odissea quaderno socci meloni

Odissea nel Quaderno – Socci su Meloni

Odissea nel quaderno è la nostra rubrica dedicata alla recensione delle antologie contenute nel XV Quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2021, a cura di F. Buffoni). Questo il primo articolo, di Roberto Batisti, sulla silloge di Sara Sermini. Dove sei ora, invece, parliamo della Danza degli aironi di Matteo Meloni.


1.I temi e la lirica-lirica

Tra i molti elementi del mondo naturale, nella Danza degli aironi di Matteo Meloni, il lettore incontra anche un ampio catalogo ornitologico. Si tratta, in gran parte, di uccelli che trovano una stabile dimora nella nostra tradizione poetica novecentesca, e non solo: la pernice (Montale e dunque Orelli), l’astore, il beccafico, l’anatra, il balestruccio e la cicogna (Montale), il merlo (Montale, Saba, Fortini e Pusterla) e, come da titolo, l’airone (Pusterla). Questo breve elenco ci consente di tracciare una parziale genealogia della poesia di Meloni, la cui scrittura, che si presenta come vistosamente lirica, è caratterizzata dall’attitudine etologica e zoologica del soggetto poetante, vicina per certi aspetti a quella di Giampiero Neri, evocato anche da Pusterla nella Prefazione.

Gli ambienti naturali alpini, con gli esseri viventi che li abitano, sono i protagonisti principali di questa poesia. Assieme agli uccelli, troviamo anche molte piante, sempre indicate con l’iponimo preciso. Si tratta di una natura che sfugge tuttavia a una descrizione di tipo razionale-scientifico, e che mantiene intatto, agli occhi di scrive, un aspetto romanticamente misterioso e indecifrabile: «Arrivano dall’Africa le anatre / in ritardo sulla riva del lago, / sul ciglio delle sue fioriture. // Stamattina passando il paese / hanno violato discrete / mentre noi dormivamo / la segretezza dei tigli» (p. 239).

A questa rappresentazione quasi sacrale del mondo naturale, la scrittura di Meloni si adatta seguendo un andamento a tratti liturgico, enfatizzato dall’uso delle ripetizioni – elemento che di recente Culler, in Theory of the Lyric, ha indicato come una delle costanti proprie della lirica occidentale lato sensu: «Muta è la terra che non ha frutti / né fiori, muti sono gli orti / i cortili assolati delle campagne. // È morto stamani in un gioco / dell’inverno come gli altri / un ciliegio centenario. // È ora che ogni ombra si accosti / al suo tronco al suo corpo / e si allunghi e in silenzio / sparisca a mezzogiorno» (p. 243).

Ne deriva, nel complesso, una poesia spesso appiattita sulla retorica e sui moduli più tradizionalmente lirici; così ad esempio sul piano dei tropi, di norma accompagnati da un’aggettivazione abbondante: «sono ricordi di pietra le borgate» (p. 218); «non lo sanno ma qualcuno / si muove nel buio felpato, / come cervi leggeri alla volta del colle» (p. 222); «il tiepido sonno della foresta» (p. 224); «intanto la luna iniziava / la danza dell’acqua» (p. 225); «la festa / odorante del faggio» (p. 229); «la maestà delle forme più semplici» (p. 236); «un oracolo di oleandri» (p. 238); «al mattino la collina è un’orchestra / di gazze balestrucci cardellini» (p. 240).

2. La natura e il soggetto

Nella Danza degli aironi, il rapporto soggetto-mondo naturale è caratterizzato dalla consustanzialità tra storia geologica della natura e storia dell’uomo (quest’ultima relegata perlopiù nelle note in fondo alla silloge). Questa consustanzialità è attestata già nella poesia di apertura, che ricorda il testo incipitario del libro di esordio di Pusterla, Concessione all’inverno (1985) – a destra per un confronto:

Più veloce di una nuvola arriverà
la pernice, allo scadere leggero
della notte, consegnando la neve. Allora
non più graduale la luce e il colore,
ma accecante un bagliore scioglierà
dalla cima più alta le storie i ricordi,
le minime impressioni.

Come dopo un primo
respiro cristallino della terra.

Le parentesi

L’erosione
cancellerà le Alpi, prima scavando valli,
poi ripidi burroni, vuoti insanabili
che preludono al crollo. Lo scricchiolio
sarà il segnale di fuga: questo il verdetto.
Rimarranno le pozze, i montaruzzi casuali,
le pause di riposo, i sassi rotolanti,
le caverne e le piane paludose.
Nel mondo Nuovo rimarranno, cadute
principali e alberi sintattici, sperse
certezze e affermazioni,
le parentesi, gli incisi e le interiezioni:
le palafitte del domani.

Il soggetto poetante di Meloni rappresenta la dimensione umana, sovrapponendola a quella della natura, come un continuum che, «dopo un primo / respiro cristallino della terra», collega tempi tra loro molto distanti, dagli «antenati» che «affilavano la pietra» «nelle valli» e «i saggi» che «addobbavano / i frassini» «dopo la caccia» (p. 225) agli esseri umani che abitano oggi quegli stessi ambienti alpini. Come afferma l’autore in un’intervista, l’intento programmatico è quello di «disinnescare l’antropocentrismo», e in particolare, potremmo aggiungere, l’individualismo di un io poetico autoreferenziale, chiuso nel proprio microcosmo.

Eppure, se nei primi testi della silloge protagonista del discorso è in effetti una natura che sembra trascendere gli individui – descritta da una sorta di soggetto impersonale – proseguendo la lettura riaffiora gradualmente quella prima persona tipica della lirica moderna che, proiettando i propri stati d’animo sulla realtà, finisce per ri-occupare il centro della scena, accompagnata a volte da un tu con il quale sembra instaurare un rapporto personalistico: «Anche il ruscello può essere sentiero / nell’intrico della boscaglia. // Tu forse potevi provare a seguirlo / arrivare alla polla nella terra. / Sapevi assecondare gli sbalzi / del fiume, tenere a bada / la natura cedevole dell’acqua» (p. 231, versi, questi, nei quali risuona ancora il modello del primo Montale).

Quell’«effusione dell’io» che si vorrebbe «ridotta al minimo», come scrive Pusterla nella Prefazione, lascia in realtà il posto, in buona parte dei testi, a una prima persona liricamente egemone; allo sguardo del soggetto poetante, la natura risulta così antropologicamente personificata: «sarà una folla di ortiche ad accogliere / i viandanti» (p. 219); «attendono i ghiacci / il momento propizio» (p. 220); «i larici alti come soldati, / pronti a scendere al segnale / a presidiare i villaggi nella valle. / […] Il nemico è fuggito, / penseranno» (p. 221); «non dormono le cime dei monti, / i dirupi e le gole» (p. 222); «danzavano stanotte gli occhi del bosco» (p. 229) e così via.

Da questa attitudine dell’io, deriva infine una visione teleologica della natura stessa, che se da un lato entra in conflitto con quella volontà programmatica di «disinnescare l’antropocentrismo», dall’altro stona con quanto la biologia e più in generale la fisica quantistica ci spiegano sui meccanismi di funzionamento degli esseri viventi e dell’intero universo:

Al mattino la collina e un’orchestra
di gazze balestrucci cardellini
e quanti altri assetano
le città del nostro silenzio.
Tutto dipende dall’apparenza
della luce: l’estate, la fatica
della muta, la partenza.
È per loro che il vento prende forza, le nuove
remiganti fanno vela.

3. Io decentrato, io non decentrato

Nella scrittura di Meloni è spesso rintracciabile la presenza di alcuni di quegli autori della terza generazione che, a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, hanno tentato di riformulare in Italia i moduli della lirica, ad esempio decentrando l’io o sostituendolo con interposte persone («parla adesso per loro una maschera di nuvole», p. 248, che ci rimanda all’Intervista a un suicida di Sereni). Ciononostante, La danza degli aironi ostenta nel complesso un impianto fin troppo lirico, più vicino al clima primonovecentesco che non a quello di fine secolo: «l’ombra dei castagni fa le foglie / aperte e sottili. Ma il sole / è in me una radura un gelsomino / la memoria dell’inverno» (p. 234). Sul piano della logica del discorso, la prima persona resta in questo senso l’unico centro propulsore degli eventi e la mente ordinatrice delle varie catene associative e analogiche.

Mi riferisco in particolare a quelle poesie (numerose), costruite su un principio di identità del tipo x=y, in cui il soggetto che prende la parola sovrappone a una prima immagine una seconda, posta in chiusura del testo, che ha il compito di illuminare l’intera scena, spiegando al lettore il significato nascosto di quanto viene descritto: «sotto la calma del muschio le radici, / annodavano intrecci, / premevano / verso il fondo della terra. // È la notte del ghiro, la festa / odorante del faggio» (p. 229); [gli uccelli] «aspettano la pioggia, / che faccia nei campi una palude / e sommerga le strade / sterrate dei parchi, le periferie. // È il palcoscenico della caccia» (p. 242); «ora che in casa infestano le cimici / che la stagione delle foglie si riduce / a un orlo a uno straccio di verde / anche noi lasciamo la presa / chiudiamo le tende lentamente / smemoriamo. // È l’autunno che sgrava che prepara / la quercia per la neve» (p. 244).

Gli esiti più convincenti della silloge si trovano piuttosto, a mio giudizio, in quei testi in cui l’io realmente si defila, facendo spazio a una realtà e a una natura che brillano non per la luce emanata dal mondo interiore della prima persona, ma più semplicemente nella loro nuda esistenza, che si offre allo sguardo di chi parla e al lettore nel presente della rappresentazione poetica. Così ad esempio in una poesia, citata anche da Pusterla nella Prefazione, che richiama alla memoria, nel finale, certi testi delle prime raccolte di Umberto Fiori:

È un altro sole che ritorna
stamattina e un grumo di calore
fa gli alberi irrequieti, spoglia
la città sotto un soprabito di polline.
E non ci sono giardini ma crescono prati
di gramigne tarassaco
margherite, risposte
luminose tra tutto quel verde.

4. Conclusioni

Nel complesso, La danza degli aironi può essere interpretato come un tentativo di riproporre oggi una scrittura lirica di impianto tradizionale, nei suoi nuclei tematici più romanticamente stereotipici (la natura e il mistero delle sue manifestazioni, il rapporto tra il soggetto e un ambiente ritratto nella sua ideale purezza ecc.), che non sempre riesce, però, ad aggiornare il genere alla contemporaneità, offrendo al lettore un’immagine anacronistica della prima persona e, implicitamente, della stessa figura del poeta. D’altra parte, restando in ambito ornitologico, come scriveva già l’ultimo Montale nel 1972 in un testo intitolato L’allevamento:

Siamo stati allevati come polli
nel Forward Institute
non quali anatre selvatiche o aquilotti
come chiedeva il nostro
immaginario destino.
E abbiamo annuito in coro intonando la marcia
En avant Fanfan-la-Tulipe!


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Fonte immagini: Land Art – Escaping the Grasp of the Art Market