Teoria del tutto poetico

Lirica e ricerca. Appunti per una teoria del tutto poetico

Chi segue il dibattito poetico conosce bene quello che è ormai “El Clásico” delle scritture contemporanee: l’opposizione tra poesia lirica (e postlirica) e poesia (o scrittura) di ricerca. E sa anche, poi, che la definizione dei due fronti è tutt’altro che pacificata: che la ricerca sia un atteggiamento generico (dunque riscontrabile anche nella lirica) o un modus specifico di alcune scritture, o ancora che la stessa dicitura “di ricerca” sia valida oppure no[1], è effettivamente ancora in discussione, al punto che non mancano dubbi sulla reale necessità di tali classificazioni.[2]

Tuttavia, è un fatto che queste due polarità continuino a riproporsi nelle mappature della letteratura italiana, quantomeno come riferimenti, approcci, intenzionalità – in alcuni casi addirittura convivendo (ma con «andamento schizofrenico»[3], cioè escludendosi a vicenda di volta in volta) all’interno della produzione di uno stesso autore[4]. Glissando sull’uso strettamente storicistico o tassonomico di queste categorie (chi dentro chi fuori), e lasciando da parte anche una loro definizione troppo scolpita, mi propongo qui di affrontare le due disposizioni come epistemi poetici inconciliabili eppure conviventi. E di farlo utilizzando una metafora scientifica.

Epochè e coni d’ombra

Al di sopra della loro codificazione specifica, le due “fazioni” si fronteggiano infatti al pari della teoria della relatività e della teoria dei quanti, riguardano non semplicemente l’accettazione di una modalità scrittoria, ma più generalmente, il posizionarsi all’interno di certe direzioni di sguardo. Quando ci si colloca in una di esse (soprattutto per quanto riguarda gli autori “schizofrenici”), necessariamente si attua un’epochè, una dimenticanza più o meno programmata delle rotture di episteme che l’altra “fazione”, altrove, mette in pratica.

Per intenderci, la teoria della relatività non è in grado di spiegare l’entanglement e la fisica quantistica non motiva le lenti gravitazionali[5]. Una funziona dove l’altra no, e viceversa.  Allo stesso modo, in poesia, l’opzione lirica sorvola sulla significatività della pagina, del supporto, del processo, mentre l’opzione di ricerca si smarca dall’assertività[6], dal ruolo empatico della poesia in quanto comunicazione “aumentata” (vale anche “autoriale”)[7]. Cercare di intersecare i coni d’ombra delle due epochè può dunque aprire un discorso sulle possibilità di dialogo tra i due approcci e sul campo comune di realtà che rimane sepolto oltre la schizofrenia epistemica.

Poesia del continuo

In questo schema, alla lirica/postlirica spetta dunque il ruolo di poesia del continuo. Fin dall’etimologia del termine “lirico” (legato, appunto, a “lira”) sappiamo che questo filone si costituisce essenzialmente, e fin dall’antichità, su una rispondenza tra suono e argomento, dunque su un fatto ritmico-rituale di comunicazione espansa (oltre, cioè, il semplice messaggio: «una sorta di trascendentalità del dire che tanto per forma che per contenuto si pone come radicalmente eccedente il mero mezzo comunicativo umano […] La poesia (la “lirica”) è dunque regola e rito»[8]). Com’è ovvio, il distaccarsi della poesia dal contesto cerimoniale e dalle strutture metriche chiuse non le ha impedito di conservare il proprio peso «ritualistico, formulare (dove ogni scelta tecnica ha un preciso valore intersoggettivo)»[9], e, insomma, la centralità del “respiro”, inteso come ritmo e prosodia di un essere che parla.

Tale ritualità permanente della lirica si rifà dunque a una permanenza dello sguardo soggettivo (la «lirica [è] espressione della soggettività» scrive Paolo Zublena, riprendendo Hegel[10]). Qui, nella connessione tra ritmo-rito e io poetico, sta la continuità della lirica: poiché sottrae il linguaggio dalla comunicazione e lo restituisce alla pienezza (cioè significato + significante) della sua creatività (poiesis), poiché funziona come rilettura del mondo attraverso uno sguardo, l’atto poetico diviene un centro di gravità semantica. In quanto inserito all’interno di un impianto di elementi in variazione interdipendente (soggetto, significato, significante), questo centro deforma il continuum di senso che lo circonda: tale sguardo, tale mondo. E che tale relatività diventi relativismo egocentrico, confessionalismo, è di fatto il rischio di ogni poesia “soggettiva”: la degenerazione gravitazionale (a questo punto, il “buco nero”) di un impianto che è, in realtà, relativistico sia per essenza prima che per etica, in cui l’energia poetica si proporziona direttamente alla massa linguistica e alla soggettività.

Entanglement? (fonte)

Poesia del discreto

È evidente, tuttavia, che se il rito è un «complesso di norme, prestabilite e vincolanti la validità degli atti»[11], la lirica non può per statuto trasgredire il supporto, la postura e l’artigianalità da cui è costituita. Pena, la frattura del continuum.

All’interno di questa insondabilità, nel rovescio dell’epochè su cui si fonda la lirica, si trova dunque la prospettiva di ricerca, di cui si sottolinea spesso proprio «la negazione dell’io autoriale, la scomposizione del linguaggio, la dismissione delle parti tradizionalmente poetiche»[12]. Accantonando qui le individualità interne al “supergruppo” di ricerca, e rimandando ancora a Zublena[13] per quanto riguarda il ruolo della soggettività in quel tipo di scrittura, vediamo come, in linea di massima, la ricerca dissolve proprio quel continuum suono-parola-sguardo-mondo tanto rilevante nella lirica. Alle operazioni di ricerca si attribuiscono «un frequente principio di esitazione […] il montaggio […]; il contraddire delle parentetiche; l’interruzione del discorso»[14] con l’effetto di mettere «in dubbio il postulato di un soggetto unitario.»[15]

Attraverso la «disseminazione»[16] del senso, la scrittura di ricerca si guadagna perciò il ruolo di poesia del discreto: al di là delle soluzioni dei singoli, l’episteme poetico della ricerca vuole una frammentazione del continuum di senso in parti che reagiscono a una specie probabilistica di significato. Anzitutto, scomparendo la «volontade de dir[17] che caratterizza la lirica (gli autori di ricerca lavorano spesso su ready made, citazioni, inserzioni) scompare anche il centro di gravità; da qui la natura “effimera” della scrittura di ricerca, nel senso di una volatilità che rifiuta programmaticamente la poesia come atto assertivo e trasferisce l’efficacia semantica e performativa su un altro piano. Questo piano riguarda la produzione (non il prodotto) e la sfida alle strutture (tutte: dal soggetto al verso, dalla pagina come supporto alla grafia, come nel caso dell’asemic writing).

Ecco, perciò, la natura quantistica della scrittura di ricerca: il testo non è proposto come massa, ma come sintomo di un’indeterminazione – dell’impossibilità cioè di considerare l’atto poetico come assoluto, di accettarne inequivocabilmente la postura e l’integrità. Ne conseguono l’apertura a quella che Mariangela Guatteri chiama «condizione di intermittenza»[18] e, in maniera perpendicolare alla lirica, l’epochè sul soggetto come funzione significante. Questo viene alienato, parodiato, in generale ostacolato da un testo che si fa riluttante alla gravità e all’organicità di uno sviluppo imposto dall’alto.


Teoria del tutto poetico

Insomma, al netto delle svariate opzioni possibili, e anche, è ovvio, di una realtà più complessa di questo gioco metaforico, lirica e ricerca, presi come sostrati epistemologici, esistono grazie a dei coni d’ombra speculari. Ognuno di questi trattiene in sé il germe, l’origine da cui proviene la luce e la possibilità dell’altra pratica poetica, che si regge, in fin dei conti, su un “rimosso” (più o meno consapevole).

La lirica deve rimuovere dalla significatività la pagina (nel senso materico-tipografico) e il processo; la ricerca deve seppellire la presenza della soggettività come fonte di senso. Fabbricare una “teoria del tutto poetico” – che allacci relatività semantica e significazione quantistica – vorrà dire allora fare luce sul nodo da cui i coni d’ombra si dipanano. Scoprire, infine, dove si incontrano le rimozioni.


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[1] Per una rapida storia del termine, cfr. Marco Giovenale.

[2] Scriveva Giulio Marzaioli: «[…] a fronte dell’esigenza di esplorare (o accerchiare) un testo per valutare quanta “ricerca” in esso si annidi, potrebbe essere del tutto indifferente sancire una definizione.».

[3] Cfr. Marco Giovenale e Paolo Zublena, dal minuto 48:00 circa.

[4] Per quanto riguarda lo stesso Giovenale, si può leggere quanto scrive Paolo Zublena a proposito del suo ultimo libro (Delle osservazioni, Blonk): «è un libro riassuntivo della modalità di Marco Giovenale che potremmo, sbrigativamente, definire postlirica – parallela […] alla sua produzione più immediatamente riconducibile alla cosiddetta «poesia di ricerca»».

[5] Cfr. Michele Diodati, Il conflitto tra relatività generale e fisica quantistica, buchi neri e radiazione di Hawking, il paradosso dell’informazione e altro ancora.

[6] Scrive Silvia Fantini: «L’intervento pragmatico, lo straniamento e la citazione sono attributi che la scrittura non-assertiva ricalca dalle avanguardie artistiche allo scopo di scollare l’autore dal testo e disidentificare l’autore rispetto al locutore del testo.».

[7] Marco Giovenale: «L’autore non afferma (da posizione elevata o meno), non stabilisce i parametri assertivi del materiale che pure produce; non fabbrica quel modello eroicamente ultrasemantico che spetterebbe al critico deuteragonista notomizzare.».

[8] Cesare Catà, La poesia saltata. Per una definizione coerente di “neolirismo”.

[9] Stefano Colangelo, Poesia italiana dal nuovo millennio / Alcune tendenze, alcune tensioni.

[10] Paolo Zublena, Forme del soggetto nella poesia contemporanea.

[11] Treccani

[12] Claudia Crocco, Poesia lirica, poesia di ricerca. Su alcune categorie critiche di questi anni a partire da due libri recenti.

[13] Paolo Zublena, Forme del soggetto nella poesia contemporanea.

[14] Paolo Zublena, Come dissemina il senso la poesia “di ricerca”.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] link e materiali da/per “Delle osservazioni” (blonk, 2021).

[18] È il caso, anche, di operazioni di ricerca che finiscono per “simulare” una liricità in verità solo apparente (pensiamo ad esempio a Carlo Bordini), generata letteralmente da una par-odia, ovvero non da una “voce” centrale – presupposto della lirica – ma da qualcosa che assomiglia alla voce, da un suo surrogato ironico. Per contro, anche la lirica può raggiungere casi di superamento del “dire”, di afasia; quello che bisogna tenere presente – se rispettiamo l’impianto, certo semplificante, qui proposto – è la modalità tramite cui si raggiunge il risultato, nonché l’“episteme”. E nel caso dell’“afasia lirica” siamo non già in un orizzonte “del discreto”, bensì all’apice del continuo-rituale, di un dire che si sublima ma lascia intatta quella “volontade” che caratterizza la postura lirica.