la letteratura e l'ideologia

La letteratura e l’ideologia: risposta a Antonio Perozzi

Pubblichiamo la risposta di Luca Mozzachiodi all’articolo di Antonio Francesco Perozzi pubblicato a gennaio dal titolo Tutta la letteratura è borghese? Tenendo in considerazione anche alcuni recenti volumi e progetti di ricerca che indagano i rapporti tra l’ideologia e i prodotti culturali, è evidente che una parte della critica letteraria italiana, soprattutto delle generazioni meno remote, manifesti la necessità di approfondire delle riflessioni lasciate in sospeso o più spesso rimosse. Indagare, tracciare la genealogia di una situazione culturale non può che chiarirne i processi, e lay0ut intende dare spazio e partecipare a indagini che verifichino il rapporto tra la letteratura e l’ideologia.

La letteratura e l’ideologia: risposta a Antonio Perozzi

Alcune settimane fa è uscito su Lay0ut magazine un interessante articolo di Antonio Francesco Perozzi dal titolo Tutta la letteratura è borghese? Si tratta a mio giudizio di uno degli articoli più interessanti che siano apparsi recentemente in rete in un sito di letteratura e il motivo è semplice: Perozzi connette la scrittura letteraria a una riflessione sulla struttura di classe della società, primo fatto abbastanza raro oggi in chi si occupa di poesia ma non solo, in secondo luogo non ha timore di utilizzare una struttura teorica di derivazione marxista (dire borghese al borghese non è poi scontato oggi), ma soprattutto prova, e riesce in diversi momenti ed elementi, a dare un’articolazione storica al suo ragionamento che quindi non è – la conclusione lo dimostra – solo un pezzo polemico a basso costo,  come quelli dove le generalizzazioni agitatorie e l’aggettivo (denigratorio) borghese a destra e a manca sono diffusi.

Quella di Perozzi, se leggo bene l’intento, è piuttosto l’ipotesi di coordinate interpretative per la nostra situazione presente, ma qui intendiamoci, nostra significa di noi intellettuali o (con un Brecht forse più adatto) letterati «lavoratori della testa», non certo di tutti e nemmeno di tutti i proletari o salariati, altre categorie che Perozzi ha il pregio di utilizzare senza remore.

Condivido l’entusiasmo che nella redazione (si veda il cappello introduttivo) ha generato la scelta di questo autore di rintracciare nella situazione materiale della classe borghese, liberata dalle preoccupazioni alimentari, un elemento specifico del suo rapporto con la creazione letteraria e, in linea di massima, le coordinate storiografiche della sua ipotesi. Insomma mi pare che l’articolo tenti di rimettere su binari giusti la discussione sullo statuto della letteratura e sulla sua storia.

Proprio perché questo sforzo e il suo risultato sono lodevoli mi sembra che l’articolo meriti una risposta, o meglio ancora più risposte che aprano un dibattito esteso, non tanto per indicare errori quanto per cooperare criticamente in uno lavoro che non può certo essere individuale.

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L’individuo è del resto la bestia nera di questo articolo, o ancora meglio, il borghese che è «ideologicamente» (in letteratura) l’individuo. L’equazione individuo-borghese è da Perozzi riproiettata sulla letteratura italiana e sulla sua storicizzazione, ma qui crea qualche dissesto: è certamente vero che esiste un’affinità tra sviluppo della letteratura nel tardo medioevo e azione politico-economica della borghesia nella società, ma è altrettanto vero che altri elementi sono altrettanto determinanti e non solo in senso sociale (la maggior parte della letteratura è in realtà un prodotto della nobiltà e del clero non certo della borghesia), ma soprattutto in senso ideologico-culturale. Non sembra troppo credibile l’attribuzione della rilevanza assoluta dell’io e dell’interiorità (spia della mentalità borghese per Perozzi) a testi come il Rerum vulgarium fragmenta, o le Rime di Cecco Angiolieri e, naturalmente, anche in una certa misura la Commedia, per l’altissimo tasso di formalizzazione e ritualizzazione che tali testi comportano. Sono dei codici, con una serie di situazioni tipiche (studiate ad esempio da Ernst Robert Curtius tra gli altri) in cui la ripetitività e l’aderenza a precetti (e la possibilità di innovarli moderatamente al limite) precede assolutamente non solo l’espressione individuale, ma la stessa canonizzazione nel senso che l’autore dà a questo termine. In poche parole “io” non vuol davvero dire “io” come può volerlo dire oggi e in questo senso non si dovrebbe esagerare: siamo forse ancora più vicini a Saffo e Archiloco (che non erano più borghesi o proletari di quanto lo fosse Sofocle) che non a Baudelaire.

Qui affiorano due postulati non esplicitati ma fondanti, credo, del modo in cui Perozzi legge la storia della letteratura: il primo è che la natura della letteratura borghese sia sempre mistificatoria, in questo probabilmente estremizzando molti spunti di un’opera come Scrittori e Popolo e di un critico come Asor Rosa, che mi sembra avere diversi elementi di contatto con Perozzi (tra l’altro, guardando a un saggio come La fondazione del laico, condividono una certa idea del classico italiano come scrittore borghese). Insomma, l’equazione tra e letteratura e ideologia si risolve troppo spesso in un’identità immediata tra le due per comprendere la storia della letteratura e la formazione dei canoni quale processo sociale (del resto una linea «petrarchesco-borghese» non pare affatto esistere come coerente, esclusiva e continua tra Bembo e De Sanctis, esiste al più un maggioritario petrarchismo lirico). Emerge dunque qualche confusione tra Canone e Storia della letteratura.

Probabilmente gli incessanti dibattiti odierni sul Canone e le sue inclusioni o esclusioni, che sono perlopiù modellati sulla tradizione scolastica cui mi sembra guardi, in definitiva, anche il contributo di Perozzi, ci sviano (in quanto soggetti inevitabilmente post-romantici e almeno in questo storicisti) portandoci a pensare che le due cose si equivalgano, ma mentre la Storia della letteratura rende ragione di un processo sociale e di sviluppo e non ha implicazioni normative, il Canone, e in questo Bembo e De Sanctis sono in assoluta antitesi, è normativo, rivolto alla prassi e all’istituzione di una maniera che è atemporale, gerarchica e assoluta quanto la Storia della letteratura è invece fondamentalmente relativista e pretende di giudicare ogni opera secondo i propri tempi e principi. In poche parole la Storia della letteratura (se intesa nel suo senso pieno) non è la costituzione del Canone, ma la sua distruzione.

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L’altro presupposto tacito della lettura di Perozzi, e direi l’anima positiva della sua dialettica, è la lettura hegeliana della lotta per l’egemonia nel campo letterario: il suo borghese ossessionato dalla morte è tale perché non la deve materialmente temere a differenza del proletario, e come tale si può riconoscere socialmente (affermare la propria individualità e soprattutto direi inscriverla nei codici del diritto pubblico e privato), mentre il problema del proletario è la vita. Indubbiamente il recupero della dialettica servo-padrone della Fenomenologia dello spirito in chiave marxiana è uno dei punti più felici e interessanti del discorso. Rimane tuttavia poi da chiedersi che cosa motivi l’ansia di sopravvivenza e sicurezza del salariato che lavora per sopravvivere se non la paura della morte (non muoiono solo i borghesi) e se un’affermazione come «la storia della letteratura italiana è anche la storia della paura e della gestione della morte» non valga in fin dei conti per buona parte della cultura, anche quella popolare e forse quella popolare ancora di più, come peraltro rileva una ricca produzione etnologica a cominciare dal De Martino di Il mondo magico, e Morte e pianto rituale nel mondo antico.

Indubbiamente esiste una linea comico-realistica quale quella tratteggiata qui e Perozzi ha certamente ragione nell’indicare un pregiudizio (che però a me pare più di origine aristocratica e classico-umanistico-retorica che borghese, come ad esempio indica Jacques Rancière nei suoi studi sulla crisi del sistema retorico e delle belle arti) contro questa linea, tuttavia anche qui spesso il realismo comico non è stato l’espressione delle classi subalterne (anzi questo è esattamente il pregiudizio classista inferiorizzante cui si faceva cenno), quanto piuttosto l’arma ironica della borghesia contro i limiti, i codici e le gerarchie della società aristocratica, ma anche della stessa società borghese (un’arma peraltro che coopera non poco in quel processo di dissacrazione dei «variopinti vincoli» di cui parla il Manifesto ). D’altra parte esiste certamente un gusto per la sublimazione e la morte che è di natura popolare, come dimostra l’ampia fortuna del melodramma tragico rispetto all’opera buffa, ad esempio, in uno di quei momenti che, condivisibilmente, l’articolo indica come ripresa dell’«agency popolare» cioè il Risorgimento.

Del resto anche volendo accettare una sorta di lettura continuista tra Canone e Storia della letteratura, in cui l’antologia scolastico-universitaria sia prodotta con una sorta di spoil system della lotta di classe, non sembra credibile fino in fondo la presentazione di Aretino, Folengo, Angiolieri, Dante come marginalizzati anti-canonici in una realtà letteraria dominata dalla borghesia dal momento che, mentre questi sono bene o male conosciuti, e spesso anche letti, nessuno o quasi sa più chi fossero che so: Pomponio Torelli, Alfonso Varano, Saverio Bettinelli, Terenzio Mamiani, Pietro Cossa ecc. sicuramente più vicini al modello della letteratura nobiliare-borghese di gestione della morte che Perozzi indica come padrone assoluto della letteratura.

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Insomma a mio parere è evidente che in questa proiezione del nesso morte-borghesia-egemonia qualche cosa non va, non ultimo perché in questo caso appare evidente non tanto un postulato sottaciuto quanto, a mio parere, un rimosso nel discorso di Perozzi: il cristianesimo e la matrice non solo borghese, ma anche e prima ancora cristiana del concetto di individuo. Solo in quella cornice è comprensibile l’importanza della morte quale momento decisivo, bilancio e testimonianza della storia di un’anima individuale che, prima di essere quella che il borghese annota e testimonia nel suo diario, è quella del credente solo di fronte alla propria esistenza e a Dio. La rimozione di questo fatto gli impedisce a mio parere di vedere quanto “io” (nella maggior parte dei testi premoderni, ma non solo, anche, o ancora, in molti testi contemporanei) significhi in realtà Everyman, come i personaggi delle sacre rappresentazioni (altra manifestazione culturale thanatocentrica e indubbiamente popolare). Così è certamente in Petrarca, ma anche in quel Dante che Perozzi (questo per la verità in buona compagnia e in una tradizione che risale almeno a De Sanctis) vuole campione della vita e del realismo, cantore della carne, dimenticando che l’Inferno è scritto in funzione del disincarnato, allegorico, speculativo e teologizzante Paradiso. Si potrebbe anche discutere su quanto tutta la letteratura europea sia in fondo cristiana, non per dire che ci sia o quale sia una risposta ma, se ragioniamo sulla categoria di “io” e sul rapporto con la morte, è una domanda che ha la stessa plausibilità di quella che si pone Perozzi. La rilettura di un’opera come Storia della morte in Occidente di Philippe Ariès potrebbe certamente aiutarci nel ricostruirne il rapporto con la letteratura senza appiattirlo su prospettive heideggeriane, per quanto senza dubbio non prive di valore.

Ora, questi rilievi potrebbero essere in sé poca cosa di fronte a un impianto argomentativo funzionante a degli assunti corretti (l’egemonia di classe borghese e il suo raffronto con la storia della letteratura) e direi a delle conclusioni molto interessanti. Rientrano anzi, sono certo, nelle numerose preterizioni cautelative che punteggiano il saggio, non penso cioè che Perozzi le ignori, ma che le consideri poco determinanti in ultima istanza, la famosa ultima istanza nella quale Marx e Engels collocavano la forza determinante della struttura (come felicemente Perozzi la chiama).Tuttavia già Engels si era trovato a dover precisare questo nesso e a distinguere tra ultima istanza e istanza assoluta, così ad esempio nella lettera a Borgius:

«l’evoluzione politica, giuridica, filosofica, religiosa, letteraria, artistica, ecc. poggia sull’evoluzione economica. Ma esse reagiscono tutte l’una sull’altra e sulla base economica. Non è che la situazione economica sia la causa essa sola attiva e tutto il resto nient’altro che effetto passivo. Vi è al contrario azione reciproca sulla base della necessità economica che, in ultima istanza, sempre s’impone».[1]

In poche parole mi sembra che in diversi nessi la tenuta del discorso di Perozzi si indebolisca troppo, mettendo fra parentesi e in preterizione non tanto singoli dati storico-culturali quanto tutta la dialettica delle cause produttrici di cultura (e letteratura) per esaltare una corrispondenza tra letteratura e ideologia (e in particolare ideologia borghese) troppo stretta e meccanica per darsi i compiti esplicativi che pure l’autore aspirerebbe a darle.

La storia della letteratura (e la sua situazione) che Perozzi rischia così di scrivere è una storia della letteratura in cui ci sono le classi, la lotta per il riconoscimento, ma la lotta di classe in sé appare troppo facilmente un Ur-conflitto tra visioni del mondo (morte vs vita, privato vs pubblico, individuo, vs collettività, al limite ideologia e mistificazione vs smascheramento e verità) dove chi vince decide e prende tutto, scrive norme e canoni, «coopta» gli avversari e, per nostra disgrazia, tale lotta è stata già combattuta: «la classe borghese vince, coopta sempre maggiori strati della popolazione, che a loro volta la ribadiscono culturalmente in una letteratura del discorso privato». Beninteso, non voglio essere certamente io a dire che quella vittoria non sia reale e materiale, intendo dire però che bisognerebbe invece probabilmente dismettere l’idea di una corrispondenza biunivoca tra ideologia e opera e anche – come peraltro fa tutto il pensiero dialettico da Marx a Gramsci, a Lukács, a Jameson –tra scrittori (intellettuali) e classe e piuttosto vedere nell’opera singola, nella storia letteraria e nelle istituzioni connesse alla produzione di letteratura il campo di lotta e il risultato di un insieme di tensioni storiche cui non sono esenti vittorie non borghesi. Il fatto che Perozzi, insegnante sottopagato e non ricco di famiglia, possa scrivere le sue poesie in un italiano corretto (o consapevolmente scorretto se gli va), che non debba tenerle in un cassetto, ma possa anzi pubblicarle per editori non privi di prestigio, che sia laureato e possa citare Heidegger e Jaspers, e naturalmente che io possa rispondergli, cioè che entrambi possediamo quella cultura, non è una cooptazione, né «l’arruolamento di sempre più individui all’interno della fucina estetica e delle opportunità espressive» (che lo scrivere poesie o articoli su litblog sia lavoro produttivo mi pare poco sostenibile) è semmai il risultato di lotte durate decenni e, al limite, di una acquisita mobilità sociale oggi in crisi, non certo una concessione. L’unica netta vittoria avversaria che vedo è che in quanto insegnante sia sottopagato, in questo sì, la borghesia vince.

Certo è proprio da questo punto che viene l’ambiguità della nostra situazione oggi, che l’articolo giustamente coglie: «borghesia culturale e borghesia reddituale si scindono» e esattamente qui, con tutta la serie di contraddizioni, ma anche di possibilità che Perozzi descrive, stiamo noi; tuttavia non mi sembra che il nostro essere borghesi per cultura risieda «nell’idea che il potere d’acquisto coincida con l’azione del mondo, con la nostra possibilità di salvezza». Più che un’idea borghese, questo mi pare un fatto materiale perlomeno dall’avvento della società capitalistica e dallo sviluppo della divisone del lavoro, dal momento che il salariato deve lavorare per sopravvivere e che il potere d’acquisto non serve solo a progettare la propria vita «sul modello di un grande imprenditore», ma soprattutto a pagare la spesa, gli affitti e le bollette. Siamo semmai borghesi per cultura nel momento in cui leggiamo, scriviamo (ancora?) riviste e siti come Lay0ut magazine, ma non lo siamo se di quella lettura e scrittura proviamo a fare uno strumento di elaborazione e soprattutto di lotta collettiva.

Ci si potrebbe poi chiedere se, in questo inedito scenario, la borghesia che espresse quella cultura (quale appunto?) sia quella che davvero “ha vinto” o se invece piuttosto essa non sia mutata, se non sconfitta anch’essa, e quel plesso culturale non sia in fondo più caduto in discredito che onnipervasivo e trionfante (questo almeno se consideriamo la letteratura). Più che una collettività immersa nella cultura borghese a me pare di vedere una vastissima produzione industrialculturale essenzialmente fondata su categorie diverse se non proprio antitetiche a quelle che sostenevano la cultura borghese (ad esempio consumabilità, assenza di gerarchie estetiche, velocità, superficialità, riconfigurazione del dominio di pornografia e violenza, relativismo epistemologico e assiologico, astoricità per fare alcuni esempi) ed è per questa ragione che la diagnosi, pur giusta, di Perozzi andrebbe però più cautamente limitata alla condizione o situazione dei letterati che non a quella di tutti i salariati. Del resto è poi vero che la letteratura borghese (anche nel senso ampio, esistenzial-fenomenologico, che a tratti Perozzi sembra attribuire a questa definizione) sia «consolatoria, idiota, mentecatta etc.», che dunque la posizione di un Bene sia l’antitesi di quella di un Berlusconi o (perché non sembri che il problema qui siano gli individui) che tutto il personale sia borghese e tutto il politico-collettivo sia antiborghese?

La letteratura e l'ideologia

La libertà di stampa per i nostri estremizzati ed estremistici discorsi, nonché il poter ignorare senza troppi guai il problema del cristianesimo mi sembrano fattori politico-collettivi di natura borghese che hanno ancora una parte rilevante, come in fin dei conti la pretesa di avere una biografia, di potersi riconoscere e dire “io” e non l’usanza, la tradizione, la norma comunitaria ecc., per la maggior parte delle persone rimane dopotutto ancora una conquista da farsi, il problema è piuttosto, certamente, in quale forma possa avvenire questa soggettivazione.

Provando a rispondere dunque alla domanda del titolo direi che la risposta debba essere decisamente no (cosa con cui credo peraltro di concordare con Perozzi), la letteratura non è affatto tutta borghese, una parte lo è, ma esistono anche letterature non borghesi, non sempre e non solo in posizione subalterna, in definitiva però ciò che rileva davvero è che è difficile e soprattutto storicamente e politicamente dannoso non vedere nella letteratura forze contrastanti e immaginare che esista una cultura borghese nettamente e irrimediabilmente introversa e slegata da una cultura non-borghese, né del resto si capisce come possa esistere una dialettica materiale che immagina la sopravvivenza della cultura borghese (che certamente però sopravvive) come realtà immutata anche dopo la scomparsa delle condizioni materiali che la generarono.

Per sfruttare al meglio le possibilità espressive che Perozzi intravede, ma aggiungerei per cominciare a indagare meglio la storia delle culture operaie e contadine e le ipotesi sociali collettive novecentesche, nonché della loro mutazione o scomparsa (un altro dei pregi dell’articolo è far balenare questo tema troppo trascurato in letteratura e l’averle dimenticate ci costringe, in parte, a ripetere vecchi dibattiti per recuperare posizioni perse) e infine probabilmente per creare una società un poco migliore, o anche solo una migliore letteratura, è necessario smettere di pensare alla letteratura o cultura come a qualcosa generato «per accumulazione di privilegi», o al limite al prodotto di una nevrosi ideologica della borghesia.

Questa risposta è dunque un invito a non accontentarsi di un pezzo intelligente e ben scritto, ma a proseguire proprio là dove «sappiamo che la realtà non è così schematica» se vogliamo che gli schemi servano.


[1] http://www.ecn.org/reds/formazione/marxengels/formazione0012engels1.htm

L’apparato iconografico è ricavato dal volume Moving Mountains (1850-2012), Conveyor, 2012, di Penelope Umbrico.

Luca Mozzachiodi (1992) è assegnista di ricerca presso l’Università della Calabria, è dottore di ricerca ed ha svolto attività accademica all’università di Bologna, ha pubblicato numerosi saggi critici sulla letteratura italiana contemporanea e scrive per «L’Ospite ingrato», «Il Manifesto in rete», «L’Ulisse», «Ticontré», «Poesia del nostro tempo» e altre tra riviste scientifiche e blog letterari. Ha curato l’antologia Voci di oggi (Istos 2017) e pubblicato i libri di poesia Le strade di Gerico (Serra Tarantola 2013), L’arte della sconfitta (Qudulibri 2017), Tempo stellare (Bertoni 2023). Sono in preparazione per l’uscita un volume sulle riviste militanti della Nuova Sinistra (Preparando il Sessantotto) e una raccolta di saggi letterari dal titolo Gli scacchi di Brecht.