fraintendermi, alcuni di loro non dovrebbero nemmeno essere autorizzati ad avvicinarsi a un pubblico extra-universitario [ride].

MO: Hai ragione [ride]. Ti faccio un’ulteriore domanda: cosa pensi dello stato di salute di questo tipo di critica “laica” quando viene messa in pratica? Anche se sicuramente la situazione nel Regno Unito è diversa rispetto all’Italia… 

MB: La critica laica spesso fatica ad andare oltre il modello delle “4 stelle su 5”, per così dire, perché la gente tende a prediligerlo, come si trattasse di consigli per gli acquisti. E piattaforme come Letterboxd aggravano il problema per il modo in cui l’algoritmo dà maggiore visibilità alle recensioni postate per prime, il che spinge alla velocità. Ma la critica richiede tempo.
Alcuni ambiti di questa critica extra-accademica sono davvero in forma. Per esempio, negli ultimi venti anni c’è stato un gigantesco cambiamento nella cultura della sf [science fiction, ndr], con la promozione e la celebrazione dell’Afrofuturismo, dell’Africanfuturism, dell’Indigenous Futurism, del Latinx Futurism, dell’Asian futurism, della sf femminista, queer, trans, o ancora sf scritta da persone con disabilità, o con personaggi con disabilità, e così via. E questo impulso è venuto molto di più dalla critica laica e dall’impegno politico dei fan, tramite crowdfunding, o il supporto a piccole case editrici, e cose così, che non da quello che abbiamo fatto noi accademici. Questo costante e stabile cambiamento di ciò che viene messo in evidenza nella valutazione della narrativa è anche il motivo per cui abbiamo vinto (per ora) le “guerre culturali” della sf. Quando i Sad Puppies e i Rabid Puppies hanno cercato di manipolare i premi Hugo [i premi più importanti al mondo dedicati a lavori di fantascienza e fantasy, ndr] per propagandare la loro visione della sf come una robaccia tech di destra, misogina, suprematista bianca e omofoba, sono stati sonoramente sconfitti. E questo è in gran parte dovuto a una cultura globale dei fan della sf che incorpora la critica laica come parte di ciò che fa, come parte del modo in cui si concepisce. Non si tratta solo di leggere i libri, per loro. Si tratta di pensarci su, e di parlarne. Ed è uno degli ambiti in cui trovo un enorme potenziale di speranza per quella che hai definito “critica democratica”.

MO: Sì, mi sembra qualcosa di veramente importante, un modello da seguire anche all’interno del mondo accademico.

MB: Certamente: il punto non è solo interpretare il mondo, ma provare a cambiarlo!



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