Neolatina #5 – Tour nell’«Africa» di Petrarca: «La vita è un viaggio in cielo»

Mi sono avvicinato all’Africa, il poema latino incompiuto di Petrarca sulla seconda guerra punica e Scipione l’Africano, assecondando quel senso del mistero cui accennavo nell’articolo inaugurale della rubrica Neolatina. Continuavo a chiedermi: a quale necessità emotiva e culturale obbediscono questi versi? Cosa vogliono dire le ispirazioni intermittenti, l’ossessione, la gelosia che si accompagnano alla sua stesura? Dove si nascondono le sue sorgenti?

Fase 1. Verso l’Africa

Prima di iniziare la lettura, sapevo che avrei potuto cercare una risposta alle mie domande nelle lettere di Petrarca. Ricordavo l’epistola a Ludwig van Kempen (Fam. I, 1), da cui si desume che l’autore riteneva il poema più importante degli altri suoi scritti (in volgare, ma anche in latino); e quella a Boccaccio su Dante (Fam. XXI, 15), dove egli lascia intendere che la poesia volgare, prioritaria per il poeta della Commedia, ha sempre rivestito ai suoi occhi minore importanza rispetto a quella latina.

Passi del genere non bastavano, però, a rinnovare le mie precomprensioni sull’opera, il cui nucleo più antico doveva risalire agli anni del liceo. Il manuale allora in uso dedicava ventotto righe all’Africa, sei pagine al Canzoniere. Si menzionava il compianto di Magone morente nel sesto libro, ma non si approfondiva il resto dell’opera. Ripensandoci adesso, era come se le dichiarazioni di Petrarca circa la superiorità del poema latino rispetto al Canzoniere fossero tanto bizzarre da contare più del poema stesso, e autorizzassero paradossalmente a ignorarlo. Il manuale in mio possesso era di seconda mano e, a margine del paragrafo che riguardava l’Africa, qualcuno aveva appuntato «NO» in inchiostro rosso.

La lettura integrale del Canzoniere è stata l’esperienza più radicale dei miei anni universitari, per motivi che mi ha chiarito più tardi Stefano Dal Bianco in un pezzo uscito su Le parole e le cose, ma la diffidenza nei confronti dell’Africa è perdurata fino allo scorso autunno. Forse agiva in me il dubbio che, a dispetto d’ogni evidenza, l’opera fosse davvero un «esercizio intellettuale», un «ingenii rudimentum». Certo, era curioso che quest’ultima espressione venisse piuttosto riferita da Petrarca – nella succitata lettera a Boccaccio – ai componimenti in volgare. Qualunque ne fosse la ragione, è sotto il peso di simili sospetti che, dopo due fallimentari tentativi, ho ripreso in mano il poema con l’intenzione di concludere il viaggio.

Fase 2. Africa tour

Superata la lunga dedica a Roberto d’Angiò, l’Africa raggiunge subito latitudini tipicamente petrarchesche: mentre Annibale si prepara ad attaccare Roma, il suo antagonista Scipione dialoga in sogno con il padre e lo zio, morti in un precedente scontro con i Cartaginesi. La scena si svolge in cielo tra i beati, in un’atmosfera onirica, sospesa, stellare. Pur essendo evocata di continuo, la guerra è come un rimbombo lontano.

Da questo momento in poi, tutto nell’Africa appare celestificato. La frequenza con cui la parola «mundus» ricorre nel poema è una delle spie più evidenti della distanza storica ed estetica che separa Petrarca da Virgilio: nell’Eneide se ne conta appena un’occorrenza, mentre solo nel secondo libro dell’Africa la parola appare nove volte. Il «mundus» petrarchesco sembra coagulare in sé tutti i fasti della teologia cristiana, l’iridescenza del mondo sensibile, il candore dell’etere (1).

Dopo il secondo libro, il teatro si sposta nella reggia di Siface, re di Numidia, in cui i Romani trovano un alleato. Descrivendo la sua reggia (III, 87-266), il poeta si compiace di incastonare il «mundus» in uno spazio ristretto, indugiando sulla lunga processione di pianeti, segni zodiacali, dèi pagani che ornano l’ingresso dell’edificio. Scipione stesso è celestificato, assurgendo al rango di un dio nelle parole dell’amico Lelio (IV, 34-114), e ancor più lo è la bellissima moglie del re Siface, Sofonisba (V, 10-69).

La fama di quest’ultima non è legata tanto al nome di Siface, quanto a quello di Massinissa, il re filo-romano che se ne innamora. Petrarca dedica il quinto libro dell’Africa all’infelice sorte dei due amanti. Quando, con improvviso rovescio di fortuna, Siface tradisce i Romani e ne viene sconfitto, Massinissa spera di poter vivere con serenità il suo sogno d’amore con Sofonisba. Scipione, tuttavia, si oppone al loro legame e nega l’affrancamento della regina numida dalla servitù che le spetta a causa della cattura del marito. Per evitarle quest’umiliazione, Massinissa invia all’amata un veleno con cui lei si uccide.

Donna fatale come la Laura del Canzoniere, Sofonisba ne condivide e ne esaspera i tratti ferini e mostruosi. In tal senso, non c’è personaggio che incarni meglio il doppio volto del poema, in cui alla celestificazione prima descritta fanno da contraltare la bestialità fraudolenta degli Afri, la pratica cartaginese dei sacrifici umani, la natura rettiliana e serpentesca di Annibale.

Ubicata sulla sponda opposta del Mediterraneo, Cartagine è lo specchio deformante di Roma, il suo perverso doppio. Ciò è tanto più vero quanto più si avvicina lo scontro fatale: in uno dei brani tradotti qui sotto, le due città personificate volano in cielo per chiedere l’aiuto di Giove; la loro nobiltà è affine, i loro gesti simmetrici, ma l’una è florida e ieratica, l’altra brutale e minacciosa (VII, 506-726).

Dopo la battaglia di Zama, che sancisce la vittoria di Roma e la fine della guerra, gli ultimi due libri riservano meno sorprese. Vi spiccano il naufragio dell’ambizioso console Claudio (VIII, 483-546) e il colloquio tra Scipione e il poeta Ennio che, durante la traversata di ritorno, racconta un sogno profetico sulla futura venuta di Petrarca (IX, 10-308). Al verso 483 del nono libro, il poema si interrompe bruscamente.

Fase 3. Mal d’Africa

Vale dunque la pena di leggere l’Africa, per puro piacere, nel 2022?

Io credo di sì, purché la si affronti con la coscienza che essa è un’opera eterogenea e piena di squilibri, tanto nella redazione quanto negli esiti. I brani memorabili non si limitano al compianto di Magone morente (VI, 885-918), la cui meritata fama e fortuna manualistica mi hanno indotto a escluderlo dal novero delle mie traduzioni, ma spaziano dalle singole sentenze a intere sezioni. Eccone due esempi (la prima rubata a Cicerone): «Vita via in celum est» (I, 487), «la vita è un viaggio in cielo»; «Iam sua mors libris aderit» (II, 455), «toccherà anche ai libri una loro morte».

L’intento delle seguenti traduzioni metriche (2), condotte secondo i criteri della rubrica, è quello di accompagnare il lettore in un tour dell’Africa che abbracci libri diversi senza rinunciare a un approccio tematico unitario. Minimi scarti sintattici o semantici rispetto alla lingua dell’originale o all’italiano corrente mi sono sembrati indispensabili per restituire, su un piano differente, la vitalità del testo latino e lo stupore che esso è ancora in grado di suscitare.

Luca Ferrari, Sofonisba, 1650 circa, olio su tela, Mosca, Museo Puškin.

I, 154-198 Scipioni pater vita defunctus per quietem occurrit

Has inter curas, ubi sensim amplexibus atris
Nox udam laxabat humum, Tithonia quamvis
Vxor adhuc gelidumque senem complexa foveret,
Necdum purpureo nitidas a cardine valvas
Vellere seu roseas ause reserare fenestras
Excirent dominum Famule que secula volvunt,
Fessus et ipse caput posuit. Tum lumina dulcis
Victa sopor clausit; celoque emissa silenti
Vmbra ingens faciesque patris per nubila raptim
Astitit ostendens caro precordia nato
Et latus et multa transfixum cuspide pectus.
Diriguit totos iuvenis fortissimus artus,
Arrecteque horrore come. Tunc ille paventem
Corripit et noto permulcens incipit ore:
“O decus eternum generisque amplissima nostri
Gloria, et o patrie tandem spes una labanti,
Siste metum, memorique animo mea dicta reconde.
Optimus ecce brevem, sed que, nisi despicis, horam,
Multa ferat placitura, dedit moderator Olimpi.
Ille meis victus precibus stellantia celi
Limina – perrarum munus – patefecit et ambos
Viventem penetrare polos permisit, ut astra
Me duce et obliquos calles, patrieque labores
Atque tuos, et adhuc terris ignota Sororum
Stamina, tum rigido contortum pollice fatum
Aspicias. Huc flecte animum. Viden illa sub Austro
Menia et infami periura palatia monte
Femineis fundata dolis? Viden ampla furentum
Concilia et tepido stillantem sanguine turbam?
Heu nimium nostris urbs insignita ruinis!
Heu nuribus trux terra Italis! iterum arma retentas
Fracta semel, vacuisque iterum struis agmina bustis?
Sic Tybrim indomitum, segnissime Bagrada, temnis?
Sic modo, Birsa ferox, Capitolia despicis alta?
Experiere iterum et dominam per verbera nosces.
Is tibi, nate, labor superest, ea gloria iusto
Marte parem factura deis. Hec vulnera iuro
Sacra michi merito, patrie quibus omne rependi
Quod dederat, quibus ad superos Mavortia virtus
Fecit iter: non ulla, meos fodientibus artus
Hostibus atque abeunte anima, michi multa dolenti
Occurrisse prius tanti solamina casus,
Quam quod Magnanimum post funera nostra videbam
Vltorem superesse domi. Spes ista levabat
Inde metus alios, hinc sensum mortis amare.”

I, 154-198 Scipione incontra in sogno il padre defunto

Fra simili pensieri – mentre dai suoi cupi abbracci
la notte andava liberando il suolo umido e ancora
la moglie di Titone riscaldava il vecchio gelido
nella sua stretta, né le serve che muovono i secoli
svegliavano il padrone o dai suoi cardini di porpora
scostavano le chiare porte o aprivano le rosee
finestre – posò il capo, stanco. Un dolce sonno, allora,
gli vinse gli occhi. Scesa giù dal cielo silenzioso
un’ombra vasta e, in corsa fra le nubi, la sembianza
del padre gli fu accanto, per mostrare al figlio amato
da punte numerose aperti il cuore, il fianco, il petto.
Per tutto il corpo il giovane agghiacciò, benché fortissimo,
dritti i capelli dall’orrore; quegli lo richiama
dalla paura e, dolce, con la sua voce di sempre:
«O eterno onore, o gloria grande della nostra stirpe –
dice, – o unica speranza della patria vacillante,
frena il timore e tieni a mente quanto sto per dirti.
Ecco, il buon re del cielo mi ha accordato poco tempo,
ma avrai motivo di gioirne, se non lo disdegni.
Vinto dalle mie implorazioni, mi ha dischiuso l’uscio
stellato dello spazio, dono raro, e a te ha concesso
di penetrare, vivo, entrambi i cieli e di vedere
le stelle sotto la mia guida, e le orbite traverse,
e le fatiche della patria, e le tue, e i fili ancora
ignoti fra noi delle Parche, e il fato che esse volgono
con dure dita. Drizza qui la mente: vedi a sud
quelle mura e la reggia infida sopra il monte ignobile,
fondate dagli inganni d’una donna, e i conciliaboli
grandi di folli, e la turba che gronda sangue caldo?
Ahinoi, città fin troppo nota per i nostri mali,
terra violenta con le nostre spose, provi ancora
le armi spezzate e schieri truppe fra le tombe vuote?
Così, Bagrada inerte, sprezzi il Tevere invincibile?
Così, feroce Birsa, l’alto Campidoglio? A prezzo
dei nostri colpi imparerai di nuovo chi è regina.
Ti avanza, figlio mio, questa fatica, questa gloria
con giusta guerra conquistata, che ti farà un dio.
Io per le mie ferite sacre – con cui ho restituito
alla patria i suoi doni, per cui il mio valore in guerra
mi ha fatto strada in cielo – giuro che, mentre i nemici
mi scavavano il corpo, mentre mi fuggiva l’anima,
il più grande conforto ad una simile rovina
era che in casa, dopo la mia morte, rimaneva,
grande, un vendicatore. Questa speranza addolciva
le altre paure, e la coscienza d’una morte amara.

I, 210-223 Scipione in caelum introgresso caelicolae obstupescunt

Infima si liceat summis equare, marina
Piscis aqua profugus fluvioque repostus ameno
Non aliter stupeat, si iam dulcedine captum
Vis salis insoliti et subitus circumstet amaror,
Quam sacer ille chorus stupuit. Namque hactenus ire
Et dolor et gemitus et mens incerta futuri
Atque metus mortis mundique miserrima nostri
Milia curarum, rapide quibus optima vite
Tempora et in tenebris meliores ducimus annos:
Illic pura dies, quam lux eterna serenat,
Quam nec luctus edax nec tristia murmura turbant,
Non odia incendunt. Nova res, auremque deorum
Insuetus pulsare fragor, pietate recessus
Lucis inaccesse tacitumque impleverat axem.

I, 210-223 Stupore dei beati di fronte all’ascesa di Scipione in cielo

Se mi è permesso comparare l’infimo al sublime,
come un pesce che sia evaso dal mare in un bel fiume
e, preda della sua dolcezza, a un tratto sia assediato
dalla potenza insolita del salso e dell’amaro,
così quel sacro coro si stupì: lassù finivano
le ire, il dolore, i gemiti, l’angoscia del futuro,
la paura della morte, le inquietudini infinite
del nostro mondo – vorticosi, noi in simili tenebre
trascorriamo qui l’epoca più bella della vita;
ma lassù è giorno chiaro – un lume eterno l’asserena,
né mai lo turba il pianto avido, il triste mormorare,
né gli odi mai lo bruciano; strano evento, il rumore
ignoto all’orecchio dei celesti aveva colmato
d’amore il cielo silenzioso, i covi della luce.

V, 10-63 Sophonisba

Ventum erat ad miseri felicia tecta tyranni,
Que merso malefida viro regina tenebat.
Hec subitis turbata malis in limine visa est
Obvia victori, si quam Fortuna pararet,
Tentatura viam dureque levamina sortis.
Vndique sidereum gemmis auroque nitebant
Atria: non illo fuerat rex ditior alter
Dum tenuit Fortuna fidem: nunc – fidite letis! –
Pauperior non alter erat: tamen omnia longe
Regia preradians vincebat lumina coniunx.
Ille nec ethereis unquam superandus ab astris
Nec Phebea foret veritus certamina vultus
Iudice sub iusto. Stabat candore nivali
Frons alto miranda Iovi, multumque sorori
Zelotipe metuenda magis quam pellicis ulla
Forma viro dilecta vago. Fulgentior auro
Quolibet, et solis radiis factura pudorem,
Cesaries spargenda levi pendebat ab aura
Colla super, recto que sensim lactea tractu
Surgebant, humerosque agiles affusa tegebat
Tunc, olim substricta auro certamine blando
Et placidis implexa modis: sic candida dulcis
Cum croceis iungebat honos, mixtoque colori
Aurea condensi cessissent vascula lactis,
Nixque iugis radio solis conspecta sereni.
Lumina quid referam preclare subdita fronti
Invidiam motura deis? divina quod illis
Vis inerat radiansque decor, qui pectora posset
Flectere quo vellet, mentesque auferre tuendo,
Inque Meduseum precordia vertere marmor,
Africa nec monstris caruisset terra secundis.
Hec, planctu confusa novo, modo dulce nitebant,
Dulcius ac solito; ceu cum duo lumina iuxta
Scintillant pariter madido rorantia celo,
Imber ubi nocturnus abit. Geminata superne
Leniter aerii species inflectitur arcus;
Candida purpureis imitantur floribus alme
Lilia mixta gene; roseis tectumque labellis
Splendet ebur serie mira; tum pectus apertum
Lene tumens blandoque trahens suspiria pulsu,
Cum quibus instabilem potuit pepulisse precando
Vnde nequit revocare virum; tum brachia quali
Iupiter arctari cupiat per secula nexu.
Hinc leves longeque manus, teretesque sequaci
Ordine sunt digiti, propriumque ebur exprimit ungues.
Tum laterum convexa decent, et quicquid ad imos
Membrorum iacet usque pedes: illosque moveri
Mortali de more neges; sic terra modeste
Tangitur, ut tenere pereant vestigia plante,
Ethereum ceu servet iter. Sic nube corusca
Obsita magnanimum Venus est affata Tonantem,
Naufragio nati seu morte impulsa nepotis
Dulcis opem sperare patris, dum Troia per undas,
Dum subterraneo tremuit pia Roma tumultu.

V, 10-63 Sofonisba

Giunse alle liete case del tiranno sventurato:
morto il marito, vi abitava la regina infida.
Comparve sulla soglia incontro al vincitore, scossa
dai suoi mali improvvisi, pronta a tentare ogni strada
della Fortuna, ogni conforto al suo duro destino.
Splendeva ovunque l’atrio di preziosi e d’oro, chiaro
come una stella: nessun re era stato mai più ricco
di lui, finché Fortuna volle, ma ora – abbiate fede
nella sorte propizia! – non ve n’era altro più povero;
sopra ogni luce, tuttavia, splendeva la regina.
Quel volto non l’avrebbero mai superato gli astri
del firmamento; anche col sole, sotto un giusto giudice,
avrebbe retto il paragone: bianca come neve
la fronte, da incantare Giove e – più d’ogni altra grazia
d’amante che mai avesse compiaciuto uomo volubile –
da far tremare la gelosa sorella; più splendidi
di tutto l’oro – il sole ne arrossiva coi suoi raggi –
e sparsi all’aura leggera i capelli ricadevano
sul collo, che si ergeva ritto, d’un color di latte,
e, sciolti, le coprivano a quel tempo le spalle agili,
ma prima in dolce gara li stringeva l’oro, avvolti
in pacifiche trecce; così mescolava il bianco
al giallo la sua grazia soave: non hanno un colore
simile vasi d’oro colmi di pastoso latte
né mai nevi perenni a un raggio limpido di sole.
E gli occhi, poi: sotto la fronte chiara desterebbero
l’invidia degli dèi. Divino fascino, radiante
beltà vi si annidavano, che avrebbero piegato
i cuori a tutto, gli animi strappato con lo sguardo
e, come già Medusa, trasformato in marmo i visceri –
né all’Africa sarebbero mancati altri prodigi.
Pregni di lacrime recenti, dolci rilucevano,
più dolci del consueto, come due stelle che brillino
piovose su nel cielo umido, l’una accanto all’altra,
quando cessa l’acquata della notte; quietamente
si curva in alto la visione dell’arcobaleno.
Le sue guance divine sono come gigli bianchi
misti a fiori di porpora; sotto le labbra rosee
splende l’avorio in ordine perfetto, e il petto aperto
spicca dolce e con un palpito lieve trae sospiri –
con essi aveva, a forza di preghiere, spinto il debole
marito là donde ora non poteva richiamarlo;
e braccia quali Giove intorno a sé vorrebbe avvinte
per secoli; le mani lunghe e lisce, levigate
le dita in successione, le unghie anch’esse come avorio.
E belle, poi, le curve dei suoi fianchi ed ogni parte
del corpo sino ai piedi: non si può chiamare umano
il loro movimento; tanto a stento tocca terra
che le tenere impronte del suo piede si dileguano
come avanzasse in cielo: così Venere vestita
di fumo luminoso parlò al nobile Tonante,
spinta a sperare l’aiuto del padre dal naufragio
del figlio o dalla morte del nipote, quando Troia
tremò fra le onde e Roma per tumulto sotterraneo.

VIII, 506-522 Roma et Carthago a Iove opem petiturae in caelum advolant

Lux ea terribili hinc illinc consumpta paratu
Cesserat et celso radiabant sidera celo.
Inclita magnificis opibus cultuque verendo
Ethereas matrona virens perlabitur auras.
Stat capiti diadema sacro turritaque frontis
Effigies sceptrumque manu, sed sparsa capillos
Et trepido festina gradu. Cui fervida contra
Multa minax mulier medioque perustior axe
Ac succincta sinus pauloque annosior ibat.
Illa quoque sceptrum et regni violenta gerebat
Signa, deos hominesque omnes regemque deorum
Aspernata animis. Ambe simul alta tenebant,
Quaque rubens Martis metuendi luminis astrum
Scorpio chelarum amplexu caudaque tegebat
Vtraque celestes pariter tempusque sub unum est
Introgressa fores. Illas mirantur euntes
Celicole: rapidos tenuerunt sidera cursus.

VII, 506-522 Roma e Cartagine ascendono in cielo per chiedere aiuto a Giove

Il giorno era finito, consumato in quei terribili
preparativi, e in cielo, alte, raggiavano le stelle.
Gloriosa dei suoi ricchi fasti e i nobili ornamenti
fluttua una dama florida fra i venti dello spazio.
Sul sacro capo porta un diadema; la sua fronte
cingono torri ed ha uno scettro in mano, ma scomposti
sono i capelli, e trema nella corsa. Le muoveva
contro, febbrile, minacciosa un’altra donna, a mezzo
cielo – arso il volto, l’abito succinto, un po’ più anziana –
munita anch’ella d’uno scettro e delle brute insegne
del regno suo, sprezzando dal profondo tutti gli uomini,
gli dèi, il re degli dèi. Insieme solcavano le altezze,
dove Marte il temibile col suo rosso brillio
occulta lo Scorpione nell’abbraccio delle chele
e della coda; e, ancora insieme, varcarono l’uscio
dell’etere. Ne ammirarono la corsa i celesti,
sospesero le stelle il loro rapinoso viaggio.

VII, 675-691 Iovis responsum:
quid deo placeat

«Pauca michi e cuntis que iam sub sole geruntur,
Pauca placent: quoniam terris incognita Virtus
Huc refugit, totiens de vobis questa, quod inter
Milia tanta hominum sibi vix contingat amicum
Invenisse aliquem. Me purpura vestra movebit
Forsitan, aut aurum prefulgens? Cernite celi
Hoc spatium! Gemmis forsan contingar Eois?
Hinc Oriente alio et circum radiantibus astris
Delector, meque ipse magis comitumque choreis.
Corpora qui placeant oculis mortalia nostris,
Aut fragiles artus, aut forma fugacior umbris?
Omnia sunt eterna michi, splendorque decorque,
Divitie stabiles mansuraque gloria regni.
At ne cunta sequar, Virtus michi clara placere
Sola potest animique habitus, quam dicere sedem
Ipse meam nunquam erubui. Sed rara per orbem
Hospitia invenio. Nunc vestra addiscite fata.»

VII, 675-691 Risposta di Giove alle due città:
il piacere divino

«Poco di quanto ormai si compie sotto il sole, poco
mi piace: la virtù, che in terra è sconosciuta, fugge
qui, lamentandosi di voi, perché le riesce a stento
di trovare, fra tante e tante miriadi di uomini,
uno che le sia amico. E a me farà specie la vostra
porpora, l’oro abbacinante? Ma osservate questo
pezzo di cielo! Come mi toccherà mai una pietra
d’Oriente? Ho un altro Oriente qui, ho raggianti stelle intorno,
e soprattutto ho me, e danze di spiriti seguaci.
Potranno mai piacere ai miei occhi corpi deperibili,
fragili membra, grazie che s’involano come ombre?
Tutto quel che ho è in eterno: chiarità, bellezza, solide
ricchezze, e questa gloria duratura del mio regno.
D’ogni altra cosa taccio. La virtù nobile e l’abito
del cuore che, senza vergogna, ho sempre ritenuto
casa mia, questo solo può piacermi. Ma di rado
trovo ricetto in terra. Ora apprendete il vostro fato.»


Note

(1) Sul tema della visione dall’alto in un altro poema latino avevo scritto in quest’articolo.

(2) Il testo da me utilizzato è quello di Nicola Festa, reperibile qui. I titoli in latino e in italiano sono stati aggiunti da me a scopo esplicativo. Non mi risulta che esista una recente traduzione italiana di tutta l’Africa. Chi volesse spingersi oltre questo campionario di brani potrà ricorrere alle versioni di Fabio Marretti (primi tre libri), Giovanni Battista Gaudo, Agostino Palesa, Agostino Baroli o a quelle in lingue straniere, e abbordare criticamente il poema a partire dagli studi di Vincenzo Fera. Fra i brani reperibili online segnalo il proemio tradotto da Lorenzo Carlucci e Laura Marino su Le parole e le cose.