Editoriale #1 – L’immagine come forma di intelligenza

Nelle prime settimane di vita di lay0ut pubblicheremo cinque editoriali, a firma delle persone che ne hanno inaugurato lo spazio. Sono legenda capricciose e inaffidabili, hanno la pretesa di svelare a chi legge (ma anche a chi scrive) la vertigine di un’idea, di mettere in parole e immagini un’atmosfera, avviare il processo di un’intuizione. Resta dar prova delle intenzioni: a ogni editoriale seguirà un articolo. Questo primo editoriale riguarda la categoria traduzioni.


Poetry is a real canary in a coal mine, and we know why the caged bird sings.

Lawrence Ferlinghetti

Stamattina, mentre scorrevo il feed di Instagram, la mia attenzione è stata assorbita dalla sfolgorante anteprima gialla di un reel. Il mio pollice ha arrestato il fluire incessante delle immagini e ho lasciato che il video si riproducesse per intero: ho visto un tizio sbloccare la tastiera dello smartphone e digitare un numero per chiamare un taxi al proprio indirizzo di casa. Ecco che il veicolo giallo si è manifestato all’istante dentro la casa, sfondando la parete e atterrando nel centro della stanza. Il tassista si è rovesciato fuori dal finestrino ma lo ha fatto in modo del tutto irreale, scomponendosi in una miriade di canarini gialli svolazzanti. Il tizio del reel, visibilmente spaventato, ha chiamato subito per annullare la prenotazione, e nello stesso momento il tassista si è ricomposto in forma umana, il taxi è uscito dalla stanza e la parete è tornata intatta. Inebetito da quello che è appena accaduto, indeciso se credere o meno all’incubo ultrarapido che gli si è manifestato davanti agli occhi, il nostro uomo ha digitato nuovamente il numero del taxi: ma non appena il suo dito si è levato dal tasto dell’ultima cifra, la parete è esplosa, il taxi è riapparso e il tassista è uscito dal finestrino in un turbinio di alette gialle pigolanti.

Anche voi lo avete visto, vero? Non è da escludere: l’Algoritmo è una sorta di Spiritello dell’etere che distribuisce i propri doni per graziosa concessione secondo l’ammontare delle ossessioni in cronologia, la categoria dei consumi, la qualità dell’interazione. Se non lo avete visto, immagino che farete il login su Instagram o Facebook o Youtube per trovarlo. Cercate bene: la sequenza di immagini che vi ho descritto potrebbe essere in un qualsiasi angolo del www, appesa a una qualsiasi chiave di ricerca. Se voi che leggete siete Digital Strategist di Deliveroo o Amazon probabilmente avrete trovato l’idea per pubblicizzare l’abbonamento vip, ma prima di una sua potenziale speculazione commerciale, questa scena ha una potenzialità che dobbiamo provare a interrogare.

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Pensiamoci: l’immagine che vi ho raccontato non ci sembra poi così folle. Non più. Come tante altre, la visione surreale ha l’irruenza di un’esplosione, eppure viene restituita dal social network che la ospita in modo referenziale, come un evento ordinario. L’effetto speciale non ha più niente di speciale: è un pezzo di ricambio nella catena di montaggio delle scene che costruiscono il nostro sterminato orizzonte di realtà. Con l’urto della propria forza, l’immagine ha generato per noi un’esperienza clamorosamente effimera: in modo istantaneo ha permeato una nuova porzione di immaginario che fino a un secondo prima non esisteva in quella forma, esattamente come il taxi di cui ha bisogno il tizio del reel. Le immagini che noi fruiamo grazie ai media hanno la capacità di renderci continuamente desideranti, famelici e curiosi di rappresentazioni – e non ci accorgiamo più che la realtà al di fuori del digitale si sgretola di fronte agli occhi di nessuno, letteralmente nessuno (per citare un meme) che la guarda. La realtà diventa un grandioso effetto speciale del virtuale. Vogliamo vedere l’imitazione, la rappresentazione mimetica della realtà più di quanto ci interessi conoscerla effettivamente: abbiamo il diritto di vederla, perché i media ce lo promettono e permettono. Nessuna realtà ormai ci può bastare, ne abbiamo a sufficienza.

L’immagine che abbiamo visto esaurirsi in breve tempo e poi ricominciare in loop sullo schermo dello smartphone è implosa dentro di noi: i suoi detriti stanno calcificando nella spirale a doppia elica del nostro modo di pensare e conoscere il mondo. Diventeranno ernie, ma chi se ne frega? Stiamo solo aspettando che qualcuno ci dica se la rappresentazione a cui abbiamo assistito è vera o no, se è un fake, una pubblicità, una performance, un montaggio. Dobbiamo ancora fare delle ricerche su Google, solo dopo usciremo di casa per affondare lo sguardo da qualche altra parte, se proprio dobbiamo. Del resto memoria, sensibilità, facoltà conoscitiva dello sguardo e intelligenza sono tutti device in versione obsoleta: ora abbiamo gli screenshot, i cloud, le storie in evidenza.

Cercate dunque il video del taxi, cercatelo ovunque: non lo troverete. Non esiste (ancora). L’incubo che vi ho raccontato è in realtà la parafrasi di una poesia in prosa di Russell Edson (The Taxi, in The reason why the closet-man is never sad, 1977). Dagli anni Sessanta e fino ad oggi, ereditando la precedente tradizione e scrivendo nelle modalità più disparate, alcuni poeti statunitensi hanno deciso di lavorare sulla cosiddetta Deep image, trasferendo nel vortice del contemporaneo la rivoluzionaria corrente modernista dell’imagismo dei Pound, degli Eliot, dei Crane.

«The word deep wasn’t intended to convey a sense of profundity, pseudo or otherwise, but to show that the direction of seeing in this kind of image is into a man rather than outside him: not a habit of the eye so much as a penetration of the self to refocus on the world through the eyes-of-feeling.» (Jerome Rothenberg, uno dei teorici della Deep Image)

Molti di loro hanno perseguito l’idea di poesia come «visione non ufficiale dell’esistere» (Stevens), lo hanno fatto senza censure o intellettualismi, lasciando che la poesia fosse il proiettile (parafrasando un concetto teorico di Olson) che tira la linea capace di bucare in un colpo la mente e la realtà tramite un’immagine o una serie di immagini sconvolgenti (anche per irrilevanza). Rileggendo i loro testi a distanza di qualche decennio, ci siamo resi conto di quanto seguire le direzioni, le deviazioni linguistiche e concettuali del loro sguardo poetico su di sé e sul mondo sia un atto necessario a comprendere la vita delle immagini (Simic) in cui noi stessi siamo immersi.

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Il titolo di un saggio di Robert Bly (Field 24, 1981)

Noi di lay0ut abbiamo deciso di compiere una libera archeologia del contemporaneo nel contemporaneo tramite la riscoperta e la traduzione dei poeti americani di quegli anni: scaveremo a fondo dove in pochi si sognerebbero di farlo, interrogheremo coloro che prima di noi hanno tentato l’impresa, dragheremo, troveremo fiumi carsici o vicoli ciechi nelle fogne, ci faremo trascinare dalla controcorrente fino alle scritture dei giorni nostri. Verificheremo la futuribilità del passato nel presente e del presente nel passato. Nuoteremo a vista, attraversando le esistenze misteriose dei poeti che hanno vissuto dall’interno della Storia il dramma di essere vertiginosamente fuori dalla Storia. Di fronte ad essi tratterremo il respiro. Non li giudicheremo: li faremo parlare nella nostra lingua. Proveremo a ri-conoscerci in una lingua straniera, a frantumarla e ricomporla in un turbine di canarini gialli. Alla fine della giornata torneremo a casa in taxi, una volta tanto fidandoci ciecamente dell’autista.