Fisico bestiale #2 – Natura divina del π secondo Dante Alighieri

Nella prima puntata di Fisico bestiale abbiamo visto emergere la grande conoscenza che Dante aveva della fisica e dell’astronomia. Quello che però appare ancor più sorprendente è l’interesse di Dante rispetto ai problemi irrisolti della scienza del suo tempo: egli, oltre a studiare le discipline scientifiche, aveva anche una chiara coscienza dei problemi cosmologici di cui si discuteva sulle cattedre degli scienziati coevi, e nei suoi scritti in più parti tentò di darne una personale soluzione. Anche su questo punto prendiamo alcuni esempi che possano illuminare il modus operandi dantesco.

Il primo esempio riguarda la capacità d’osservazione di Dante. Ecco come poeta, nel Purgatorio, descrive la formazione dell’arcobaleno con una efficace similitudine:

E come l’aere, quand’è ben pïorno,
per l’altrui raggio che ’n sé si reflette
di diversi color diventa addorno

(Pur. XXV, 91-93)

Qui Dante ha colto il principio fisico da cui nasce l’arcobaleno, cioè che la luce è riflessa dalle microscopiche goccioline d’acqua presenti nell’aria e che, per un effetto chiamato rifrazione, si scompone nelle varie lunghezze d’onda (cioè in tutti i vari colori). È lo stesso effetto per il quale il raggio che attraversa il prisma si scompone in tutti i colori nella copertina del famoso album dei Pink Floyd The Dark Side of the Moon. Il poeta non può certamente dare una spiegazione dettagliata o fornire una ragione scientifica, anche perché i dettagli sulla propagazione della luce saranno noti solo nel XIX secolo. Eppure ha colto il punto. La sola descrizione del processo fisico è di per sé già poesia: l’aria si adorna di colori.

“Beauty” di Olafur Eliasson

Un altro esempio degno di nota è tratto dal canto XXXIII Paradiso, quando Dante arriva finalmente a contemplare Dio. Per trattare il tema dell’ineffabile il poeta fa ricorso ad un problema matematico ben noto, ovvero la quadratura del cerchio:

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,

tal era io a quella vista nova. 

(Par. XXXIII, 133-136)

«Misurar lo cerchio» può sembrare oggi una cosa semplice, la si impara alla scuola media. Il problema è che per misurare il cerchio serve un numero particolare, ovvero il π. La circonferenza del cerchio è infatti calcolabile moltiplicando due volte il raggio per π: 2πr. Questo non è un numero come gli altri, ma soprattuto è un numero che al tempo di Dante semplicemente non era stato scoperto. Tralasciando il dibattito su cosa voglia dire “scoprire” un numero, in matematica il π è un numero irrazionale e trascendente. Un numero irrazionale è un numero che non può essere espresso come rapporto di numeri interi, è cioè un numero che ha infinite cifre decimali. π=3,1415926535… e potremmo andare avanti all’infinito.

Inoltre π è trascendente, il che significa una cosa ancora più complessa che ora è meglio non spiegare. Quello che mi preme qui sottolineare è semplicemente il fatto che all’epoca di Dante non si conosceva questo numero. Poiché non era stato scoperto, lo si approssimava con 22/7. Certo, Dante non può descrivere Dio: può solo fornire un’approssimazione, come quel «geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio». E aggiungo: il fatto che π sia stato poi definito numero trascendente lo rende ancor più adatto a descrivere la visione di Dio.

Infine, un esempio di carattere astronomico. Non voglio dilungarmi nel descrivere la cosmologia medievale e i continui riferimenti di Dante a riguardo di stelle e costellazioni, ma vorrei sollevare una questione che ritengo estremamente interessante, a proposito della Via Lattea. Appena arrivato nel cielo di Marte, Dante scrive:

Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra' poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;

sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo. 

(Par. XIV, 99-104)

La galassia protagonista della similitudine è proprio la nostra galassia, quella Via Lattea che al tempo di Dante era anche l’unica conosciuta. Oggi l’illuminazione artificiale urbana ha reso difficile la visione della Via Lattea nel cielo stellato: per osservarla bisogna recarsi in luoghi bui, lontani dai centri abitati. Per gli antichi, invece, era uno spettacolo imponente, tanto che la sua natura era diventata oggetto di una disputa molto accesa. La Via Lattea è una galassia a spirale, una sorta di disco rotante composto di stelle (tra cui il sole) e gas. Trovandoci all’interno di questo disco, se guardiamo verso il centro possiamo percepire una striscia biancastra che attraversa il cielo. I «ben saggi» cui Dante accenna nei versi sopra riportati sono Aristotele (nei Meteorologica), Alberto Magno ed altri. Dante espone nel Convivio alcune delle loro opinioni:

«Per che è da sapere che di quella Galassia li filosofi hanno avute diverse oppinioni. Chè li Pittagorici dissero che ‘l Sole alcuna fiata errò ne la sua via e, passando per altre parti non convenienti al suo fervore, arse lo luogo per lo quale passò, e rimasevi quella apparenza de l’arsura. […] Altri dissero, sì come fu Anassagora e Democrito, che ciò era lume di sole ripercusso in quella parte, e queste oppinioni con ragioni dimostrative riprovaro. Quello che Aristotile si dicesse non si può bene sapere di ciò, però che la sua sentenza non si truova cotale ne l’una translazione come ne l’altra. E credo che fosse lo errore de li translatori; chè ne la Nuova pare dicere che ciò sia uno ragunamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono quelli: e questo non pare avere ragione vera. Ne la Vecchia dice che la Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella parte, tanto picciole che distinguere di qua giù non le potemo, ma di loro apparisce quello albore, lo quale noi chiamiamo Galassia: e puote essere, chè lo cielo in quella parte è più spesso e però ritiene e ripresenta quello lume.»

(Convivio II, XIV, 5-7)

Qui Dante sorprendentemente anticipa con grande acutezza proprio ciò che noi sappiamo oggi, e cioè che la Via Lattea altro non è che un immenso agglomerato di stelle, troppo dense e lontane per essere viste una per una. Notiamo come su questo argomento, come su molti altri, la prova decisiva fu portata nel 1610 da Galileo nelle pagine del Sidereus Nuncius, che puntando il cannocchiale verso la Via Lattea poté scrivere:

«Quello che osservammo è l’essenza o materia della Via Lattea, la quale attraverso il cannocchiale si può vedere in modo così palmare che tutte le discussioni, per tanti secoli cruccio dei filosofi, si dissipano con la certezza della sensata esperienza, e noi siamo liberati da sterili dispute. La Galassia infatti non è altro che un ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi; ché in qualunque parte di essa si diriga il cannocchiale, subito si offre alla vista un grandissimo numero di stelle, parecchie delle quali si vedono abbastanza grandi e molto distinte, mentre la moltitudine delle più piccole è affatto inesplorabile».

Dante era dunque un visionario? Sì, ma non nel senso in cui spesso ci piace usare questa parola. Dante non era un surrealista ante litteram con il gusto per l’enciclopedismo, né godeva nel mescolare scienza e fiction per stupire il lettore con una versione irrealistica del mondo in cui viveva. Al contrario, come ha scritto Eliot in Dante (Faber & Faber, London 1929) «l’immaginazione di Dante è visiva […] in quanto egli visse in un’epoca in cui la gente aveva ancora delle visioni. […] Noi non abbiamo altro che sogni, e abbiamo dimenticato che l’aver visioni – una pratica ora relegata agli anormali e agli illetterati – una volta era un modo di sognare più significativo, interessante e disciplinato.»

L’osservazione e lo studio disciplinato dei fenomeni naturali sono pratiche che non ci aspettiamo più da un poeta, datoché sembra che il mondo in cui egli è immerso gli offra visioni di un ordine diverso, terribili e nefaste: incomprensibili. Ma sono cambiate le visioni o a mutare è stata la sensibilità filosofica, il rapporto con ciò che gli è ulteriore? La vertigine di fronte a un segno di trascendenza o un evento naturale complesso difficilmente produce in un uomo di cultura un sentimento di stupore o una spinta conoscitiva: per dirla con Leopardi, la natura (senza Dio) è matrigna, e sempre più il tempo in cui viviamo sembra, della natura matrigna, mettere in risalto più l’aspetto di perfidia che quello di maternità. Nella terza puntata di Fisico Bestiale, tra qualche settimana, vedremo l’ultimo esempio di questo rapporto virtuoso tra poesia e scienza: la discussione di un problema di Fisica tra Dante e Beatrice, al chiar di luna.