I simboli non vanno in malora – Sul Libro del Sangue di Matteo Trevisani

Quando ho cominciato a leggere Libro del Sangue di Matteo Trevisani, pubblicato nella collana Blu di Atlantide, in un Frecciarossa per Firenze, mi è tornato in mente questo ricordo, questo evento, che è il mito fondativo (recente), circolare in qualche modo, quindi nato dal sangue come ogni fondazione, della mia famiglia: la caduta, non la morte, della mia bisnonna Rosa dalle scale della chiesa di Sambatello, un quartiere di Reggio Calabria, il giorno del suo centesimo compleanno.[1] Mi è stato impossibile durante tutta la lettura distogliere il pensiero da quel ricordo. In effetti, il romanzo di Trevisani ha soprattutto un grande merito: avviare il lettore a un’iniziazione, volente o nolente, alla genealogia. Meglio riavviare, perché tutti prima o poi hanno dei conti in sospeso con i morti, o con la morte (una mia zia che, dal nulla, tira fuori uno schemino senza linee, solo nomi come per la formazione di una squadra, della sua famiglia, nascosto in una vecchia cassetta sotto la televisione, fino a me. [2]).
Matteo, l’io lirico del racconto (di autofiction, si intende), ripete più volte che il dolore dell’indagine genealogica è un dolore egocentrico, che riguarda la morte. Perché chi ci ha preceduto ci insegna, condividendo con noi più quota percentuale del nostro DNA del resto delle persone, in modo dettagliato (proprio nel dettaglio nei libri religiosi si addensano le storie profetiche) la morte come evento totale, retroattivo attivo proiettivo (la fine della fine…):

“Tutti noi siamo gli effetti di chi ci ha preceduto. Consapevolmente o inconsapevolmente è quella la storia che dobbiamo ripetere, il nostro modo per farli essere in vita.”

Irving Penn, Food Photography

Attivandosi questo discorso-pensiero parallelo, come un rumore di fondo, contestualmente alla narrazione del Libro del Sangue, si raggiunge un po’ di confusione ontologica, forse. L’effetto è dirompente soprattutto perché il romanzo inizia come fosse un horror, e il pericolo suo diventa nostro: Matteo riceve per mail un albero genealogico che ha già iscritta la sua morte, a pochi giorni dal presente romanzesco. L’evento lo costringe a riprendere in mano, con nuova verve, la ricerca che aveva condotto un decennio prima con l’aiuto di Alvise, esperto genealogista, e sua figlia Giorgia. Aveva cominciato la ricerca perché desiderava comprendere la portata di una maledizione: tra i suoi antenati molti sarebbero da marinai morti in mare. Adesso ricominciava perché in ballo c’era la sua morte, la sua resa dei conti. Il nuovo schema è identico eccetto per alcuni dettagli, da qui la grande curiosità o il turbamento che porta il protagonista a conseguenze sempre più estreme (alcuni generi più di altri seguono l’idea della peripezia e da un cominciamento tutto sommato moderato, in termini di velocità, cominciano a precipitare).

Mi sono chiesto a lungo quale meccanismo fosse dietro questo libro. Penso che dietro ci sia il funzionamento del pensiero ossessivo, perché come il protagonista asseconda la maledizione, e prima la lacuna, così l’ossessivo asseconda il pensiero e, credendo che questo sia l’unico modo per liberarsene, per risolverlo, in realtà ne rimane succube. Non posso non citare Ottiero Ottieri (Il pensiero perverso):

Nudo il cervello si muove e sposta coi sussulti,
le esplorazioni da faro dell’ossessione impaziente,
perché la gente aspetta. Non può aspettare la gente
il figlio del travaglio
mongoloide forgiato dal maglio
che fora il tubo di ferro e d’aria.
Troppo corta è sempre la notte
per il pensiero ossessivo, di natura
infinito. Il pensiero
ossessivo pensa sempre più dentro
e sempre più fuori del mondo

Tutto quadrerebbe: coloro che non assecondano il contenuto della profezia (su tutti la moglie di Matteo, Melissa, e il figlio Cosmo) semplicemente non ne vengono toccati; poi, da un punto di vista narratologico, poco o niente accade fuori dalla mente del protagonista, che rimugina e dà al passato e al presente, nel senso dell’intreccio, medesima “dignità”. Non c’è, davvero, presente narrativo, c’è un passato per flashback e un presente che ha il linguaggio del flashforward; per Beatrice La Tella, su Altri Animali, è una simultaneità, una sorta di appiattimento temporale. Per me il passato e il futuro genealogico, entrambi appiattiti, in effetti, su un grafico, sono trattati alla stregua del mito, che è tutt’altro che presente in senso temporale (sul mito in questo libro è brillante Gianluigi Simonetti, su Tuttolibri, che sottolinea anche lo stile “eccitato”, sempre in tensione – aggiungo io estremamente assertivo). Il libro tra l’altro è sdoppiato: una parte in tondo alterna, come detto, gli eventi in senso stretto tra passato e futuro, cioè le due indagini genealogiche; una parte in corsivo, più “rituale”, dove non sempre soggetti oggetti e formule hanno un denotato riconoscibile. Quest’alternanza sarebbe tutta mentale, se non fosse per una certa dimensione simbolica che condivide le sue ragioni più col genere (a questo punto un horror nostrano, alla Landolfi) che con la psicopatologia, ha a che fare con la “scienza sacra”.

Irving Penn, Food Photography

Quindi la dimensione simbolica e sovrannaturale. A partire dagli aspetti materiali del libro, come la copertina, il frontespizio, persino elementi extratestuali afferenti all’autonarrazione social di Trevisani (il trittico di stampe di Jean Olivier Heron che ha pubblicato su Facebook), al centro c’è la balena, il Maraviglioso mostro che si spiaggiò davvero a Fermo nel 1735: a quel punto Matteo, e forse Trevisani, riconducono la fondazione recente della linea, il momento del riconoscimento, della palingenesi anche. Mi piacerebbe dare a questa balena le misure del gigante nella migliore delle puntate della seconda stagione di Love, death and robots (Netflix): differentemente dalla balena, che muore fuori dall’acqua, il ragazzo gigante è annegato: la popolazione si avvicina al cadavere e comincia a punzecchiarlo a giocarci come i passanti col corpo di Marina Abramovic in una delle sue celebri performance. Da un lato l’esposizione di un cadavere mostruoso, che, in un periodo così suscettibile alla superstizione, diventa dizione e quindi, alla fine, maledizione (un unico uomo non lo rifugge, Giuseppe – o Giuseppe Antonio, “come si chiamerà poi” – specchiandosi in un occhio); dall’altro l’esposizione di cadavere umano, spettacolarizzato (alcune sue ossa, poi, vengono ritrovate come cimeli nei pub del paese). In entrambi i casi, nel libro e nel cortometraggio, ciò che più mi colpisce è la totale assenza dell’olfatto: queste carcasse non puzzano, non vanno in putrescenza perché i simboli non vanno in malora.

Se la genealogia permette a Trevisani di oltrepassare, in qualche modo, una narrazione tradizionale traducendola in ricerca e da qui in rimuginìo, la balena cioè l’araldica (che è anche un pupazzo, in mano al figlio e prima nelle mani sue da bambino) è il topo che permette un oltrepassamento della dimensione di significato reale per il simbolo. Capite che non è questione, ancora, di contenuto ma di forma, di coordinate in un asse, x e y, per l’immaginazione di un mondo (una trasformazione). Un meccanismo doppio, che prende la retta psicopatologica e la retta sovrannaturale mescolandole – non è, forse, la storia di un uomo che [spoiler fino a fine paragrafo] pone fine alla sua vita per la convinzione che solo suicidandosi avrebbe liberato la sua famiglia dal peccato del sangue?

Senza z il libro si sfalda, come senza costa. Questa profondità è il contenuto o lo scopo del libro nel libro. Gli antenati e la linea del sangue ci destinano prima di tutto in senso psicologico, cioè formale [3]: è scontato che si avveri ciò che il pensiero e la maledizione prescrivono, perché non esiste, per l’ossessivo e il maledetto, un “di fuori”, un aldilà di principio. Lo fanno attraverso il rituale (il corsivo) e il simbolo (la balena, il serpente), non potendo comunicare ma fare, esclusivamente, espressione (connotazione). Come può difendersi, e da una cosa e dall’altra, lo scrittore col suo io lirico? Creando un doppio.

Irving Penn, Food Photography

Non sarei riuscito a risolvermi in questa critica senza l’immagine di Matteo Trevisani che, durante una delle prime presentazioni di questo libro al Monk di Roma, con Nadia Terranova, prende suo figlio sulle ginocchia. Il gesto liberatorio di Matteo all’interno della finzione romanzesca è reale. Non è un caso se la balena è almeno, prima di tutto, metafora della narrazione, da Giona a Pinocchio: Trevisani sa che scrivere, cioè raccontare, significa fare profezia di un futuro noto (come direbbe Adriano Prosperi per la Storia) e, per antipatologia o per superstizione, produce un demone (la pasta sfoglia di Michele Mari) e lo asseconda fino alle estreme conseguenze: la storia [spoiler fino a fine paragrafo] si conclude con Matteo che si sacrifica in un rituale pagano per la salvazione del suo doppio reale, genetico, suo figlio, generando un doppio, un clone identico ma fuori dall’ossessione e dalla superstizione, anche nella finzione (visto che Trevisani pratica davvero la genealogia), che finalmente si ricongiunga con l’autore reale: “Quello che conta è che loro, per la prima volta da sempre, non subiranno la perdita e l’abbandono e un cadavere che manca.

Qui l’esigenza tutta personale di trovare un modo o uno spazio per liberarsi: cercare nella ripetizione di, filologicamente, emendare l’errore, perché siano migliori di noi, coloro che vengono (come dice mio padre, scherzando: pensavo di averti dato tutti i miei pregi, e così tua madre. La verità è che siete noi all’ennesima potenza, nel bene e nel male). Forse quello di Trevisani è un rituale, destinato a che. [4]

Irving Penn, Food Photography

[1] Il ventiquattro gennaio duemilaequattordici ero a Sambatello, un paese talmente piccolo che è considerato soltanto un quartiere di Reggio Calabria: compiva cento anni mia bisnonna Rosa. Io e mio padre l’abbiamo portata di peso giù dalle scale perché era costretta sulla sedia a rotelle e poi su per gli scalini della chiesa. Un’altra casa, se si vuole, perché sia un suo fratello sia uno dei suoi figli hanno preso i voti e sono diventati sacerdoti, entrambi deceduti. Rosa sopravviveva a suo marito, ai suoi figli, a sua figlia Mema morta di cancro, come altri, al seno e a suo figlio Pepè, affetto da trisomia ventuno, l’unico che ho conosciuto. In chiesa, il parroco durante l’omelia ha preso a lodare il suo attaccamento alla chiesa, la naturale continuità tra la sua famiglia e la famiglia di Dio. A un punto, con l’arroganza timida dei parroci giovani, ha preso in mano da una carpetta un documento di nascita: ho scoperto che, addirittura, la longevità di Rosa è più importante di quanto pensavamo (mentre RTV, la televisione reggina, riprendeva con uno zoom), questo foglio certifica che Rosa ha centoquattro anni, non cento, e che è nata nel millenovecento e non nel millenovecentoquattro. Tutta la famiglia, che occupava le prime tre panche, ha rivolto lo sguardo sull’unico fuoco: io ero vicino e lei muoveva piano la testa, con il rosario in mano. Diceva: no, no. Il resto della navata applaudiva e anche noi con meno convinzione e forse meno gioia. Significava che la festa, che tutto il programma perdeva completamente di significato. Chiedendo silenzio il parroco riprendeva: significa anche che è la donna più anziana del paese, non me ne vorrà la Signora ***, che ha solo centodue anni. Avrei scoperto solo dopo, dopo l’uscita dalla chiesa, dopo la sua caduta, per disattenzione, dalla rampa delle scale, dopo il tonfo sordo e il sangue rossissimo che si allargava sulle piastrelle della piazza, dopo la corsa in ospedale con mia madre nei sedili posteriori a fianco a lei, che piangeva e diceva non voglio morire Rosa, non voglio morire (portano lo stesso nome), e mia madre ma nonna, che vuoi vivere ancora? hai centanni, cercando di ridere, hai centanni e lei piangeva non voglio non voglio, io sentivo un rumore sordo come un acufene di tamburo, seduto su quegli stessi scalini, poi tornando tutti in casa, con il ristorante che ci portava tutte le portate come fosse un catering, queste pile di scatoloni in plastica grigia e questi uomini queste donne vestiti per l’occasione come becchini, solo dopo tutto questo avrei scoperto che quel certificato non apparteneva a mia nonna ma alla sua sorella maggiore, maggiore per modo di dire morta poco dopo essere nata. Non mi ha più abbandonato l’idea che mia nonna abbia vissuto così tanto come avendo sottratto a quella bambina il suo tempo, in una stregoneria. Mia nonna è morta col primo vero freddo da cent’anni a questa parte a Reggio, un giorno di gennaio duemilaquindici, nella sua casa a Sambatello. Il giorno dei suoi cent’anni tornava fasciata in tutta la testa e ripeteva soltanto vado a sdraiarmi, e noi no hai una commozione cerebrale.

[2] La foto che ho sul cellulare ritaglia il foglio a righe, tre paia di gambe e del marmo. Si va indietro di almeno un secolo e a fianco al nome di mio nonno Demetrio, di mio prozio Carmelo e di mia prozia Caterina c’è un “Giuseppe (morto a cinque anni)”. Questa cosa dei nomi in periodo di battesimo deceduti troppo presto ci viene come un incubo. In capo un “Marra Santo (detto Zachi)”, che con l’inversione di nome e cognome dà la misura della lontananza anche per mia Zia Tita che lo ricorda. Quando le chiedo cosa significhi, Zachi, lei non sa rispondere, mentre Carmelo a fianco dice una delle sue cose, un po’ fuori asse, mostrando una possibile continuazione della demenza.

[3] C’è una esistenza estremamente formale nella genealogia. Non saprei come dirlo altrimenti: forse le Somiglianze di famiglia di Matteo Pelliti (Industria&Letteratura), con prestito da Wittgenstein, centrano il punto. Il legame metaforico è un ponte che riattiva il legame, che vivifica l’eredità, al punto da ribaltare i rapporti: “Essi, loro i pronomi della lontananza, / della distanza, della genealogia, della progenitura, / gli antenati, gli spettri evocabili, / avi, trisavoli, / siamo noi i loro fantasmi possibili, / noi evocati / dall’anteriorità, noi / posteriori, prodotti ultimi e provvisori.” E vi dico di controllare anche nei testi di Andrea De Alberti, dalle sue sole buone notizie.

[4] Che maledizione possa scorrere nella mia famiglia non so. Ci sono tanti non detti, un’eredità forse baronale, ma da bastardi, più il sacerdozio (o un’origine, ancora, slava, medievale?). Poi il nonno che portava il mio nome, Demetrio, che è morto di cancro, come molti altri. Un cancro che lui ha voluto nel suo letto, mentre era nato mio fratello. Da questa risoluzione narrativa ecco che qualcosa ne esce, la sanità: distrarsi, distogliere lo sguardo da cose che altrimenti ci sopraffarebbero.

Irving Penn, Food Photography

Apparato iconografico a cura di Martina Santurri


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