Bloomsday 2021: Ulisse di Joyce in friulano?

Per il bloomsday, 16 maggio, il giorno dedicato a James Joyce riproponiamo un articolo che Flavio Santi ha pubblicato su Le diciture della Storia. Testi e studi offerti ad Angelo Stella dagli Allievi, a cura di Giovanni Battista Boccardo, Franco Pierno, Mirko Volpi, Salerno, 2018: una traduzione di un brano dall’Ulisse in friulano.


Nota introduttiva e traduzioni in italiano e friulano a cura di Flavio Santi.

Proponendo la traduzione di un brano dall’Ulisse, alla versione in italiano si aggiunge una libera trasposizione in friulano[1] – nella variante di Colloredo di Monte Albano, a cavallo tra il sandanielese e l’udinese. Questa “gionta” è meno peregrina di quello che potrebbe sembrare a prima vista, per una serie di motivi: negli anni trascorsi in Italia, a Trieste, a cui, com’è noto, risale l’inizio della stesura del romanzo, Joyce parlava (e pensava, con ogni probabilità) regolarmente in triestino, e non è da escludere, dunque, che conoscesse il vicino friulano, che spesso faceva capolino anche a Trieste; strutturalmente (e musicalmente[2]) il friulano è molto più vicino all’inglese dell’italiano, per via della prevalenza di parole monosillabiche e bisillabiche tronche (si pensi, ad es., a un vocabolo come sun che si avvicina di più all’inglese sound che all’italiano suono), riuscendo così ad arginare, almeno in parte, quella prima difficoltà traduttiva che, a detta di Ernst Jünger, «ha la sua origine anzitutto nelle vocali»[3] – un impianto, quello fonetico, che rischia di saltare del tutto nel passaggio dall’inglese all’italiano.

Dunque – per quanto possa suonare paradossale a prima vista – una traduzione in friulano potrebbe addirittura avvicinarsi di più al cuore linguistico joyciano[4] – anche alla luce del plurilinguismo di quell’opera “totale”, fatta di tutte le lingue del mondo, che è il Finnegans Wake[5].


Dalla Parte Terza

Nella ferma convinzione che il “testo a fronte” vada offerto anche per i testi in prosa – per la poesia è prassi editoriale abbastanza consolidata –, ecco il testo inglese, esemplato sull’edizione londinese di Egoist Press dell’ottobre 1922, che di fatto è una ristampa della prima edizione parigina di alcuni mesi prima:

English version

Adjacent to the men’s public urinal they perceived an icecream car round which a group of presumably Italians in heated altercation were getting rid of voluble expressions in their vivacious language in a particularly animated way, there being some little differences between the parties.
Puttana madonna, che ci dia i quattrini! Ho ragione? Culo rotto!
Intendiamoci. Mezzo sovrano più…
Dice lui, però!
Mezzo
Farabutto! Mortacci sui!
Mr Bloom and Stephen entered the cabman’s shelter, an unpretentious wooden structure, where, prior to then, he had rarely, if ever, been before; the former having previously whispered to the latter a few hints anent the keeper of it, said to be the once famous Skin-the-Goat Fitzharris, the invincible, though he wouldn’t vouch for the actual facts, which quite possibly there was not one vestige of truth in. A few moments later saw our two noctambules safely seated in a discreet corner, only to be greeted by stares from the decidedly miscellaneous collection of waifs and strays and other nondescript specimens of the genus homo, already there engaged in eating and drinking, diversified by conversation, for whom they seemingly formed an object of marked curiosity.
– Now touching a cup of coffee, Mr Bloom ventured to plausibly suggest to break the ice, it occurs to me you ought to sample something in the shape of solid food, say a roll of some description.
Accordingly his first act was with characteristic sangfroid to order these commodities quietly. The hoi polloi of jarvies or stevedores, or whatever they were, after a cursory examination, turned their eyes, apparently dissatisfied, away, though one redbearded bibulous individual, portion of whose hair was greyish, a sailor probably, still stared for some appreciable time before transferring his rapt attention to the floor. Mr Bloom, availing himself of the right of free speech, he having just a bowing acquaintance with the language in dispute though, to be sure, rather in a quandary over voglio, remarked to his protégé in an audible tone of voice, apropos of the battle royal in the street which was still raging fast and furious:
—A beautiful language. I mean for singing purposes. Why do you not write your poetry in that language? Bella Poetria! It is so melodious and full. Belladonna voglio.
Stephen, who was trying his dead best to yawn, if he could, suffering from lassitude generally, replied: —To fill the ear of a cow elephant. They were haggling over money.
—Is that so? Mr Bloom asked. Of course, he subjoined pensively, at the inward reflection of there being more languages to start with than were absolutely necessary, it may be only the southern glamour that surrounds it.
The keeper of the shelter in the middle of this tête-à-tête put a boiling swimming cup of a choice concoction labelled coffee on the table and a rather antediluvian specimen of a bun, or so it seemed, after which he beat a retreat to his counter, Mr Bloom determining to have a good square look at him later on so as not to appear to… For which reason he encouraged Stephen to proceed with his eyes while he did the honours by surreptitiously pushing the cup of what was temporarily supposed to be called coffee gradually nearer him.
—Sounds are impostures, Stephen said after a pause of some little time, like names. Cicero, Podmore. Napoleon, Mr Goodbody. Jesus, Mr Doyle. Shakespeares were as common as Murphies. What’s in a name?

Traduzione italiana

Proprio accanto al vespasiano pubblico i due notarono un carretto dei gelati intorno al quale un gruppo di italiani, forse friulani, stava litigando animatamente, liberando nell’aria certe capricciose espressioni di quel loro linguaggio colorito, in modo particolarmente vivace, essendo sorte alcune questioni tra i contendenti.
«Can da l’ostie, i bês! O soi tal iust, no mo? Disgrasiât!»
«Ma alore… miece monede in pui…»
«Al dis lui…»
«Miece eh.»
«Disgrasiât d’un bastardat. E dute le so famee!»
Mr Bloom e Stephen si rifugiarono nella tana del cocchiere, un ligneo gabbiotto senza arte né parte, prima di allora soltanto di rado, nel caso, battuto da Bloom, il quale aveva fatto in tempo a sussurrare al compagno qualche cenno inerente al vecchio proprietario, doveva essere stato il famoso – un tempo – Scannabue Fitzharris, l’Invincibile, benché non potesse certo metterci la mano sul fuoco, anzi forse non v’era alcuna traccia di verità in quelle affermazioni. Pochi istanti dopo ed ecco i nostri due nottambuli comodamente seduti in un angolino discreto, succulento oggetto degli sguardi di una composita congerie di sbandati e sballati, nonché improbabili esemplari del genere homo, già alle prese col mangiare e il bere, tra miriadi di conversazioni, e ai cui occhi i Nostri dovevano sembrare due ben strani soggetti.
«Ci vuole un bel caffè» azzardò Bloom nel comprensibile tentativo di rompere il ghiaccio. «E mi pare che lei dovrebbe mettere sotto i denti qualcosa di solido, tipo un panino ecco.»
Conseguenza di quel primo atto fu il proverbiale sang-froid con cui, con estrema calma, scandì le ordinazioni. Il profanum vulgus di vetturini, stivatori e umanità assortita, dopo un rapido esame, si voltò altrove, piuttosto deluso, ad eccezione di un beone, barba di bragia e cernecchi cinerei, forse un nocchiero, che non li perse di vista per un certo arco di tempo, salvo poi degnare il pavimento dello stesso sguardo sfingeo.
Mr Bloom, avvalendosi della facoltà di libera espressione, aveva per altro una grama confidenza con la lingua dei litiganti, e parecchi dubbi su voglio, si rivolse al suo protégé con un tono di voce piuttosto alto, a proposito della battaglia campale che imperversava ancora per strada, dura e pura: «Meravigliosa lingua. Per cantare, direi. Perché non scrive poesie in quella lingua? Bella poetria! Sì melodiosa e rotonda. Belladonna voglio…».
Stephen, che sbadigliava a più non posso per via di una spossante fatica in tutte le membra, ribatté: «Perfetta per assordare i timpani d’un’elefantessa! Per quattrini stan questionando…».
«Davvero?» chiese Mr Bloom. Va da sé, aggiunse cogitabondo, nel suo foro interiore, tanto per cominciare ci sono più lingue di quante ne servano, può darsi che tutto dipenda dal fascino mediterraneo che da sempre circonfonde la suddetta.
Nel bel mezzo di questo tête-à-tête il padrone posò sul tavolo una tazza bollente e spumeggiante di un intruglio ribattezzato caffè, e una porzione antidiluviana di una specie di panino, almeno ne aveva le vaghe sembianze. Dopodiché l’uomo batté in ritirata al bancone. Mr Bloom era deciso a squadrarlo per bene, ma dopo, che non si dicesse che… Ragion per cui con gli occhi incoraggiò Stephen a procedere, mentre lui si dedicava alla tazza di quella broda surrettiziamente chiamata caffè, pian pianino spingendola verso di sé.
«I suoni ingannano» sentenziò Stephen, dopo una pausa di qualche secondo. «Come i nomi. Cicerone, Culone, Napoleone… Goodbody, Gesù, Doyle… Shakespeare era un nome esattamente come Murphy. Cosa c’è in un nome?»

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James Joyce che fa finta di saper suonare. Qui la fonte.

La versione in Friulano

Dongje dal pissadôr public e an cjatât un cjaruč dai gjelâts e atôr dal cjaruč un grum di int (talians a semeavin) al barufavin cun fûc garb e rabiôs te lôr lenghe garibaldine, soredut parcé e vevin ideis un ticut diferentis su ce fâ.
«Puttana madonna, che ci dia i quattrini! Ho ragione? Culo rotto!»
«Intendiamoci. Mezzo sovrano più…
«Dice lui, però!»
«Mezzo.»
«Farabutto! Mortacci sui!»
Blum e Stiven e son lâs a parâsi tal casot di len une vore modest dal naulisin, dulà che prime di alore Blum no l’ere mai lât – bon, nome di râr –, e prin dut câs al veve contât al so soci dal vieri paron de barache – bon, al doveve jessi il famôs Sfrantumin Sfizeris, l’Insuperabil, ma bon no l’ere dal dut sicûr di cheste storie, forsi no l’ere nancje dal dut vere cheste storiace, cui ch’al sa po… Dut câs pôcs minûts e i doi gnotui a son sentâts benonon tun biel cjanton, e cumò li’ cjale di brut une bande une vore miscliciade di bastardons e bastardats e altri’ omenats non propit cristians, duč ingrumâts tal mangjâ e il bevi, a tonâ e breghelâ come mats, e cjatavin i nestri’ doi une robe strampe e foreste.
«Cumò a ûl un tajut…» al diseve Blum sugjerimentôs par rompli la glace. «O penzi che lui al dovaress cercjâ alc di peng, une pinze…»
Dît e fât cul so tipic sangue freddo Blumal fa li’ ordenasions. Il volgo, naulisins, marinârs, marangons e int svariade li’ cjale un pôc ma a colp un ticut deludût lase stâ, nome un omenat, forsi marinâr, barberosse e cjavei grîs, nol mole e li’ cjale ancjemò par un biel pôc, ma tal ultin cun chele cjalade fisse al finis par cjalâ i soi pîs. Blum, cu le so libertât di peraule, ancje se no al cognos benonon chele lenghe, al a une vore di dubis sun tune peraule, voglio, al so protetto al fevele a vôs fuartone, su chele batae une vore dure e penge là di fûr pe vie:
«Bielissime lenghe… par cjantâ disin… Ma parcé lui no al scriv alc in talian? Puisiis? Bella poetria! Al è ‘ne lenghe cun tun sun cusì biel e plen. Belladonna voglio…»
Stiven a l’ere une vore strac, al veve intôr une cloparie e nol finive di sossedâ, ma tal ultin al a rispuindût: «Bon, iust par sclopâ li’ oreglons d’un elefanton. Al barufin pai bês.»
«Pardabon?» Blum nol crodeve. Ancje se, al pensave dentri dal so cjavon, vin pui lenghes di che ch’al covente, forsi a l’è nome il striament dal Tacco, al è simpri stât cusì.
Ma in chel mismas rive il paron de barache e al poe sue taule une tace stracjalde e straplene, une trapule, une robe strampe – al dovaress jessi vin cui ch’al sa – e un toc preistoric di pan o une robe dal gjenar. Il paron al torne svelt al so bancon. Blum no lu piardarà di voli, sigûr, al a decidût, ma daspò non subit, par non fâ crodi che… Cusì cun tune voglade al fa mot al so soci di tacâ, e ancje lui al tache la so tace di chele robe, da cualchi bande lu clamin vin, al tache plan planin…
«I suns a son ingjanadôrs» al dis Stiven, po dopo. «Tanche i nons. Ciceron Cormor Napoleon… Gurice Jesù Gubane… Sciecspir a l’ere ordenari tanche Sciampo. Ma alore ce isal tal non?»

*


[1]             Con un gioco di specchi, nella traduzione italiana i contendenti italiani diventano friulani, anche se verosimilmente sono romani, come si evince dall’espressione finale «Mortacci sui». Inoltre, questa diversificazione consente anche che la stratificazione linguistica del testo originale non vada perduta nel passaggio all’italiano.

[2]             G. Celati, Il disordine delle parole. Su una traduzione dell’«Ulisse» di Joyce, in J. Joyce, Ulisse, Torino, Einaudi, 2013, pp. V-X, alla p. VIII: «Per questo non è importante capire tutto: è più importante sentire una tonalità musicale o canterina […]. L’Ulisse è un libro in cui la musicalità è l’aspetto decisivo».

[3]             La frase si legge nella postfazione, ricca di spunti traduttivi, di Andrea Molesini, Nella macina della risacca, in D. Walcott, Omeros, Milano, Adelphi, 2003, pp. 561-81, alla p. 579.

[4]             Di questa prossimità tra dialetti del Nord Italia e lingua inglese è convinto anche M. Bocchiola, Mai più come ti ho visto. Gli occhi del traduttore e il tempo, Torino, Einaudi, 2015, p. 9: «alcune pieghe della non traducibilità dell’inglese nell’italiano, quando la lingua d’arrivo è un dialetto […] si appianano».

[5]             Per il quale si registra un rinnovato interesse in seguito alle traduzioni di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone che stanno uscendo in questi anni: ai capitoli 1 e 2 del Libro terzo. (Milano, Mondadori, 2017) seguiranno i capitoli 3 e 4 e il quarto libro, previsti entro il 4 maggio 2019, ottantesimo anniversario della pubblicazione dell’opera.


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Flavio Santi vive tra la campagna pavese e quella friulana. Ha tradotto autori classici (tra cui Hermann Melville e Francis Scott Fitzgerald) e contemporanei (Wilbur Smith e Ian Fleming tra gli altri). Insegna all’Università dell’Insubria di Como-Varese. Autore di numerose raccolte di poesia (l’ultima Quanti per Industria&Letteratura) e di diversi libri di prosa (con Aspetta primavera, Lucky, Socrates, 2011, è stato candidato al Premio Strega). Nel 2016, per i tipi di Mondadori, è uscita la prima indagine dell’ispettore Drago Furlan. Molte sue opere sono tradotte in diverse lingue, dall’inglese all’indonesiano. È tifosissimo dell’Udinese, e coltiva un piccolo orto.


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Foto in copertina di Lluìs Tudela