«Ti amo proprio così, salamandra»: tre traduzioni da Tess Gallagher

Tokyo Hotel 1989, Momentary Geisha

A feeling of being for one’s self-alone.
Everyone I have loved far away in the past,
Some underground. Forty-five years old.
A widow. Letting down
my hair, henna the color of cinnamon.
Taking up the silver-backed hairbrush
my mother gave me and beginning to stroke
morning sunshine into the hair as one might ply
oars to a quiet inlet near the sea. Light

shattering from a bank of windows
across a courtyard, blotting out
where I came from, where I’m
going, and any sense of what I am doing
here, so far from home. Suddenly

the telephone ignites a raw imperative under
a cut-glass lamp. A polite Japanese man’s
voice then in perfect English: “Hello. Good
[morning.
So sorry to disturb. I need to say
that and to ask: would you mind brushing
your hair a little closer to the window?”
“Where are you?”
“Across the courtyard. I counted
windows. Told the desk clerk I knew
you.” Realizing then something about distance,

loneliness, all the impositions we leap through
silently in a day to slough off others to
[belong
at least to ourselves. My hair
as transport, the brush through it,
the steady motion of a woman rowing silently
in sunlight across a courtyard. A man alone
counting windows.

I say nothing. Hang up the phone. Take
the few dream-steps to the window,
pull the heavy flash of silver again
through the water of my hair, feeling as if
this small room is floating me out of myself
on the distant gazeof someone I will never
meet. I keep on rowing like that
a short while. Then, taking charge
of beauty and solitude, I push back
the mantle of my hair, draw on
the long gaze of the day before I drop
the bamboo shade.

1989: Geisha per un momento in un Hotel di Tokyo

La sensazione di essere sola per sé stessa.
Tutti quelli che ho amato lontani nel passato,
alcuni sottoterra. Quarantacinque anni.
Vedova. Mi sciolgo i capelli,
henné color della cannella.
Prendo la spazzola montata in argento
che mi ha regalato mia madre e comincio
a spazzolare il sole del mattino nei capelli
come si rema in una tranquilla insenatura

del mare. La luce si rifrange frammentata
da una fila di finestre allineate
dall’altra parte del cortile e cancella
da dove sono venuta, dove sono
diretta e qualsiasi senso di che ci faccio
qui, così lontana da casa. All’improvviso

il telefono innesca un imperativo netto
sotto la lampada di vetro. La voce educata di un
giapponese che dice in impeccabile inglese:
“Salve. Buongiorno. Mi spiace tanto disturbare.
Sento il bisogno di scusarmi e di chiederle:
le dispiacerebbe spazzolarsi i capelli
un po’ più vicino alla finestra?”

“Ma lei dov’è?”
“Dall’altra parte del cortile. Ho contato
le finestre. Ho detto al portiere che la
conosco”. Allora ho capito qualcosa della distanza,

della solitudine, di tutte le imposizioni che
[affrontiamo
in silenzio ogni giorno per sbarazzarci degli altri e
appartenere almeno a noi stessi. La mia chioma
come mezzo di trasporto, la spazzola che
[l’attraversa,
il movimento costante di una donna che rema
in silenzio al sole dall’altra parte del cortile.
Un uomo solo che conta le finestre.

Non dico nulla. Riattacco il telefono. Faccio
qualche passo sognante verso la finestra,
ripasso il pesante lampo argenteo
nell’acqua dei miei capelli, con la sensazione
che questa stanzetta mi faccia galleggiare
fuori di me sullo sguardo distante di qualcuno
che mai conoscerò. Continuo a remare così
per un po’. Poi, riprendendo il controllo
della bellezza e della solitudine, spingo indietro
il mantello dei miei capelli, assorbo
il lungo sguardo del giorno prima di abbassare
la tendina di bambù.

Fonte

Salamander

Glider of the riverside, you swim
with your elbows, your leaf-like-star-like
grasp, below me, so orange and earth abiding.
Angled like a wrench looking
for bolts, you scrape painlessly chin

to belly, zigzag this day’s rhythm
and afterglow. To add a human gaze
to apparition pulls not one iota
of heavenward glee from my head
in trees over you as you toss aside

origami sky-fall, leaves still moist
with drifting more than down, cloaking
the slow dagger of your full occupation
of exactly where I do not
step. My first footfall on any planet

avoids crushing you. We do not meet
by having spared each other.
Your gentleman to my not-a-lady
so freeing I could kiss or curtsy
and still need some raw display of delight.

Your rake and pause recalls an Irish almost-lover
in suit-coat and jeans who startled our 30-year
reunion threatening to leap into the river
between us and swim to me, putting even
expectation back on its giddy heels.

I love you exactly like that, salamander,
forever in aftermath, and always drowning.

Salamandra

Guizzi lungo le rive del fiume e nuoti
con i gomiti, t’aggrappi sotto di me
a mo’ di foglia, a mo’ di stella, così arancione
e terragna. Inclinata come una chiave
in cerca di bulloni, strisci senza farti male

dal mento alla pancia, zigzaghi al ritmo dell’oggi
e del chiarore residuo. Aggiungere uno sguardo
umano a un’apparizione non sottrae neanche
un briciolo di gioia diretta al cielo dalla mia testa
negli alberi sopra di te quando ti scuoti di dosso

uno scroscio di origami, foglie ancora umide
per esser cadute più che in basso, che rivestono
il lento pugnale della tua piena occupazione
del punto esatto dove non cadrà mai
il mio piede. Il primo passo su qualsiasi pianeta

eviterà di schiacciarti. E non ci incontriamo
solo perché ci siamo risparmiati a vicenda.
Il tuo esser cavaliere con me non-dama
così liberatorio che potrei baciare o far la riverenza
e aver ancor bisogno di mostrare una gran gioia.

Il tuo strisciare esitante mi ricorda un quasi-innamorato
irlandese in giacca e jeans che sconvolse il nostro incontro
dopo 30 anni minacciando di saltare nel fiume
tra di noi e raggiungermi a nuoto, costringendo
perfino le aspettative a girare i tacchi storditi.

Ti amo proprio così, salamandra,
sempre negli strascichi e sempre affogando.

Fonte

Watching the Robin

listen for worms, then find one, reminds
me of listening for the poem—those three
or more anticipatory steps
it takes between locating the objective
underground, then jabbing its beak into
it… Listening steps, one might say.
Often I feel myself take them
on the way to knowing-into
something. That pause after

the steps, where a thing unknowable
emerges as much as it is able to
from its other world, so we grasp it
entire. Why is it so seldom seen,
this worm, as it is
being swallowed? Yet we believe
reports of some necessity
having gone down
by once having glimpsed
an acrobatic meal.

Osservare il pettirosso

che ascolta i vermi e poi ne trova uno mi ricorda
lo stare in ascolto della poesia – quei tre
o più passettini anticipatori
che fa tra l’individuare l’obiettivo
sottoterra e il trafiggerlo di scatto
con il becco… Passi d’ascolto, potremmo definirli.
Spesso ho la sensazione di farli anch’io
appena prima di intuire
qualche cosa. Quella pausa subito dopo

i passi, dove l’inconoscibile
emerge quanto più può
per essere
afferrato per intero. Perché mai è così raro
vedere questo verme nel momento stesso
in cui viene inghiottito? Eppure diamo credito
a notizie di qualche necessità
approvata solo per
aver intravisto di sfuggita
un pasto acrobatico.

Fonte

Tess & me

La nostra storia comincia tanti anni fa, nel 1981, per la precisione. Avevo selezionato alcune delle sue poesie per un’antologia di poesia americana, uscita da Savelli nell’82, Storie di Ordinaria Poesia. Le avevo scritto per chiederle il permesso di tradurle e pubblicarle. Mi rispose: “Volentieri, se mi spieghi come hai fatto tu dall’Italia a ritenermi rappresentativa, quando in patria alcuni faticano ancora ad accorgersi di me?” Cominciò così tra noi una fitta corrispondenza. Ci scambiavamo poesie e inediti, notizie sulla nostra vita e il nostro lavoro: una bella palestra epistolare. Nell’autunno del 1985, approfittando di una visiting professorship alla Columbia abbiamo organizzato un primo incontro: l’avrei raggiunta a Syracuse, dove insegnava, alla fine del mio corso.

Al piacere dell’incontro si sommò l’imbarazzante sorpresa di scoprire che il suo compagno, di cui le lettere parlavano spesso semplicemente come Ray, senza ulteriori dettagli, faceva di cognome Carver. Superata la sorpresa, si stabilì tra noi tre una piacevole amicizia. Cementata anche dall’acquisto della loro prima segreteria telefonica. Al momento di registrare il messaggio, Tess ebbe la brillante idea di farlo registrare a me, in italiano. Buttammo giù una mini sceneggiatura: dovevo interpretare la parte di un sussiegoso maggiordomo italiano che annunciava che il signor Carver e la signora Gallagher non erano in casa, ecc. Ray ci guardava perplesso. Noi non riuscivamo neanche a registrare il messaggio per le risate. Alla fine, sotto la sua regia, riuscii a leggerlo di filato. Lei volle subito provarlo, prima su un suo collega all’università di Syracuse che sorpreso, cominciò a rispondere in esitante spagnolo. Poi su suo fratello Morris, cacciatore e allevatore di cavalli nello stato di Washington. Dopo il messaggio, lui riattaccò subito. Cinque minuti dopo richiamò e invece di una voce umana sentimmo i latrati dei suoi due cani. Noi ci sbellicavamo dalle risate, compreso Ray che aveva finalmente apprezzato il lato umoristico dell’operazione che all’inizio gli era parsa solo bislacca.

Il nostro incontro successivo avvenne due anni dopo, nell’aprile del 1987, quando vennero a trovarmi a Roma, cambiando all’ultimo momento i piani che avrebbero dovuto portarli prima a Milano per il grande lancio che la Garzanti aveva organizzato nello spazio Krizia.  Ne approfittai per organizzare un loro reading alla Sapienza, dove lavoravo. Accettarono volentieri, ma né  io né loro ci aspettavamo che la cosa irritasse tanto i milanesi che vedevano così bruciare lo scoop mediatico da loro preparato con cura. Il loro intervento ebbe molto successo e fummo invasi da giornalisti che volevano intervistare Ray per la prima volta in Italia.

Ci eravamo lasciati con il regalo che Ray aveva fatto a me e al comune amico Gianfranco Palmery, che allora dirigeva una bellissima rivista letteraria, Arsenale. Ray ci diede il dattiloscritto del suo racconto più recente, “Errand” (“L’incarico”) : io l’avrei tradotto e Palmery pubblicato in anteprima europea (il racconto sarebbe stato pubblicato a giugno sul New Yorker). A ottobre uscì Arsenale e come d’accordo, ne inviammo delle copie a Tess e Ray. Stranamente, però, non ottenemmo risposta. Poco dopo, a dicembre, un poeta americano in visita a Roma, Gregory Orr, mi informò della malattia che aveva colpito Ray e che lo avrebbe ucciso nove mesi dopo. Scrissi subito a Tess e ricevetti conferma del calvario terapeutico intrapreso da Ray, per molti versi analogo a quello descritto nel summenzionato profetico racconto che narra gli ultimi anni del suo scrittore di riferimento, Anton Čhecov. Ci sentivamo abbastanza spesso, compatibilmente con gli alti e bassi della malattia. L’elemento di speranza era costituito dal fatto che continuavano a lavorare in maniera indefessa per finire un libro di poesie e un’antologia di racconti.

A giugno, la sorpresa di una telefonata di Tess che dal Nevada mi annunciava il loro matrimonio appena avvenuto. La sua voce era animata, ma con un sottofondo triste. Mi ha passato Ray perché potessi congratularmi anche con lui e a quel punto ebbi un’altra sorpresa: la voce di lui, di solito bassa e sussurrata, era diventata un falsetto strano, a causa degli effetti delle chemio- e radio-terapie cui era sottoposto. A prescindere dal piacere di risentirli, quelle voci cambiate mi lasciarono un brutto presentimento. Confermato ai primi di agosto con l’annuncio della morte di Ray.

Dopo questa traumatica interruzione la nostra corrispondenza è ripresa fitta. Nel 1990 Tess tornò in Italia. Quando l’andai a prendere a Fiumicino, tale era l’entusiasmo di rivederla che nell’abbracciarla le ruppi gli occhiali che portava attaccati al collo con un cordino. Passammo il nostro primo pomeriggio insieme alla ricerca di un ottico che trovasse una montatura adatta alle lenti…

In seguito ci siamo sentiti molto spesso perché traducevo le sue poesie e rimasi stupefatto dal suo istinto per cui approvava certe soluzioni su cui avevo faticato non poco, basandosi solo del suono delle parole, pur non sapendo l’italiano. I momenti più toccanti erano quelli in cui affrontavo le sue poesie più intimamente connesse con l’elaborazione del lutto per Ray. Temevo  che il groppo alla gola che mi prendeva quando lavoravo su queste poesie non fosse molto professionale e avrebbe interferito con la resa. Poi mi accorgevo che, alla fine del processo, l’effetto catartico della poesia si era in qualche modo trasferito anche nella traduzione e mi sentivo meglio.

Nel 1999 l’ho accompagnata al Festival della Letteratura di Mantova per celebrare Ray, di cui avevo intanto intrapreso la traduzione delle opere complete.

Altri incontri si sono susseguiti a Dublino; nelle sue case di Port Angeles, nell’estate del 2000, scena di bellissime passeggiate tra i fitti boschi dello Stato di Washington e di memorabili cene a base di granchio di Dungeness con sua madre Georgia, ex-boscaiola novantenne di notevole spirito e bellezza; e ancora in Irlanda del Nord e a Sligo nel 2004, dopo aver a lungo trepidato per la sua salute, per celebrare la sua guarigione; poi ancora nel 2015 a Galway e nel 2017 ancora a Sligo nel suo delizioso cottage sulle rive di Lough Arrow.

In tutti questi incontri, l’atmosfera di affettuosa simpatia reciproca è andata sempre approfondendosi e si è allargata al suo nuovo compagno Josie e ai suoi amici, ma anche a mio figlio Giacomo e sua moglie Claudia.

Una delle cose più utili che mi ha insegnato è il cosiddetto “metodo Gallagher” per ordinare in maniera ottimale una sequenza di poesie o di racconti prima della pubblicazione.  Il segreto è non tenere in mano i fogli in maniera seriale, ma spargerli “in parallelo” su un pavimento abbastanza ampio per poi mettersi carponi in modo da leggerli come una sorta di mappa e individuare così uno o più percorsi e insiemi coerenti ed efficaci. L’ho sperimentato più volte e funziona davvero.

Quando siamo insieme, io la chiamo Colibrì, nomignolo che lei ha adottato perché le piace il nome italiano del suo uccellino preferito (protagonista di una bellissima poesia d’amore che Ray le aveva dedicato): e forse è un nome azzeccato in quanto la sua umanità vibra in così rapida frequenza da far entrare in risonanza col suo fascino chiunque la incontri.

                                                                       Riccardo Duranti

                                                                                                 10 maggio 2021

Fonte

Tess Gallagher ha recentemente vinto il premio internazionale della Fondazione Roma – Ritratti di poesia. Autrice di poesie, racconti e saggi, divide il suo tempo tra Port Angeles, nello stato di Washington, e il suo cottage a Lough Arrow in Irlanda.

In Italia è apparsa per la prima volta sull’antologia Storie di ordinaria poesia, a/c di Riccardo Duranti (Savelli, 1982) e sulla rivista Arsenale. Donzelli ha pubblicato le poesie di Spontaneamente nel 1999; Minimum Fax i racconti di L’amante dei cavalli (1997) e i saggi di Io & Carver, letteratura di una relazione (1999); Empirìa i racconti Al saloon della donna-gufo (2008) e, infine, Einaudi Viole nere, poesie e racconti scelti (2014).

Is, Is Not, il suo più recente libro di poesie, ha ricevuto il premio Pacific Northwest’s 2020 Book of the Year.

I testi qui pubblicati, per sua gentile concessione, sono inediti.

In copertina