Roland Barthes

“In realtà ciò che faccio non ha nome”, due articoli inediti di Roland Barthes

Insomma, non capita tutti i giorni di avere fra le mani un nuovo Roland Barthes. Da groupie quale siamo, quale qualsiasi lettore di Barthes – inevitabilmente – è, non avremmo potuto non averlo. Cos’è uno scandalo. Scritti inediti 1933-1980. Testi su se stesso, l’arte, la scrittura e la società è pubblicato dall’orma, editore all’avanguardia nelle traduzioni, su tutto, dal francese (pensiamo alla pubblicazione quasi completa di Annie Ernaux) e dal tedesco.

In questa antologia sono raccolti scritti in maggioranza del tutto inediti in Italia (qualcuno invece inedito in volume): dal primo articolo di Barthes, ai tempi del Ginnasio, fino agli elzeviri dell’autore ormai famoso in Europa e nel mondo.

L’orma ci ha concesso di pubblicare, in esclusiva, due testi scelti da noi, che in qualche modo ripetano le anime di lay0ut, i “discorsi” e le “figure”, tutto all’insegna, come è ovvio, della traduzione: I tre dialoghi, uscito nel Menabò del 1964, cercano una veloce ma ispirata critica dell’ideologia della comunicazione; il secondo, Il grado zero della colorazione, del 1978, in cui Barthes confessa, sottotraccia, la passione per il “conforto artigianale” del colore, del disegno.


I tre dialoghi

C’è un’utopia che consiste nell’immaginare il dialogo come il puro incontro di due buone volontà; è un’utopia liberale, e cioè transazionale: si considera la parola come una mercanzia suscettibile di accrescimento, di diminuzione o persino di distruzione, offerta al contratto e alla competizione. C’è una malafede del dialogo, che consiste nel sublimare, dietro l’apparenza di un atteggiamento «aperto», la segreta e inflessibile volontà di restare se stessi mentre l’altro concede e si scompone. C’è una realtà del dialogo che lo riduce al protocollo di una certa solitudine. Ma questo protocollo non è indifferente, ha il suo significato rispetto al mondo, nel mondo: ci sono stati grandi (e falsi) dialoghi, dotati, per la loro stessa forma, di un significato storico profondo. È il caso, per esempio, della disputa scolastica, dove si tratta di sconfiggere il nemico in una competizione di parole. Tuttavia, siccome la prova del linguaggio è solo formale, e siccome un buon linguaggio è un linguaggio valido, e non necessariamente un linguaggio vero, ne risulta che la disputa scolastica è possibile solo all’interno di certe regole: le regole sono necessarie al conflitto perché non esiste per il linguaggio una prova naturale, la legge del più forte si trasforma fatalmente in legge del più artista (nell’accezione antica, per cui l’arte era una tecnica di composizione). Polverizzare l’avversario: questo progetto radicale è dunque una condotta un po’ relativa, sottomessa al più fragile dei vincoli, quello di un «genere», e alla più umana delle istituzioni, quella di una «assemblea». Ciò rende il dialogo scolastico uno spettacolo fortemente codificato, analogo a un incontro di catch, perché ciò che conta, in un caso come nell’altro, non è l’indebolimento strategico dell’avversario, la dissoluzione progressiva dei suoi argomenti – che porterebbe il nemico a perire sotto la somma di tutti i colpi subiti –, ma solo il conteggio degli spezzoni di combattimento in cui si è saputo sfruttare le regole meglio di lui. È nata così un’arte, quella dell’ultima parola (il suo modello è chiaramente genitoriale). Quest’arte è quella della tragedia, forma teatrale per eccellenza, in cui è proprio il possesso dell’ultima replica a consacrare uno dei due oratori in eroe, fenomeno a cui Kierkegaard opponeva il silenzio del cavaliere della fede come rifiuto del linguaggio, quindi del generale. Un altro dialogo, di distanze e non più di aggressione, è il dialogo platonico. Alexandre Koyré, in un libro recente[1], mostra che, instaurando un dialogo, Socrate non mira affatto a convincere il suo interlocutore, e neppure il lettore, poiché la materia del dialogo non è direttamente la dottrina socratica. Socrate vuole parlare a chi pensa male, in modo da mostrare allo spettatore che cos’è il mal pensare; non dialoga con Menone per partorire Menone (nel qual caso i dialoghi platonici sarebbero quasi tutti fallimenti), ma per rendere manifesto all’uditorio invisibile che noi siamo ciò che, precisamente, non è e non sarà mai manifesto a Menone: noi udiamo quel che Menone non ode, ma lo udiamo solo in proporzione diretta alla sua sordità. Questo falso dialogo (se Koyré ha ragione) corrisponde in pieno al progetto di Brecht in un’opera come Madre Coraggio: Madre Coraggio è cieca di fonte al mercantilismo della guerra (di cui vive e soffre al tempo stesso), ma a esserci mostrate non sono tanto le cause (mercantili) della guerra, quanto l’accecamento stesso di Madre Coraggio.

Vedere un cieco, vedere attraverso il cieco quello che egli non vede, vedere il non-vedere, udire il non-udire, percepire una cosa come inesistente per l’altro: è probabilmente questa la forma più elevata di arte critica. Ma è, per l’appunto, un’arte: la riduzione fantasmatica dell’altro, che sia un morto come Menone o un ruolo teatrale come Madre Coraggio. Un altro progetto oscuro, un altro dialogo più paradossale ancora è possibile: potremmo chiamare questo terzo dialogo un dialogo amebeo, perché consiste nel far alternare parole fatalmente indipendenti, ma legate tra loro da una forma generale, ossia da regole di successione (la lunghezza eguale delle strofe nella bucolica, la concatenazione per echi in casi purissimi di conversazione popolare). Il dialogo amebeo tende allo spettacolo, ma invece di orientarlo e fissarlo sull’altro, in modo da rendere manifesta la sua inferiorità o la sua distanza, accetta di estenderlo a tutte le parole coinvolte.

Ognuno vi gioca la propria partita, coltiva con ostinazione il proprio linguaggio, ma al tempo stesso si riconosce, e si intende, anche, come frammento di un senso a venire; dialogare significa allora pensarsi come elemento mobile di un discorso composito, il cui senso finale è l’effetto di una pura combinatoria. Le strofe dell’uno e dell’altro non sono il luogo di una mediazione, non partecipano, attraverso il proprio contenuto, a un senso generale che deriverebbe dalle persuasioni o concessioni successive; l’egloga ne ha tuttavia uno, che è stato reso possibile solo in quanto ogni messaggio si accetta come elemento formale di un concorso. Le defezioni del dialogo sono irrimediabili, appartengono alla natura stessa del linguaggio, perché quest’ultimo non è mai una potenza dialettica, non può formare, ma soltanto combinare: possiamo dire e successivamente no, ma mai e no insieme: non esiste nessuna praxis del linguaggio, e non c’è quindi dialogo, perlomeno nel senso utopico che viene abitualmente attribuito a questo termine. Ciò che invece resta possibile, che può essere tentato, è costruire insieme ad altri lo spettacolo di una parola il cui senso finale sia affidato, come ancora non è mai successo, a chi lo riceve.

[«Il Menabò», n. 7, 1964]


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Il grado zero della colorazione

Di quando in quando mi piace… ma qui comincia la difficoltà: disegnare? dipingere? tratteggiare? In realtà ciò che faccio non ha nome: è piuttosto qualcosa di ascrivibile all’ordine della colorazione, del graffito. Non penso sia un sottoprodotto, ma un prodotto laterale, derivato, sebbene resti subordinato, nel bene e nel male, a valori culturali che ho ereditato, senza pensarci, da tutte le pitture o scritture che ho visto. Mi piace produrre di per sé, ma anche poter guardare il prodotto con piacere: ne è prova che se non lo considero riuscito lo getto. Questo mio operare in perdita mantiene dunque, malgrado tutto, una sorta di finalità estetica. Senza illusioni, ma con allegria, gioco a fare l’artista. Questa pratica amatoriale ha varie motivazioni: forse il sogno di essere un artista completo, pittore e scrittore, come certi uomini del Rinascimento; forse il desiderio di ampliare l’attività del mio corpo, di «cambiare mano» (anche se è sempre la destra); forse la necessità di esprimere un po’ delle pulsioni contenute in questo corpo (si dice che il colore rappresenti, in qualche maniera, la pulsione); forse, al contrario, il piacere di una specie di conforto artigianale (disporre i propri pastelli, inchiostri, pennelli e fogli sul tavolo da lavoro); forse, ancora, il sollievo (la quiete) di poter creare qualcosa che non sia preso direttamente nella trappola del linguaggio, nella responsabilità fatalmente legata a ogni frase: una forma d’innocenza, insomma, da cui la scrittura mi esclude.

[«Les Nouvelles littéraires», 30 marzo 1978]

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[1] A. Koyré, Introduction à la lecture de Platon, Gallimard, Parigi 1962.

In corpo all’articolo: disegni di Roland Barthes, dalla mostra sui Frammenti di un discorso amoroso (qui il bell’articolo di Doppiozero a riguardo).


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