Primo Levi Simon Bainbridge

Per Primo Levi – Ad ora incerta di Simon Bainbridge

Benvenutә, questo è il secondo appuntamento della rubrica aperiodica e ossimorica Lame di suono – guide all’ascolto di musica classica contemporanea. Qui il primo.

Sono i primi anni ’90 quando il compositore inglese Simon Bainbridge sceglie quattro poesie dalla raccolta Ad ora incerta di Primo Levi per una nuova composizione, poi pubblicata con titolo omonimo nel 1994. Di questo lavoro colpiscono innanzitutto due aspetti: la scelta degli strumenti, caratterizzata dall’inusuale accostamento di mezzo-soprano e fagotto solista accompagnati da un nutrito organico orchestrale, e il rapporto che si crea fra l’orchestrazione e il materiale musicale.

L’inventiva di Bainbridge scava felicemente nei versi di Levi, traendone una pagina musicale di particolare chiarezza e potenza espressiva, sia a livello formale nella sintonia col Grundton (fondamento) di ciascuna lirica. Ho deciso dunque di proporre una guida all’ascolto, nella speranza che quest’opera incontri nuovi ascoltatori. Il brano si articola in quattro movimenti: il primo e il quarto sono i più ampi per lunghezza, e utilizzano l’orchestra al massimo, mentre i movimenti intermedi sono ridotti a pochi minuti e a un sound più raccolto. Il secondo, in particolare, è decisamente scarno.


1. Il canto del corvo

“Sono venuto di molto lontano
Per portare mala novella.
Ho superato la montagna,
Ho forato la nuvola bassa,
Mi sono specchiato il ventre nello stagno.
Ho volato senza riposo,
Per cento miglia senza riposo,
Per trovare la tua finestra,
Per trovare il tuo orecchio,
Per portarti la nuova trista
Che ti tolga la gioia del sonno,
Che ti corrompa il pane e il vino,
Che ti sieda ogni sera nel cuore”.
Così cantava turpe danzando,
Di là dal vetro, sopra la neve.
Come tacque, guardò maligno,
Segnò col becco il suolo in croce
E tese aperte le ali nere.

In questo primo movimento, il compositore sembra voler sfidare l’unità del testo e della sua dizione senza mai annichilirlo completamente. Il carattere sonoro ossessivo della coppia fagotto-voce è ottenuto tramite l’impiego di rapide cellule affidate alla voce come melisma e al fagotto come figura melodica. A queste si contrappongono note lunghe, che nella voce corrispondono a sillabe tenute che paiono impietrirsi e distanziarsi l’una dall’altra, anche a causa dei grandi salti intervallari. La prosodia del testo risulta nella resa sonora comunque coesa a dispetto delle frammentazioni interne, grazie all’equilibrio tra movimento e stasi.

Il fagotto ha una parte decisamente irrequieta. A volte sembra fare da ombra della voce, altre la contrasta reattivamente, ma in molti casi ne anticipa la nascita, come generandola (si ascolti l’inizio prima dell’ingresso della voce). L’idea dell’avvicinamento inesorabile del corvo di cui ci parla il testo – corvo che è foriero de “la nuova trista” – è evocata da un insieme concomitante di aspetti musicali. Da un lato, il continuum di tirate melodiche ai legni e archi acuti va a formare uno strato di sostegno motorio alla concitazione delle ben più definite parti dei solisti. Questa frenesia, nel complesso quasi claustrofobica, crea peraltro un effetto drammatico nel suo contrasto con gli attacchi vocali, che, specialmente nei primi versi, tendono ad essere molto lunghi prima di dare spazio a veri e proprie melodie.

Dal punto di vista della traiettoria narrativa del movimento, tutto concorre ad un’accumulazione delle forze in gioco, in modo che il culmine quasi coincida con la fine. Questo sviluppo è incarnato nel passaggio da un acceso lirismo degli archi gravi e acuti (ricordano Shostakovich, qui come anche negli altri movimenti), al climax dell’intervento potente degli ottoni in corrispondenza delle ultime parole del corvo: “[Sono venuto] per portarti la nuova trista / Che ti tolga la gioia del sonno, / Che ti corrompa il pane e il vino, / Che ti sieda ogni sera nel cuore.”

Nel finale, il solo del fagotto conduce all’emersione della voce, come nell’inizio. Siamo di fronte a una marcia veloce e dal tono infausto, con brevi accordi affidati a tromboni (con sordina), clarinetto basso e arpa, sostenuti da tremoli di timpano e rullante. Su questo materiale si staglia la linea melodica dei violini giustapposta al pedale degli archi gravi, e in generale si ha l’impressione che il compositore abbia seguito il senso di fatalità suggerito dal testo.

2. Il tramonto di Fossoli

Io so cosa vuol dire non tornare.
A traverso il filo spinato
Ho visto il sole scendere e morire;
Ho sentito lacerarmi la carne
Le parole del vecchio poeta:
“Possono i soli cadere e tornare:
A noi, quando la breve luce è spenta,
Una notte infinita è da dormire”.

Il secondo movimento, dal procedere lento ma discorsivo (la parte vocale è completamente sillabica), presenta un dialogo dapprima non accompagnato tra fagotto solista e mezzo-soprano. Il fagotto è quasi sempre sopra la linea vocale, in un registro davvero ardito da gestire con un suono morbido e controllato. Ricorda il celeberrimo do acuto che apre il Sacre di Stravinsky, ma in questo pezzo Bainbridge esplora quel registro impervio fino al fa sovracuto!

I due solisti si susseguono con lo stesso ritmo e direzione melodica contraria, con intervalli verticali sia aspri che morbidi. Ad esempio, la frase iniziale comincia con uno scambio nelle linee vocali (do-do#, linea superiore del fagotto, e do#-do, linea inferiore della voce), che genera un’ottava aumentata e diminuita (molto dissonanti), poi seguite da una sesta e una terza (consonanti). A mio avviso, l’alternanza delle qualità intervallari in questo movimento così conciso in cui i solisti sono più esposti è indicativa di una resa più personale del ritmo testuale da parte del compositore.

La nudità della coppia solista è fasciata dall’uso degli archi acuti in figurazioni più lente, che cuciono i diversi frammenti testuali con un timbro felpato, dato dal raffinato raddoppio di ogni linea con la medesima in tremolato. Sia per i solisti che per gli archi, il semitono – l’intervallo melodico più piccolo della musica occidentale, legato al lamento – è la cellula elementare. Viene qui usato per costruire arcate melodiche di svariata forma e lunghezza – negli archi in particolare c’è un pattern ricorrente di semitono discendente-ascendente/discendente.

Il carattere generale è di notturno intimo ma desolato e disincantato, particolarmente evidente negli ultimi tre versi, che contengono una citazione da Catullo, il cui ultimo (“Una notte infinita è da dormire”) è significativamente introdotto da un tritono (l’intervallo più dissonante, detto anticamente diabulus in musica) a registri estremi negli archi (fa# grave, do acutissimo). L’intervallo di tritono discendente chiude poi il movimento nei contrabbassi, formando così un’ottava diminuita (do#-do, altro intervallo dissonante) con i violini in registro acuto – le stesse due note che avevano aperto la prima battuta.

Simon Bainbridge (fonte)

3. Lunedì

Che cosa è più triste di un treno?
Che parte quando deve,
Che non ha che una voce,
Che non ha che una strada.
Niente è più triste di un treno.
O forse un cavallo da tiro.
È chiuso fra due stanghe,
Non può neppure guardarsi a lato.
La sua vita è camminare.
E un uomo? Non è triste un uomo?
Se vive a lungo in solitudine
Se crede che il tempo è concluso
Anche un uomo è una cosa triste.

Con il terzo movimento l’orchestra riprende spazio. Anche il materiale musicale è più corposo, composto da distinte figurazioni ritmico-armoniche ripetute ostinatamente che si sovrappongono. Tali figurazioni assolvono (almeno) due compiti: quello compositivo di sostenere la narrazione della coppia solista, e quello figurativo di convogliare il tema dell’inesorabile che è al centro della poesia musicata. L’ostinato iniziale di marimba, arpa, flauto in sol, corno inglese e clarinetti è costruito su un motivo monofonico di tre note, mentre quello degli archi acuti è omofonico con clusters (ampi accordi dissonanti) discendenti. Entrambi i gruppi ritmici sono organizzati in strutture di sei battute che si ripetono ciclicamente per l’intera prima strofa del testo.

Un terzo incedere ostinato compare in corrispondenza dell’entrata della voce, affidato agli ottavini, trombe con sordina e legnetti. Sono accordi corti che vanno ad arricchire la vitalità della texture orchestrale, vitalità che fa da contenitore sonoro per la coppia solista. A differenza del secondo tempo, la voce tende a essere più declamata: si fonda infatti sulla sillabazione di note perno, mentre il fagotto ha una parte ancora vibrante e impervia, aprendo e chiudendo il movimento con la stessa melodia fortemente cromatica.

Nelle strofe seconda e terza rimane presente solo l’ostinato di tre note nel registro centrale (arricchito nel registro acuto dallo xilofono), mentre la parte degli archi si trasforma, quasi impercettibilmente, in trilli che conservano sì il profilo melodico precedente ma senza la stessa incisività ritmica. L’ostinato primo degli archi ricompare brevemente alla fine, poco prima delle parole “Anche un uomo è una cosa triste.” Tam-tam e piatto sospeso chiudono bruscamente il dinamismo circolare del movimento.

4. Buna

Piedi piagati e terra maledetta,
Lunga la schiera nei grigi mattini.
Fuma la Buna dai mille camini,
Un giorno come ogni giorno ci aspetta.
Terribili nell’alba le sirene:
“Voi moltitudine dai visi spenti,
Sull’orrore monotono del fango
È nato un altro giorno di dolore”.
Compagno stanco ti vedo nel cuore,
Ti leggo gli occhi compagno dolente.
Hai dentro il petto freddo fame niente.
Hai rotto dentro l’ultimo valore.
Compagno grigio fosti un uomo forte,
Una donna ti camminava al fianco.
Compagno vuoto che non hai più nome,
Uomo deserto che non hai più pianto,
Così povero che non hai più male,
Così stanco che non hai più spavento,
Uomo spento che fosti un uomo forte:
Se ancora ci trovassimo davanti
Lassù nel dolce mondo sotto il sole,
Con quale viso ci staremmo di fronte?

L’imponente quarto movimento fu in realtà quello composto per primo. Bainbridge racconta di essere stato calamitato dai primi due versi di questa poesia intitolata Buna (“Piedi piagati e terra maledetta, / Lunga la schiera nei grigi mattini.”), che era la sezione di Auschwitz dove Levi venne deportato. Uno spaventoso crescendo orchestrale che muove dal silenzio fa da apertura a Buna. Ci saranno diversi climax per così dire ‘diretti’ nel corso del movimento, a marcare il dispiegarsi di questa tragica riflessione (vedi al verso terribile “Un giorno come ogni giorno ci aspetta”). In generale, in questo finale l’orchestra ha parti di sviluppo tematico importante.

Il motivo fondativo del movimento, costruito sul semitono discendente re-do#, apre il verso della strofa iniziale, “Piedi piagati e terra maledetta” e quello della seconda “Compagno stanco ti vedo nel cuore.” Cadenzato dall’arpa, questo motivo – reminiscenza dell’ultimo Mahler – apre con corni stoppati e flauti, viene ripreso ed esteso da voce/fagotto solista e permea l’orchestra con gradi diversi di ‘infiltrazione’. Il motivo si ripresenta infine in forma estesa, memore delle trasformazioni precedenti, al verso “Compagno vuoto che non hai più nome.”

Anche se non in modo sincrono, queste ricorrenze di motivi e climax gestuali fanno da analogia alle ripetizioni variate della stessa apostrofe nel testo: “Compagno stanco…compagno grigio…compagno vuoto.” Il finale del testo ci lascia con una domanda aperta, non del tutto retorica, sostenuta da una texture più statica anche se increspata da dissonanze. Dopo le ultime parole della voce, il fagotto esaurisce l’eco di questo interrogativo, lasciando la chiusura al motivo minimale dei corni stoppati, sostenuti da arpa, tam-tam e gran cassa nel registro grave.

Per concludere questa introduzione all’ascolto, segnalo anche l’altro lavoro leviano di Bainbridge, ovvero i Four Primo Levi Settings (1996), per mezzo-soprano, clarinetto, viola e pianoforte; strumentazione che il compositore descrisse come «un intimo ensemble di tenebra malinconica e luce autunnale, adatto a questi testi foschi.»


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In copertina: Primo Levi + Arian Grupta, Pristine (2019), dettaglio