Buzzati

Dino Buzzati: la poesia fatta a pezzi

In occasione del 50° anniversario della morte di Dino Buzzati (1906-1972), pubblichiamo un articolo che indaga un aspetto tra i meno conosciuti della sua produzione letteraria: la poesia. Ad oggi, non è possibile attingere all’intero corpus delle poesie di Dino Buzzati: l’unico libro che le raccoglie tutte è uscito nel 1982 per Neri Pozza, ma oggi è letteralmente introvabile e non ci risulta che chi ne detiene i diritti intenda ristamparlo. Nel Meridiano di Buzzati si trovano i tre poemetti più famosi: Il capitano Pic; Scusi, Da che parte per Piazza del duomo?; e Tre colpi alla porta, ma è una selezione limitata. L’articolo in questione non è ovviamente esaustivo, ma è un invito a iniziare l’approfondimento della poetica di Dino Buzzati partendo dai racconti, di cui è stato maestro.


Uno dei libri meno conosciuti ma più rivelatori di Dino Buzzati è Egregio signore, siamo spiacenti di…, uscito nel 1960 con illustrazioni di Sinè. Si tratta principalmente di una raccolta di pensieri ed elzeviri, ma sono presenti anche alcune poesie che sono utili a ricostruire l’identità di Buzzati poeta e lettore di poesia. Particolarmente efficace è il fulminante racconto Documenti da distruggere, che appare solamente nella seconda edizione del libro, dal titolo più minimale Siamo spiacenti di. 

Il testo ci catapulta in medias res: il protagonista, con l’intenzione di fare pulizia nello studio, decide di sminuzzare un pacco di carta straccia. Di che cosa si tratta? «Lettere d’amore? Fotografie lubriche? Poesie giovanili? Carte di sette segrete?». Non è importante. Dopo aver realizzato che è improponibile bruciarle o buttarle nella spazzatura, il protagonista decide di rovesciarle nella latrina e di tirare l’acqua. Poco dopo appare la moglie sulla porta dello studio e, affannosamente, chiede: «Sei tu che hai gettato…sei tu vero? […] Sono venuti su gli operai, devono rompere il muro, il tubo è rimasto intoppato, dicono che…»

Il meccanismo retorico del troncamento, come quello dell'ellissi, è spesso utilizzato da Buzzati nella prosa e nella poesia e produce un efficace effetto di climax ostruita: la tensione narrativa si innalza bruscamente, il lettore inizia a intuire che Buzzati sta attribuendo a quei pezzettini di carta straccia di crepuscolare memoria un’importanza sproporzionata fino ad allora insospettabile. Il protagonista del racconto, in preda a un’ansia feroce (descritta con l'incalzante ripetizione della domanda: «Cosa? Cosa? Cosa?»), in realtà già presagisce l’ineluttabilità dell’accaduto. Siamo spiacenti di: il titolo stesso del libro già ne svela il fil rouge, e infatti la moglie è messaggera di disgrazie (come spesso accade nella letteratura buzzatiana): gli operai hanno trovato nei tubi «della carne, dicono, dei visceri. Una ragazzina tagliata a pezzi…»
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Dino Buzzati, Eura (in Poema a fumetti, 1969)
Il divario tra l’insignificante azione del protagonista e la natura grottesca dell’epilogo non è privo di senso o gratuito: Buzzati, in queste poche righe, condensa in maniera forte il suo pensiero sulla scrittura e, più precisamente, sulla parola poetica. Le pagine accumulate, scritte su fogli, foglietti, dimenticate, prive di interesse o di utilità, sembrano avere un valore ontologico a priori che non è riducibile al peso che, arbitrariamente, lo scrittore vi attribuisce. Seppure in modo completamente diverso, questo errore di calcolo è rappresentato anche nel famoso racconto intitolato I topi, apparso originariamente nella raccolta Il crollo della Baliverna (1954) e, successivamente nei Sessanta racconti (1958) e ne La Boutique del mistero (1968).

La famiglia Corio da sempre ignora i rumori inquietanti che vengono dalla soffitta, piena di mobili vecchi e casse polverose. Sono i topi, comunissimi inquilini di stanze buie e umide: la famiglia ha persino adottato anche due gatti «magnifici, dotati di straordinaria animazione» che, dopo un anno di caccia, sono ridotti a due animali «cascanti, smorti, magri». L’ospite, protagonista e narratore del racconto, viene invitato con cadenza annuale in casa Corio e, ogni volta, nota che i rumori si fanno sempre più forti («Accidenti che cavalleria!»). I Corio minimizzano, cambiano discorso ma, negli anni, capiscono che la situazione sta diventando ingestibile. Vi è tuttavia, in tale presa di coscienza, l'arrendevole consapevolezza della sconfitta, una rassegnazione che culminerà poi nella terrificante capitolazione finale: 

Un contadino che si è avvicinato […] dice di aver intravisto la signora Elena Corio […]. Era in cucina, accanto al fuoco, vestita come una pezzente; e rimestava in un immenso calderone, mentre intorno grappoli fetidi di topi la incitavano, avidi di cibo.

Come la famiglia Corio ha trascurato i topi, il protagonista di Documenti da distruggere ha discriminato, ignorandoli, i fogli ammassati sul tavolo dello studio. Non ha considerato che nel faldone poteva celarsi qualche parola di importanza (letteralmente!) vitale. La parola poetica, o la sua ipotesi di lavoro, diventa dunque una specie di bambina innocente che nessuno doveva toccare. Distruggere ciò che si è scritto e accumulato equivale a assassinare quella bambina: nel modo peggiore poi, facendola a pezzi. Buzzati mutua la crudezza dell’immagine descritta dalla personale esperienza di cronista nero: da inviato del giornale, ha fatto esperienza dell’orrore degli omicidi italiani, ma fare a pezzi una lettera d’amore o una poesia è un delitto quasi peggiore, perché va ad intaccare l’universo della scrittura e della parola. Nello stesso libro appare una breve riflessione intitolata, non a caso, La salvezza, dove leggiamo:

Scrivi, ti prego. Due righe sole, almeno, anche se l’animo è sconvolto e i nervi non tengono più. Ma ogni giorno. A denti stretti, magari delle cretinate senza senso, ma scrivi. Lo scrivere è una delle più ridicole e patetiche nostre illusioni. Crediamo di fare cosa importante tracciando delle contorte linee nere sopra la carta bianca. Comunque, questo è il tuo mestiere, che non ti sei scelto tu ma ti è venuto dalla sorte, solo questa è la porta da cui, se mai, potrai trovare scampo. Scrivi, scrivi. Alla fine, fra tonnellate di carta da buttare via, una riga si potrà salvare. (Forse).

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Dino Buzzati, La archeologa e il menhir (1967)

ll radicale invito alla scrittura di Buzzati fa ovviamente eco alle note riflessioni del Malte Laurids Brigge di Rilke: «E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molto, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso». Il verso, l’unico verso che (forse) si può salvare può sì nascere dal ricordo, ma deve farsi per Rilke «sangue, sguardo e gesto»: distruggere un verso, o una parola potrebbe rivelarsi una mossa letale a discapito della nostra salvezza, se mai una salvezza è possibile.

Di questa salvezza, Buzzati («cristiano naturaliter, pagano come tutti gli artisti», diceva di lui Montale) dubita sempre, senza però rinunciare mai a raccontare gli effetti della tensione che essa provoca nell’umano. Con ironia e disincanto, l’autore riversa la frustrazione e il timore dell’inadeguatezza dei propri tentativi persino all’interno delle proprie poesie, come in Tre colpi alla porta (1965):

Il postino era alto era forte era intelligente era io
Andò verso la porta d’ingresso aspettativa eccetera,
ci siamo intesi al volo?
Come nella vera poesia.

La quale non voglio dire che si trovi qui presente.
Non posso né voglio dire una cosa simile.

Non è importante quanto sia contorto o inadeguato il tentativo di scrittura: anche se ciò che scriviamo non raggiunge il vertice stabilito, bisogna scrivere, perché la beata illusione che la salvezza sia veicolata dalla parola non offre indizi riguardo a cosa deve succedere, né quando, né come. Ancora da Tre colpi alla porta:

L’importante nella poesia è lo stacco
imprevedibile e stagno
che fa sentire la presenza
e il genio, la stoltezza divina
che riallaccia i funerali dell’eroe
con il dente che duole, con l’elenco del telefono
alla B là dove dice
Broggi Giannina Broggi Giovanna Broggi Giovanna
Broggi Giovanni Broggi Giovanni Broggi Giovanni
Battista
Broggi Giuditta
cateratta di umanità sconosciuta
e ciascuno polvere verme niente mondo sterminato
con dentro però la fiaccola accesa
che va che va e desidera e chiede
e ha bisogno, ed è sperduta
e tremola al respiro della notte
nell’ombra del ponte immortale
e piange. Ed è bambina, è gatto diseredato
è uccellino, è passero delicato e morente,
dove il lumino leggendario.
Ciao ciao, chissà quando, vero?
Manda una cartolina, amore.
Si vede l’orso al finestrone,
si vede il fumo lentamente Nantucket.
Sparire di là, di là dove mai
avrò il coraggio.
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Dino Buzzati, Il delitto di via Calumi (1962)
«Ciao ciao, chissà quando, vero?». Nelle poesie di Dino Buzzati come nei racconti, secondo Domenico Porzio, «riappare [...] con insistenza il tema del visitatore inatteso e della salvezza perduta per una fortuita assenza alla chiamata». L’assenza alla chiamata equivale al gesto che compie il protagonista di Documenti da distruggere. Una svista, una disattenzione che può valere una condanna a morte a meno di una concessione quasi divina: una seconda possibilità, un'illuminazione o un avvertimento inatteso che può verificarsi ovunque, anche tra le mura del bagno, o dove ci si sbarazza della spazzatura che, per l’ennesima volta, abbiamo fatto della nostra esperienza:

Dio pazientissimo giorno e notte ci insegue; dove meno si pensa ci attende all’agguato, non ha bisogno di croce o di altari: anche nei vestiboli di marmo sterilizzato che non si possono nominare egli viene a tentarci proponendoci la salvezza dell’anima.

Acqua chiusa (In quel preciso momento, 1950)

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