Cadere come forma di resistenza. Un testo di Joshua Groß con fotografie di Tobias Zielony

Credo che molto sia possibile attraverso la forma e la lingua. Anche nella resistenza contro le cose come già le conosciamo, nello scalzarle, sospenderle, superarle o trascenderle. Con strumenti diversi cerco di penetrarle scavando il più a fondo possibile. Di arrivare il più vicino possibile alla realtà delle cose o alla loro reale sensazione. Forse è possibile trovare una lingua per questo. Per la combinazione di messa a nudo di una sensazione molto individuale, e, contemporaneamente, di questa percezione del mondo. Sviluppare un linguaggio che sia in grado di far comprendere in modo anche poetico il mio essere invischiato nel mondo – 

dice Joshua Groß, nato nel 1989 a Grünsberg, in Baviera. Questa frase, tratta da un’intervista con la rivista online PRÄ|POSITION, riassume il nucleo attivo della scrittura di questo autore tedesco, che, cominciando a scrivere molto giovane, ha già ricevuto moltissime borse di studio e premi. 

Il testo qui proposto, ERST KOMMT DIE ZEIT INS STÜRZEN, DANN DIE ERDE (PRIMA PRECIPITA IL TEMPO, POI LA TERRA), è stato pubblicato nel 2021 dalla casa editrice Spector Books di Lipsia e dal Museo Folkwang di Wuppertal come parte di un progetto di collaborazione dell’artista Tobias Zielony con giovani scrittori. 

Ciò che rende sintomatica, necessaria la scrittura di Joshua Groß è il tentativo di comprendere la realtà del presente attraverso una fragilità e una sensibilità individuali portate all’estremo. Attraverso un’esposizione totalmente inerme Groß cerca di recuperare una qualche forma di autenticità, per quanto fragile e imperfetta, anche nella lingua. 

Mark Fischer parla di ‘precorporazione’. Del fatto che siamo ormai talmente inquinati e che la nostra percezione è prefabbricata. In questa situazione non si tratta di scavare più a fondo, quanto di andare oltre. Per riuscire a percepire diversamente. Credo che ci sia qualcosa di giusto in questo. Se non si riesce a uscire da questa precorporazione non so come si possa immaginare un cambiamento. Forse bisogna esporsi al predeterminato a un punto tale, penetrarlo e decostruirlo al punto da riuscire a portare alla luce qualcosa. È possibile. Ma io non ci credo. Deve aver luogo una decostruzione, una decomposizione. Eppure bisogna andare altrove. Arrivare là dove non si è ancora.

Nella sua scrittura Joshua Groß fa esattamente questo: mette in gioco il proprio intero essere, anche fisico, come una sorta di Silver Surfer o skater virtuale – come se nella scrittura fosse possibile mettere a repentaglio quella integrità che non si sa rischiare – a volte – di fronte a una scalinata o ad una rampa reale. Con questa sua scrittura come azzardo estremo della sensibilità, attraversando le molteplici dimensioni e piani in cui il nostro vivere si articola, sia fisicamente che virtualmente tra i media più disparati (cinema, arte, musica, scrittura, giochi elettronici, televisione), riesce a cogliere quelle che sono le fragilità, le crepe del presente. 


PRIMA PRECIPITA IL TEMPO, POI LA TERRA

di Joshua Groß, tradotto dal tedesco da Ginevra Quadrio Curzio

cadere-joshua-groß-tobias-zielony

In una giornata torbida di primavera ero sulla diga dell’Okertal, nello Harz, sopra la traversa di contenimento. Guardavo giù, in un precipizio di 75 metri, nella valle che si apriva titubante in un corridoio stretto, leggermente torto. Guardavo nei boschi verde scuro di conifere. Sporgendomi oltre, sopra il parapetto, vidi le reti anti-suicidio tese forse cinque metri sotto di me, a maglie larghe, consunte dalle intemperie. Parevano comunque resistenti. All’improvviso mi travolse un desiderio irreale di saltare dalla diga, di cadere e di atterrare subito dopo nelle reti di protezione. Le vertigini in me scatenano sempre il desiderio di cadere. E qui avevo la sensazione di poter cadere, ma senza conseguenze. Sentivo che avrei potuto cedere al mio desiderio senza per questo dover necessariamente morire. Immaginai il modo in cui sarei stato insensibilmente fermato dalla rete, con uno strappo, mi sarei rotolato sulla schiena, tremante e un po’ goffo, ansimando. Immaginai l’arrivo dei vigili del fuoco. Immaginai un camion dei pompieri sul ciglio della diga, anche se non è molto realistico. Immaginai una cima calata fino a me perché potessi riarrampicarmi fino in cima, lungo la scarpata di cemento grezzo. Mi pareva quasi un esperimento in cui ero messo faccia a faccia con la mia curiosità. La mia curiosità che forse è anche la mia paura. Riflettei su me stesso; sul fatto che mi piace immaginare di cadere, che esiste una caduta nella fantasia che mi appare desiderabile. E che voglio cadere, ma senza dovermi schiantare. Come so che accade nei sogni, in cui la caduta diventa un processo di avvicinamento, in cui posso approssimarmi a terra senza mai atterrare, una sensazione di intensità crescente e di tensione nervosa al tempo stesso – soprattutto perché non sono sogni lucidi, ma la caduta è qualcosa che subisco. La caduta prende possesso di me. Solo nella fantasia riesco a controllarla o anche a renderla proficua.

Sul ciglio della diga, dovetti pensare anche alla prima scena del film Cuore di vetro, di Werner Herzog, in cui il profeta bavarese Hias, sdraiato su un prato in montagna, comincia un monologo sullo sfondo di musica psichedelica e mentre per minuti interi si vede l’immagine di una cascata scrosciante. Hias dice: “Il mio sguardo va oltre l’orizzonte, sino ai confini del mondo. Il giorno non è ancora giunto a termine, ma la fine è qui, davanti a me. Prima precipita il tempo, poi la terra. Le nuvole impazziscono, il suolo ribolle. Questo è il segnale. È il principio della fine. L’estremo limite del mondo comincia a sprofondare, tutto sprofonda; si rovescia e cade, cade, continua a cadere. Guardo nello sprofondo. Sento un’attrazione. Mi tira, mi risucchia verso il basso. Cado, precipito, la caduta mi dà le vertigini… Ecco, ora guardo in un punto preciso dell’acqua che precipita. Cerco un punto a cui i miei occhi possano aggrapparsi. Divento leggero. Sempre più leggero. Tutto diventa leggero. Volo verso l’alto…”

Il crollo che sfocia in caduta di solito pare così definitivo, è impensabile senza l’impatto. Nel monologo di Hias però la caduta si rovescia e si innesca un’inversione. Dal cuore della caduta nasce un cambiamento; l’inevitabile si ammansisce, gli si può sopravvivere. Nell’allucinazione è possibile resistere alla gravità. Così Marcus Steinweg dice che il movimento caratteristico della filosofia è il salto, ma anche la caduta: si può cadere “all’ingiù o all’insù”, si “perde il controllo di ciò che si fa”. È un sollievo, soprattutto se gli ordinamenti che ci circondano ci stanno stretti. Ma se, nel tentativo di conquistare nuovi territori, si riesce a mollare la presa, allora le causalità possono spogliarsi della loro corazza. La caduta non deve necessariamente essere legata alla terra, talvolta non ha fine. La caduta può avere un potere sovversivo.

Facciamo che sono sempre qui, sul ciglio della diga. Mentre respiro tranquillo, il tempo attorno a me comincia a precipitare. (Non sarebbe sbagliato qui immaginare alcuni effetti speciali dei film Marvel, come quando Doctor Strange usa la pietra del tempo.) Siamo nel 2002. L’estate del mio tredicesimo compleanno. Quasi ogni giorno dopo la scuola attraversavo Altdorf in bicicletta per ciondolare con i miei amici. Eravamo appena arrivati al punto che l’alcol non bastava più; quando nei giardinetti del quartiere c’erano scambi di droga io ero lì. Per me era troppo, perché ero soft, anche se in realtà non volevo darlo a vedere. L’adrenalina che entrava in circolo durante i furterelli per me era a malapena sopportabile. Contemporaneamente mi sentivo ardito e scafato. Era come un gioco, un gioco adolescenziale, strabordante; essere più furbi dei detective del negozio, più della polizia, dei vicini malfidenti con un passato nell’esercito che ci inseguivano fin dentro ai boschi vicini. Un paio di volte quasi mi acchiapparono o fui sul punto di finire male, ma me la cavai ogni volta. Nessuna conseguenza. Quando i genitori degli amici erano fuori c’erano ravioli in scatola e Smirnoff Ice e si giocava alla Playstation. Era una vita che tenevo segreta a mia madre. In genere mi sentivo la coscienza sporca. Un po’ pensavo di essere spregevole.

cadere-joshua-groß-tobias-zielony

Era appena uscito Dilemma di Kelly e Nelly Rowland; e oggi posso dire che vivevo quello che Mark Fischer definisce “l’edonia depressa” dei giovani. Questa condizione descriverebbe “non tanto l’incapacità di provare piacere, quanto l’incapacità di non inseguire altro che il piacere. La sensazione è che ‘manchi qualcosa’, ma questa non si traduce nella considerazione che tale misterioso e introvabile appagamento possa essere raggiunto solo al di là del principio di piacere.” Noi tutti ci abbandonavamo alla sfera del principio di piacere, era il nostro terreno di caccia, una sorta di frenesia.  A tratti però potevamo anche abbandonare questa sfera ed esistere al di là del principio di piacere, ad esempio quando si trattava di obblighi familiari o di fare i compiti. Era importante fare abilmente il pendolo tra le due sfere. Anche per non essere sopraffatti, in un futuro, dal proprio desiderio sul ciglio di una diga.

Ricordo ancora come il mio migliore amico mi persuase a fare una consegna di droga. Dato che ricevevo una paghetta piuttosto esigua e a confronto con i miei amici vivevo in modo abbastanza ascetico, mi lasciai convincere che la vendita di Marijuana potesse essere per me un buon affare, perché erano soldi facili e veloci. Avrei dovuto vendere qualche grammo di erba al fratello maggiore di un conoscente. All’ora convenuta ero sotto un lampione, col cuore in subbuglio, e aspettavo, in un pomeriggio grigiastro, ma caldo. Divenni nervoso. Mi chiedevo per quale motivo la consegna dovesse avvenire sulla strada principale, invece che nel quartiere, come di solito. Passavano macchine. Mi sentivo sospetto. A un certo punto l’acquirente arrivò. Mi metteva in soggezione anche solo per il fatto che era più grande di me. Con una stretta di mano complicata e troppo lunga ci scambiammo la bustina e un biglietto di banca. Ringraziò con un cenno (titubante? Imbarazzato? Impacciato?) e levò le tende. Difficile dare più nell’occhio, mi dissi. I miei nonni abitavano vicini e avrebbero  potuto passare di lì da un momento all’altro. Poco dopo anche io mi allontanai con passo strascicato, riflettendo intanto che non avevo la più pallida idea di Crime life (ed era vero). Sudato e tremante consegnai il denaro al mio migliore amico, che credeva di essere Pablo Escobar. Non sto esagerando. Davvero era convinto di essere Pablo Escobar. Come ho detto, avevamo tredici anni. L’unico libro che c’era nella cameretta del mio migliore amico era la biografia di Pablo Escobar; non ne aveva letto un gran ché. E io nemmeno lontanamente immaginavo quali mondi fossero in agguato in quel libro. Il mio miglior amico mi spiegò come, insieme, dai cinquanta euro che aveva ricevuto da sua nonna avremmo potuto produrne in brevissimo tempo diverse migliaia. Rimasi colpito dal Return on Investment atteso secondo il suo calcolo. Il fatto che pensasse di poter scalare a piacere il suo piano di business non mi dava da pensare. D’altro canto però ero abituato alla mia relativa povertà, così che il suo piano mi parve alla fine dei conti troppo ostico. E nonostante continuassi a incontrarmi con i miei amici, mi tenni fuori dai traffici di droga.

Il fatto che da lì in avanti si trattasse principalmente di procurarsi e di vendere erba non tardò a stufarmi. Avevo una percezione acuta dell’illegalità di ciò che facevamo. Accompagnai i miei amici ancora un paio di volte nel bosco, dove si costruivano dei bong con le bottiglie della Fanta, ma non fumavo con loro. Cominciai invece a andare in skateboard.

Lo skatepark consisteva di due quarterpipe e una piramide; tutti gli elementi erano costruiti in calcestruzzo. C’erano poi anche un barile arrugginito, un rail di ferro e, all’altra estremità della distesa di asfalto era stato montato un canestro. Di solito il cielo mi appariva opprimente, gonfio, non come se fosse vasto e fatto di molecole gassose che rifrangono la luce del sole, ma piuttosto come un assembramento stordito di striature gelatinose. A volte il cielo si addensava completamente; non avevo dubbi che fosse molto più impenetrabile di quanto non pensassimo. Presto passai tutti i pomeriggi lì, fuori dalla città, oltre la barriera antirumore, di fianco ai campi di calcio dell’FC Altdorf. Una nuova zona industriale era in costruzione, vale a dire che un gran numero di terreni incolti, dalla vegetazione inquieta, erano perimetrati con piccoli pezzi di legno spruzzati di arancione fluo. Le strade appena costruite venivano usate da camionisti e camioniste per le loro soste. Per il resto c’erano solo campi e prati fino all’autostrada; nei pressi c’era un fienile con alcuni pneumatici da trattore accatastati lungo le pareti.

cadere-joshua-groß-tobias-zielony

Sono sempre stato un pessimo skater. Non ero abbastanza convinto di me stesso. Avevo paura di cadere, paura di ferirmi. Non riuscii mai a capire se avrei potuto essere bravo, perché ero troppo insicuro. I pericoli mi parevano semplicemente mostruosi. Nonostante questo ero determinato e desideravo migliorare ad ogni costo, ma non ero in grado di mettere a repentaglio il mio corpo. Quando ero sugli halfpipe, o mi dirigevo verso i gradini di una scalinata, percepivo in me un rifiuto. Quasi tutti gli skater (solo maschi) erano più grandi di me. Ad esempio Emilio, i cui genitori avevano una pizzeria. Indossava sempre vestiti di marca e sullo skate era elegante e spericolato; le sue cadute, le sue escoriazioni non facevano che esasperare l’ammirazione che provavo per lui. Rideva molto. Era allegro, cool e ambizioso. Imparava costantemente nuove mosse. Di sfuggita lo sentii raccontare delle sue avventure amorose. Ero colpito. Ma credo che lui nemmeno mi vedesse.

Una volta dal quartiere vennero allo skatepark anche i miei amici. Non avevano la più pallida idea di cosa fare lì. Presto divennero inquieti. Cominciarono a battibeccare e bere Berentzen Apfel. Frustrati, perlustrarono la zona, anche se non c’era molto da scoprire. Il custode dell’FC Altdorf li scacciò dai campi da calcio, quindi si diressero al fienile. Io non ci badavo, invece continuavo ad andare in skate.

Improvvisamente, il fienile era in fiamme.

I miei amici accorsero strillando con il loro baggypants a vita bassa. Restammo perplessi a guardare le fiamme ribollire arancioni, rosse, oltre il tetto del fienile, fino al cielo; ora potevo vedere la massa gelatinosa addensarsi e indurirsi sempre più. Nel frattempo i miei amici ricapitolavano l’accaduto: avevano dato fuoco alle gomme da trattore per scoprire cosa sarebbe successo. A me sembrava che il cielo presto avrebbe cominciato a defluire. Immaginavo gocce dense, mucillaginose, uno sciogliersi del cielo. Ci volle un po’ prima  che arrivassero i Vigili del Fuoco. I miei amici si dileguarono immediatamente nella zona industriale. Li vidi correre a perdifiato nella sterpaglia a altezza di ginocchio e riparare dietro al capannone di una fabbrica. Poi osservai lo spegnimento dell’incendio. Ecco che accadde un’inversione. Mentre ero lì – lontano, distaccato, quasi estatico. Sentivo l’aria ardente che mi sfiorava la pelle, il vibrare della rada peluria lanuginosa sul corpo. Il camion dei pompieri non era lontano dal fienile. Due vigili del fuoco dirigevano un tubo giallo verso le gomme da trattore in fiamme. Ma le fiamme fecero autonomamente dietrofront: a partire dai loro disperati apici tremolanti, quasi trasparenti, rifluirono verso il focolaio dell’incendio, si annidarono sempre più in se stesse, si aspirarono – e anche il getto d’acqua non schizzava fuori dal tubo, ma si materializzava improvvisamente a mezz’aria e, vibrando per la pressione, era risucchiato dentro alla lancia, spumeggiando precipitoso, e fin dentro al serbatoio del camion dei pompieri. Mentre ero lì – forse con le allucinazioni? – sembrava che sempre più acqua si materializzasse in un unico punto – “… ora guardo in un punto preciso dell’acqua che precipita…” –  per essere da lì incessantemente risucchiata nel serbatoio del camion.

Mi posi una domanda: quanto ci vorrà perché il camion dei pompieri esploda?

Sudavo. Lì fermo – appoggiato alla mia tavola da skate. Per quanto? Finché l’incendio non fu spento, finché il fienile non continuò ad esistere senza più bruciare, finché non se ne andarono i Vigili del Fuoco. Più avanti, avrei letto in Jorge Luis Borges: “Noi abbiamo la sensazione di scivolare via da noi stessi nel tempo; ovvero, ci piace pensare che ci muoviamo dal futuro al passato o dal passato al futuro” – ma in ultima analisi io non mi muovo affatto, sono solo sopraffatto dall’intreccio temporale in cui sono implicato.

La stessa vertigine mi assalì di nuovo anni più tardi. Nel frattempo vivevo a Norimberga. Volevo andare a trovare mia madre, e attorno a mezzogiorno presi il metro di superficie per Altdorf. Avevo forse ventun anni. Alzai gli occhi dal libro che stavo leggendo e vidi Emilio, seduto a qualche posto di distanza. Indossava una tuta da lavoro sporca. Aveva l’aria sfinita e sembrava violentemente invecchiato. Ebbi un soprassalto. L’aura eccitante che emanava un tempo era completamente svanita. Fui pervaso da una tristezza insidiosa, anche inappropriata. Cosa era mai accaduto, mi chiesi. In apparenza entrambi ci eravamo allontanati dal nostro passato di skater e io mi arrovellavo quasi disperatamente su cosa fossimo diventati. Eravamo diventati due esseri umani che per caso siedono nello stesso scompartimento di un treno; io sapevo qualcosa del passato di Emilio, ma Emilio probabilmente non sapeva nulla di me. Guardava il suo smartphone, giocava a Tetris. I nostri sguardi si incrociarono per un istante, senza risvegliare alcunché: nessun riconoscimento, nessun cenno del capo, nessun gesto di familiarità. La luce poltigliosa del sole era resa alternativamente e quasi contemporaneamente visibile e invisibile dalla successione confusa degli alberi che costeggiavano i binari. Mi concentrai su quello e percepii la luce che penetrava in me, le mie pupille che dopo poco smettevano di reagire, il nervo ottico sovraeccitato. Poi sentii che in Tetris avveniva un’inversione; i blocchetti non cadevano più dal margine superiore del display, ma  si materializzavano a livello del suolo, uno dopo l’altro. Poco dopo parvero essere attratti dal loro luogo d’origine e cominciarono a salire, di diversi colori. Salivano quasi per magia e si dissolvevano progressivamente dalla schermata. Emilio continuava a giocare, mentre tutto quello che riguardava questa azione avveniva a rovescio. I blocchetti cadevano verso l’alto. C’era un’elevazione, si diffondeva un sollievo, ma solo parziale, incapsulato nelle restanti causalità, che attorno a noi continuavano ad agire come d’abitudine. Potevo quasi vedere Emilio che sorrideva. Non ci volle molto per arrivare ad Altdorf. Ci separammo e continuammo quelle che erano diventate le nostre vite, ognuno per conto suo uscimmo dall’inversione.

Mi chiedevo: quanti blocchetti possono ammucchiarsi in cielo prima che esso ceda e ci rovini addosso?

Anneke Lubkovitz scrive, a proposito di un particolare tipo di caduta nei giochi per computer: “Mi affascinava in particolare il falling through the map, quando un carattere viene inghiottito da una strada o da un paesaggio con un difetto di programmazione. Lo spazio sotterraneo che si apre in questi casi, secondo la logica del gioco non dovrebbe affatto esistere, e di conseguenza assomiglia quasi sempre a una specie di paese delle meraviglie – lì dove un istante fa c’era un prato ora si distende un lago dentro a una grotta fatata fatta delle piante definite solo a mezzo delle case tra le quali si camminava fino a poco prima. Precipitando in un vuoto para-celeste si poteva dunque ammirare il rovescio del mondo del gioco, che rivelava la griglia grafica di base, corpi cavi fatti di superfici poligonali.”

cadere-joshua-groß-tobias-zielony

Per il mio sentire si spalanca qui una vera e propria dimensione altra, che esorbita la scoperta del rovescio del mondo del gioco. I personaggi cadono attraverso la mappa, nello strapiombo, ininterrottamente. Non c’è fine. Il terreno cede, i personaggi svaniscono senza più appiglio – precipitano attraverso strati di antimateria programmata, infinitamente fuorviati, che appaiono a ripetizione in un lampo, impossibili da percorrere. Ad ogni passo delle figure è necessario un nuovo calcolo che decida della portata del terreno su cui poggiano. Se il calcolo fallisce, comincia la caduta. Non capita quasi mai, ma capita. Quando si cade giù, attraverso la mappa, non c’è più impatto, è questo che rende attraente la cosa. Non esiste più la rete anti-suicidio, niente più indicazioni di altezza, nessun processo di avvicinamento… Solo il semplice stato del cadere, in un certo senso messo a nudo. Bisognerebbe interrompere il gioco, per fermare questa caduta inimmaginata. Altrimenti non ha fine. Mi pare che qui si sia insediato il mio desiderio, in questo falling throgh the map. Certo, vorrei che il movimento potesse essere invertito, nel senso di Steinweg. Cadere verso l’alto attraverso la mappa, attraversare ripetutamente strati di antimateria programmata in un percorso ascendente infinito, senza bisogno di bombole d’ossigeno. Non voglio nemmeno suggerire che qui insorga una sensazione da astronauti. Non si tratta di abolire la gravità o di abbandonare l’atmosfera terrestre. Piuttosto, il movimento si inverte lasciando immutato l’ambiente circostante: ciò che accade cadendo verso l’alto sarebbe qualcosa di inerente alla struttura della nostra realtà. Ma ciò a cui siamo abituati sarebbe, almeno parzialmente, sospeso. Cadrei verso l’alto e percepirei ciò che mi sta intorno. E forse potrebbe rivelarsi in questo anche una seconda inversione. Cadendo verso l’alto mi soffermerei a osservare quello che ho intorno che mi sfreccia accanto, precipitando verso il basso. Proprio come immagina la fine del mondo il profeta Hias: “l’estremo limite del mondo comincia a sprofondare, tutto sprofonda”. Le superfici non esistono più. Mi muoverei oltre le superfici, dedito al principio di piacere, ma non mancherebbe nulla.

E quando finalmente venisse interrotto il gioco, davvero finirebbe un mondo. E potrebbe cominciarne uno nuovo.

Benché tutto sembri preordinato, benché il tempo si trascini avanti nella melassa della sua impossibilità di invertire la rotta, il falling through the map in Anneke Lubkovitz suscita dubbi. Secondo lei “il confine tra passato e presente, qui e là, è tutt’altro che impenetrabile, ed è indubitabilmente possibile cadere fuori dallo schema rigido del qui e ora”. Noi supponiamo di progredire nel tempo, nella durata ci addizioniamo a noi stessi. Per noi, tutto è una sequenza. Jorge Luis Borges dice: “Il tempo è successione”. Ma cosa accade se qualche volta ho le allucinazioni? Se imparo almeno in parte a percepire diversamente il tempo?

Non voglio dire che allora percepiremmo tutto come se stessimo andando all’indietro. Piuttosto, che attorno a me potrebbero esserci deformazioni psichedeliche della struttura che contrastano il mio essere ingabbiato, che risparmiano al mio vissuto della realtà il senso di claustrofobia.

Riferimenti:

Jorge Luis Borges, L’ultimo viaggio di Ulisse, in Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2001.

Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma 2018.

Werner Herzog, Cuore di vetro, 97 minuti, 35mm, colore, 1976.

Anneke Lubkowitz, Falling through the Map, Sukultur, Berlin 2018

Markus Steinweg, Subjekt und Wahrheit, Matthes & Seitz, Berlin 2018.

Markus Steinweg, Philosophie der Überstürzung, Merve-Verlag, Berlin 2013.


Joshua Groß è un giovane autore tedesco che ha già ricevuto diversi premi, tra cui i più recenti sono l’Anna-Seghers-Preis (2019), lo Hölderlin-Förderpreis (2021) per il suo romanzo Flexen in Miami e il Literaturpreis della A und A Kunststiftung. È tra i curatori dell’antologia Mindstate Malibu. Ha pubblicato fino al 2019 con la starfruit publications di Führt, piccola casa editrice che coltiva un’idea di libro di cui l’immagine e la grafica sono parte integrante; dal 2020, con il romanzo Flexen in Miami, i suoi libri sono pubblicati dall’editore berlinese Matthes & Seitz.

Thobias Zielony, nato nel 1974 a Wuppertal, ha studiato fotografia a Newport, in Galles. Le sue fotografie portano avanti uno studio della vita degli adolescenti e dei giovani nelle periferie e nella provincia, cercando di ritrarne l’incerta identità. Nel 2010 ha realizzato il progetto “Vele” in collaborazione con la Galleria Lia Rumma, dedicato al complesso residenziale di Scampia, nella periferia nord di Napoli. Il progetto è stato presentato in due importanti mostre personali al MAXXI di Roma e al Philadelphia Museum of Art nel 2012. Nel 2015 è stato tra gli artisti invitati a esporre nel padiglione tedesco della 56a Biennale di Venezia.  

Si ringraziano Joshua Groß e Tobias Zielony per il permesso di ripubblicare queste opere, precedentemente apparse in The Fall (Spector Books, 2021).

Le fotografie appartengono alla serie The Fall, 2021. Stampa Inkjet, dimensioni variabili – Berlino, Bochum, Chemnitz, Düsseldorf, Gelsenkirchen, Kleve, Osaka, Ramallah, Seoul, Shanghai, Tokyo, Toyota City, Valletta, Wuppertal. Le fotografie della Ruhr sono state realizzate su commissione della Ruhrtriennale 2021.


Leggi tutti i nostri articoli di traduzioni!