poesia impegno

Snuff box: poesia e presa di parola | Interviste a Mancinelli e Menicocci

Ciclo di interviste a cura di Massimo Palma e Sara Sermini per lay0ut magazine. A ogni autore sono state sottoposte otto domande fisse e un numero variabile di domande individuali. Il quinto e ultimo episodio dà in parallelo le risposte di Franca Mancinelli e di Simona Menicocci.


Parte prima – 8 domande fisse su impegno e presa di parola in poesia

Gesto. Prendere la parola, dare voce, togliere la parola, restituire il silenzio. C’è un gesto, tra questi, che ti sembra rappresentare la tua scrittura poetica? Oppure nessuno di questi?

Mancinelli: Cedere la parola, credo sia questo il gesto che mi appartiene. Ne ho scritto in un breve testo di poetica che è uscito ne La formazione della scrittrice, un progetto online curato da Giulio Mozzi, poi raccolto in un libro a cura di Chicca Gagliardo (Laurana, 2015); ora questa prosa si può leggere in The Butterfly Cemetery. Selected Prose (2008-2021), libro uscito nell’aprile 2022 con traduzione di John Taylor per The Bitter Oleander Press, dove ha trovato casa la mia scrittura tradotta in inglese. Quella di cedere la parola agli altri, fino a perdere i propri contorni, è un’esperienza che mi ha segnata, fin dall’infanzia. Lo stato in cui si sprofonda è simile a quello che si vive sott’acqua, in una dimensione attutita, dove tutto continua ad accadere ma anestetizzato nel suo contenuto di dolore: siamo già salvati dal fatto di essere immersi in qualcosa che ci protegge e che è infinitamente più grande di noi. Sono cresciuta sul mare Adriatico per cui ricordo bene questo tempo senza tempo passato per tante estati a scrutare il fondale di sabbia, a sperimentare la gioia del volo, con il corpo che scende e riaffiora sulla superficie. L’esperienza della scrittura poetica è per me simile all’immersione in una dimensione altra. La materia della lingua, la sua forza generatrice, si prende cura di me come una madre originaria, come l’acqua: nella densità di quel silenzio, il mio corpo perde il peso, ritrova le ali.

Menicocci: Alcuni dei gesti che penso possano rappresentare la mia pratica di scrittura sono la manomissione gioiosa, la profanazione, il sabotaggio, la pratica dissensuale, l’uso improprio e negligente, ribelle se vogliamo, che si fonda sull’immaginazione di ciò che è possibile fare e mostrare di nuovo con ciò che già c’è, usando il sistema espansivo della lingua storico-naturale. C’è quindi una volontà di scardinare la continuità omogenea dell’esistente, attraverso la raccolta di scarti, il recupero di frammenti e materiali strappati dal contesto che vengono riordinati secondo nuovi criteri in modo che si illuminino reciprocamente. Così, in una pratica di scrittura che si vuole desacralizzante, chi scrive non è apparentabile in alcun modo al mago o al sacerdote che dice la verità nel suo oscuro idioletto idiosincratico, ma un animale neotenico distruttore di aura. Benjamin lettore di Baudelaire ci ha insegnato che l’aura è l’apparizione di una lontananza, è perciò un fenomeno cultuale perché ciò che è distante è inaccessibile e inappropriabile. Agamben, nel suo saggio Elogio della profanazione, sostiene che mentre la religione sottrae cose e luoghi all’uso comune e le trasferisce in una sfera separata, la profanazione restituisce le cose e i luoghi all’uso comune. Nella società del capitalismo avanzato, inteso come religione cultuale che crea l’assolutamente improfanabile, spettacolo e consumo sono le due facce dell’unica impossibilità di usare. A partire da questo contesto in cui sono nata e vivo mio malgrado, l’idea, estetica e politica, sarebbe proprio quella di mostrare il contrario: tutto può essere usato.

Voce. Cos’è la voce dell’altrə? Un fatto acustico, sonoro? Una presenza o un’assenza? Un fantasma o una realtà fisica? E come ti rapporti con questa voce?

FM: È una presenza invisibile, immersa nella nostra quotidianità. A un tratto qualcosa la risveglia e la fa presente. O eravamo noi perduti nel sonno delle nostre esistenze? Non importa distinguerlo, quando questo accade, c’è qualcosa che deve essere detto, che chiede parola. Per esempio, in Tutti gli occhi che ho aperto, c’è un frammento dedicato a uno dei più piccoli fiori che conosco. Ha minuscoli petali azzurri, facilmente dispersi dal vento. Il suo nome è una preghiera: Non ti scordar di me, così viene comunemente chiamato il myosotis. Il suo nome è un compito che ci viene affidato: siamo noi umani gli unici depositari della parola, per cui spetta a noi custodire le altre lingue che si confondono con il silenzio. Ogni cosa contiene questo monito a restare, a essere fatta presente: tutta la vita invisibile ci cerca, chiede a noi una traduzione. Ma anche ciò che può essere visibile ai nostri occhi entra nell’invisibile: ogni volta che l’attenzione si perde, oppure quando ci chiede qualcosa che non possiamo o non vogliamo concedere. Per esempio i migranti: quanti di loro sono di fatto invisibili? Quelli che ho incontrato nei Balcani vengono respinti al confine facendo in modo che non resti traccia ufficiale di loro.

SM: Dipende da cosa intendiamo per voce. La voce è sicuramente suono, quindi ha un’altezza, un’intensità e un timbro, ed è perciò prelinguistica e inarticolata e quindi tutto ciò che esiste ha in qualche modo una voce, una musica, fa rumore, produce suoni e questi suoni ci attraversano, ci abitano. Ma gli animali umani sono dotati anche di linguaggio e quindi la loro voce cambia natura quando essi parlano, ovvero quando usano la lingua. La lingua storico-naturale è a un tempo materiale usato e prodotto dai parlanti, luogo pubblico, sociale, impersonale in cui essi si sono individuati. Quando ascolto o leggo la voce dell’altrə che parlano una lingua che conosco comprendo e imparo usi ulteriori e quindi ulteriori organizzazioni delle esperienze, partizioni del sensibile; approfondisco ed espando la visione e la conoscenza del mondo e della lingua che condividiamo, entrambi come qualcosa di comune e utilizzabile.    

Oggetti infami. Ci sono a tuo parere oggetti ‘esclusi’ dalla voce poetica e che, invece, per questa voce sarebbero appropriati? Ci sono oggetti infami che ‘aspettano’ questa voce?

FM: Prima degli oggetti, mi vengono in mente temi. C’è un’area tematica legata alla vita quotidiana e all’esperienza del corpo che è stata relegata da una parte della critica come appartenente alla sfera “femminile”, quindi estranea alla “storia”, non “impegnata”. Questa distorsione è ancora purtroppo presente anche in lettori formati, perché ha avuto ampio spazio nei manuali universitari ed è per questo passata come visione dominante. Dobbiamo ricordare che la storia avviene in una cucina come in un campo di guerra… E che non c’è aspetto della nostra vita che possa essere al di fuori della storia, se è con questi occhi (che tracciano un prima e un dopo lungo una linea) che guardiamo il mondo. Ci sono ampi campi della vita e dell’esperienza quotidiana che sono stati se non esclusi dalla letteratura, comunque guardati per secoli attraverso lo stesso filtro. E sento di salutare, di festeggiare con gioia, ogni volta che uno di questi temi, di questi oggetti, riesce finalmente a liberarsi da quelle vecchie reti e ad apparire in tutta la sua essenza, depositaria del mistero che ci tiene su questa terra, pietre, piante, animali, uomini. E chissà se dopo secoli di antropocentrismo, dove per “uomo” si intende, per antonomasia, un essere umano di sesso maschile, non inizieremo ad aprire altri occhi verso più ampie possibilità dell’essere umano, e da lì, forse, a considerare in modo diverso gli altri viventi.

SM: Non credo che la poesia dia né debba dare voce a niente e a nessunə. Se parliamo di soggettə dotatə di linguaggio, ma senza voce o la cui voce è rimasta inascoltata, vuol dire che parliamo di soggettə subalternə che hanno subito una violenza materiale ed epistemica. Non vedo come, se non in modo paternalistico e in fondo colonialistico, si possa parlare al posto loro. Quello che può fare chi scrive è costruire situazioni linguistico-comunicative in cui porre il problema, mostrare altrimenti il mondo, sollecitare delle riflessioni, delle critiche.

Ma ciò che è più importante è contribuire a costruire le condizioni di possibilità affinché tuttə possano essere educatə alla parola e all’ascolto e possano parlare ed essere ascoltatə concretamente. Troppo spesso si dimentica il nesso stringente tra politiche della letteratura, politiche scolastiche e politiche dell’accoglienza. Purtroppo è una dimenticanza politicamente programmata, al pari della distruzione dei rispettivi ambiti di applicazione.

Impegno. Una parola sulla bocca di tuttə, e non da poco: impegno. Quanto conta l’impegno nell’orizzonte della poesia? Descriveresti la tua poesia come impegnata?

FM: Quando la scrittura entra in un rapporto autentico con la forza creatrice della parola, è “impegnata”, è coinvolta in quel lavoro indispensabile a mantenere in vita la lingua, e quindi il nostro rapporto con la realtà, con il mondo. La lingua efficiente e immediata che sempre più ci è richiesta, come fosse l’unico possibile legame con gli altri, non può dare la parola a tanta parte di noi, e in particolare proprio a quelle zone poco conosciute, quasi imperscrutabili, attorno a cui ruota la nostra esistenza. Accettando questa lingua comunicativa che proviene dall’industria editoriale e dello spettacolo, perdiamo noi stessi, la nostra possibilità di restare in quel cammino aperto di conoscenza che ci caratterizza come umani.

L’impegno a cui si è chiamati in poesia è quello di “dare corpo” alla parola. Tornare ai primordi, quando la parola era gesto, movimento del corpo che, seguendo un ritmo, cerca di ristabilire l’armonia vincendo il caos, l’angoscia, le forze distruttive. Ciò che distingue la poesia da tante altre forme di scrittura è il fatto di lasciare, sulla pagina, la traccia di una voce, una voce viva, che proviene da un corpo. Il nostro italiano che Pasolini riconosce formato per omologazione dal linguaggio tecnico aziendale è composto per lo più da parole che non hanno corpo, viaggiano nella velocità della rete, si dissolvono con la stessa istantaneità con cui sono comparse. Chissà quali segni sta portando la nostra lingua di questi recenti anni di pandemia in cui abbiamo vissuto un corpo isolato dagli altri, angosciato dal contatto con altri corpi.

SM: L’impegno nasce da un sanissimo senso di responsabilità verso il mondo; dei diversi tipi di scritture impegnate esistenti, però, me ne piacciono assai pochi, perché nella maggior parte dei casi si opta per un approccio contenutistico frontale, rischiosissimo a livello di retorica, patetismo ed estetizzazione. Non è questa la via, a mio avviso. Già Mesa, nel saggio Frasi dal finimondo, ammoniva: “Tanto si è estetizzato (con piacere, compiacendo) l’horror metropolitano, quanto più è diventato impronunciabile l’orrore (morte per fame, per esclusione, per repressione, per guerra, per devastazione ambientale: per miseria del corpo, non dello spirito)”.

Anni fa intervenni in una tavola rotonda presso la Fondazione Primoli proprio su questo tema. Mi permetto di riprendere alcune riflessioni lì espresse.

Un filosofo che mi ha aiutato a pensare i rapporti tra politica e letteratura è sicuramente Jacques Rancière, in libri come Politica della letteratura o Ripartizione del sensibile, da cui estraggo una tesi di fondo: la letteratura non ha che fare con la politica per via dei suoi contenuti discorsivi o dell’impegno politico di chi la produce: essa fa, ed è politica, in quanto letteratura. Benché lavorino su due scale diverse, infatti, politica e letteratura si presentano entrambe come due pratiche inventive, immaginative, finzionali perché hanno la capacità di inventare delle forme, di immaginare degli spazi, in cui i ruoli e i rapporti cambiano, modificando le condizioni della loro visibilità all’interno dello spazio pubblico.

Sul concetto di visibilità – di visibilità critica – si è espresso anche uno scrittore e teorico come Christophe Hanna. In Poésie Action Directe egli parla di scritture transitive, o disposali, che mostrano il mondo, che lo espongono, con i suoi rapporti e le sue contraddizioni, a un qualche tipo di visibilità che ne permetta la sua critica, la sua messa in discussione, il suo cambiamento.

Insomma, all’impegno contenutistico preferisco l’impegno epistemologico.

Colpa-debito. In origine, impegnarsi è dare un oggetto a garanzia del fatto che si ‘restituirà’ un debito. Quanto c’entra l’impegno con l’essere in debito? O, come diceva Nietzsche, con la confusione che c’è tra l’essere in debito e il sentirsi in colpa?

FM: Mi piace molto pensare all’“impegno” a partire dal suo significato originario, lo libera da tante incrostazioni e limiti ideologici. Come esseri umani siamo tutti, inevitabilmente, debitori insolventi, per la bellezza (ma possiamo anche chiamarla energia) con cui veniamo a contatto ogni giorno, e grazie alla quale ci manteniamo in vita. Ciò che siamo chiamati a fare è prenderci cura di questa bellezza, di questa energia, custodirla, e poi restituirla all’aperto da cui proviene. Per custodirla cerchiamo di creare una forma nella nostra esistenza, una forma dove si possa abitare, mettere in salvo. Chi scrive cerca di plasmare una forma nella lingua. Restituire non è semplice: spesso si confonde con l’abbandono, con la morte, e viene vissuto come perdita, come dramma. Restituire implica che queste forme plasmate con tutte le nostre forze siano comunque forme fragili e mai del tutto compiute. Implica che l’autore primario di queste nostre opere sia in realtà anonimo (la vita stessa), e solo in un secondo momento prenda il nostro nome anagrafico. Ciò che abbiamo di più prezioso, non è nostro. Tendiamo ad appropriarcene e a piangere la sua perdita, mentre non sta facendo altro che tornare al luogo da cui proviene. C’è un testo in Tutti gli occhi che ho aperto che contiene l’immagine di questo compito che ci spetta di accoglienza e riconsegna. Sono versi debitori di un sottile tratto di spiaggia a Pesaro, tra la fine della baia Flaminia e l’inizio del Parco San Bartolo, dove affiorano sulla battigia grandi ciottoli ovali di arenaria. È un luogo che riconosco come origine di immagini familiari alla mia scrittura, per questo l’ho scelto nel progetto Pasolini 11#22, per il video che mi è stato dedicato:

aspetto che scenda la luce, resto qui, fino a che iniziano a camminare le pietre. Si schiudono come uova deposte da una madre che si è fatta di sabbia. Affiorano a un tratto le piccole zampe e la testa. Vengono a un mondo che ha già chiuso gli occhi. Mi avvicino: le stringo in una mano, le tengo sul petto. Poi le accompagno a riva, le riconsegno. 

Si dice “restituire” ma anche “sanare” un debito. Il debito principale che abbiamo è connesso alla ferita originaria attraverso cui siamo venuti al mondo, e non è sanabile se non, appunto, nella restituzione, nel nostro riconoscerci tramiti di un’antichissima forza che continua a muoverci.

A Urbino c’è una via che costeggia una zona boscosa poco fuori dal centro storico, chiamata “Giro dei debitori” forse proprio perché percorsa da chi preferiva non essere visto, non passare per le vie principali. Questa via ha dato il titolo a un poemetto di Paolo Volponi a cui sono molto legata; è un testo fondamentale anche per Volponi, che inaugura Le porte dell’Appennino, il suo romanzo di formazione in versi, con una sezione che include questo poemetto e che porta proprio il suo titolo, Il giro dei debitori:

[…] io tendo

come un seme a interrarmi,

a sdebitarmi intero,

come intera la notte di novembre

giace sulle membra terrestri

È forse questa metamorfosi che ci aspetta alla fine dell’esistenza, quando saremo interrati come semi, la nostra forma di restituzione, la nostra possibilità di sanare il debito, di guarire la ferita, tornando a fare parte del corpo dell’universo. Io credo che qualcosa di simile accada ogni volta che oltrepassiamo la nostra identità biografica, «i nostri contorni di umani», e torniamo a intrecciarci nel grande arazzo della vita. La scrittura poetica è come se disfacesse la nostra identità, per aprirla a una forma di presenza molto più vicina alla nostra origine.

 

SM: L’impegno può avere a che fare sia con il sentimento del debito sia con quello della colpa, perché siamo animali occidentali e quindi abbiamo secoli di storia che possono nutrire ampiamente entrambi i sentimenti. Non bisogna mai dimenticare di quali privilegi godiamo e da quale posizione parliamo, osserviamo e descriviamo. Ogni volta che scrivo devo ricordarmi che sono una donna bianca occidentale proletaria che ha una relazione eterosessuale con un uomo bianco occidentale. Al tempo stesso devo dimenticare tutto ciò per evitare di mutare tale consapevolezza in prassi identitaria, in ortodossia poliziesca, che condanna e inchioda le singolarità al proprio corpo e alla propria biografia. La letteratura, in tutte le sue sedi di produzione, fruizione e traduzione, è e deve rimanere il luogo della disidentificazione, della disappartenenza, dello spossessamento; spazio pieno di conflitti, pratici e teorici.

Verità obliqua. «Di’ tutta la verità ma dilla obliqua», ha scritto Emily Dickinson. Come interpreti questo verso? Che senso ha, per te, l’aggettivo “obliquo” nel dire-il-vero in poesia?

FM: L’immagine della verità come di un’essenza troppo abbagliante per essere vista direttamente, è antica, e appartiene al significato della parola greca aletheia. In questa parola c’è un movimento, un passaggio dal non visibile al visibile. Qualcosa appare, viene svelato, viene liberato dal velo della dimenticanza. Una verità insostenibile appartiene anche al volto di Medusa che non può essere guardato direttamente ma solo attraverso la sua immagine riflessa. Ci sono cose che chiedono una distanza come spazio stesso per la loro esistenza; così, ad esempio, ho scoperto da bambina, gli arcobaleni: se ci mettessimo in cammino per raggiungerli non li troveremmo mai. Questa stessa distanza la chiedono tutti gli animali selvatici: puoi avvicinarli, puoi cercare di pattuire un confine, ma non puoi superare il limite invisibile che permette la loro stessa esistenza. Credo che la poesia nasca in queste zone non pienamente raggiungibili dai passi e dallo sguardo umano. Appartiene a questa verità che possiamo anche chiamare energia vitale. La natura “obliqua” della parola poetica è inevitabile… è tramite di ciò che altrimenti sarebbe non percepibile o insostenibile.

SM: Quando si parla di verità in poesia mi vengono sempre in mente questi versi di Giuliano Mesa tratti da Quattro quaderni:

(di una vita non rimane quasi niente / e quello che rimane, spesso, non è vero) / (prendi a misura, adesso, cos’è il rumore, / fuori, della notte) // (di più falso non c’è nulla / che il voler dire il vero) / (è vero questo approssimarsi. / è vero che a qualcosa, sempre, / noi ci approssimiamo / – anzi, ci avviciniamo, / che suona meglio, / ed è meglio di niente)

Forse l’obliquo di Emily Dickinson esprime la stessa contraddizione, la stessa dialettica, la stessa tensione tra verità e falsità, tra vita e linguaggio, tra contenuti da dire e forme del dire. Il punto è sempre il come, ma se il come è anche il cosa, e se il come deve essere obliquo, allora quel verso, con quell’avversativa perentoria, ci consiglia di dire non la verità bensì l’obliquo. Non essendo un’anglista, questa interpretazione probabilmente è falsata dal mio essere profondamente distante da quel tipo di scritture che tentano di esprimere un senso scomparso, maiuscolo, o di reinscrivere in un mondo in crisi il sentimento perduto del reale, pronunciando, a partire da un punto d’assolutezza, una verità, finanche negativa, di cui si possiede una conoscenza preliminare.

Empatia. “Soldato russo, ragazzo ungherese, non v’ammazzate dentro di me”, scrive Franco Fortini in occasione dell’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956. Parla dell’evento storico e del suo significato per la sua personale militanza in una certa cornice. Fortini mette in prospettiva l’evento presente, chiede a sé di non “empatizzare” – di non sentire l’evento e la sua violenza dentro di sé, e rivendica una distanza per esprimere un giudizio dentro la poesia. Pensi sia una strategia condivisibile? Ce ne sono altre?

FM: Questi versi di Fortini hanno il tono di un appello che mi apre questo significato: dentro di me potete non ammazzarvi; dentro di me può esserci uno spazio di pace, può crearsi la pace. In un futuro prossimo ci potrà essere la pace anche fuori. Intanto posso chiedere che la pace venga fatta dentro di me, che si crei uno spazio perché accada. Questa preghiera crea una trasformazione nello sguardo, una consapevolezza. Nei due ultimi versi della poesia Fortini infatti scrive: «Da quel giorno ho saputo chi siete: / e il nemico chi è». Forse Fortini ci sta invitando a non lasciarci ingannare dalla superficie dell’attualità che può portarci a prendere subito partito e parola, a sentirci al riparo di un’opinione, di una bandiera. Forse ci sta suggerendo di provare a ripetere, di fronte a una violenza, lo stesso appello in noi, e vedere che cosa accade dentro. Credo che quel nemico, che Fortini scrive di conoscere, abiti nella stessa casa del poeta.

SM: Non penso che quel verso di Fortini sia una richiesta a sé stesso di non empatizzare, di non sentire l’evento e la sua violenza dentro di sé; anzi. L’intera poesia 4 novembre 1956 nasce dall’empatia e dall’indignazione, dalla rabbia per la violenza, dalla pietà per i soldati di entrambi gli eserciti, dal rifiuto della guerra e dei suoi orrori e quindi dal rifiuto di prendere le parti, di scegliere, tra i vivi e i morti, quelli che valgono di meno e di più. Quel verso è un manifesto di pacifismo internazionalista, e volendo un inno alla diserzione, ma esprime anche il dolore di un comunista antistalinista nel vedere in che modo la storia gli abbia dato tristemente ragione. L’inverarsi pubblico e storico della propria verità eretica e minoritaria, infatti, non porta alcuna soddisfazione, ma pena ulteriore. Mi sento molto vicina alla posizione fortiniana, come a quella di tutti i marxisti eretici; ovviamente in sede di scrittura le cose si complicano, le strategie possono essere molteplici, ma certamente non penso esista un conflitto tra passioni e ragione, tutt’altro: c’è semmai una razionalità che si fa forte del sentire: si ragiona più profondamente quando si vibra.

Margini. La poesia riveste un ruolo “eccentrico” rispetto al mercato editoriale e alla letteratura, di cui è riferimento necessario, ma spesso marginalizzato. Si può dire che la vera ‘potenza’ della poesia sia – parafrasando una riflessione di bell hooks – stare nel margine, ovvero in uno spazio di possibilità e di radicale apertura? E raccogliere, in questo spazio, le voci di sottofondo, inaudite?

FM: Questa della marginalità è una condizione che accompagna la poesia in Italia da almeno cinquant’anni, e che diversi poeti e intellettuali hanno riconosciuto. Da questa prospettiva Pasolini si definiva «eretico» e «corsaro», Fortini «ospite ingrato». In questi anni recenti, la poesia è stata riconosciuta come «terzo paesaggio» (Laura Pugno), riprendendo il famoso manifesto di Clément.

Questo terreno povero e laterale è il solo disponibile. Ha certo le sue risorse nascoste, ma forse vale più la pena domandarci come mai in altri paesi non così lontani da noi (pensiamo per esempio alla Germania, o a un piccolo paese come la Slovenia), la poesia ha ancora un ruolo nella società e il lavoro del poeta è riconosciuto, insieme a quello degli altri artisti. Ci sono borse, residenze creative, premi che permettono a chi scrive di dedicarsi alla propria opera. Come mai il lavoro creativo con la lingua, in Italia, è così poco valorizzato?

SM: Assolutamente sì, i margini sono un luogo pieno di possibilità e di radicalità. Tuttavia ci sono margini anche dentro ai margini: non bisognerebbe mai parlare della poesia come oggetto/luogo omogeneo e pacifico, ecumenico e orizzontale. Come non è vero che siamo tuttə sulla stessa barca, così non siamo tuttə negli stessi margini.

poesia impegno

Parte seconda – domande individuali su poesia e presa di parola

Domande a Franca Mancinelli

di seguito, tutte le domande rivolte specificatamente a Franca Mancinelli

Nelle tue poesie, specialmente nelle raccolte Mala kruna e Pasta madre, l’“io” sembra essere un corpo spazializzato, una forma dai precisi «contorni»; così la poesia ha la forma di una piscina, in cui ogni verso è una vasca – scrivi in una prosa contenuta nella raccolta A un’ora di sonno da qui (2018). E in ogni spazio, il corpo e la poesia ad un tempo espongono e sono esposti. Che rapporto c’è fra corpo, scrittura ed esposizione? Che cos’è per te l’esposizione e quanto ha a che fare con lo spazio e la forma?

Più che all’“esposizione”, sento la poesia connessa alla presenza: a una forma di presenza aperta, che ci permette di percepire la nostra esistenza nella trama dell’universo, composti dello stesso ordito, della stessa materia. Ho vissuto in questi anni la scrittura come un’impronta che il nostro corpo lascia, con tutto ciò che contiene, con il silenzio che accompagna la maggior parte del nostro vissuto, in quanto indicibile, in quanto appartenente a una lingua altra, che è anche quella del nostro organismo, con le sue cellule, i suoi flussi, i suoi ritmi. La parola poetica mi raggiunge soprattutto mentre cammino, mentre nuoto, o mentre svolgo alcuni gesti quotidiani come pulire la casa, e poi spesso in uno stato di dormiveglia che precede il sonno profondo. C’è un’immagine fondativa in cui per me è ancora contenuto il nostro fare artistico, con la parola o con altri strumenti espressivi: palme aperte impresse sulle pareti di una grotta (ne sono state ritrovate in area franco-cantabrica e anche in Argentina) si affiancano o quasi sovrappongono creando come la chioma di un albero umano che con ogni sua mano-foglia ripete la testimonianza di una presenza, un saluto, un segnale inviato da un confine ultimo. È a partire da questa immagine, da questo essenziale atto rituale e creativo, che continuo a pensare alla poesia.

Lo studioso Waldemar Deonna, in un libro intitolato Il simbolismo dell’occhio, scrive che “tutto è occhio”, un’affermazione che pare ben adattarsi alla tua ultima raccolta, in cui l’occhio è davvero protagonista, fin dal titolo: Tutti gli occhi che ho aperto. La raccolta pare condensare l’ambiguità del gesto di apertura: il titolo può significare, come dice il detto, aprire gli occhi all’altro, fargli capire qualcosa, ma può anche voler dire che l’io ha molti occhi e ha dovuto aprirli tutti. In entrambi i casi, sembra trattarsi di un’azione eticamente connotata; potresti spiegarci l’urgenza, che emerge da questa raccolta, di mettere in luce l’ambiguità dello sguardo?

Per questo verso, che poi è diventato anche il titolo del libro, devo ringraziare un bosco di faggi dell’Appennino centrale, dove ho camminato qualche anno fa, portando con me l’interrogazione di una ferita. La risposta è arrivata dopo alcune ore di cammino, da uno di questi faggi, con il tronco segnato: «Tutti gli occhi che ho aperto / sono i rami che ho perso». Ecco cos’è una ferita, cos’è una perdita: un occhio che si apre. Si apre a prescindere dalla nostra volontà o dal nostro desiderio, accade. Questo è forse il motivo principale per cui ho chiamato gli alberi maestri (una sezione del libro si intitola così). Obbedienti alla vita, gli alberi continuano a crescere verso il loro spazio di luce, compiono la forma che portano in sé. Noi umani restiamo invece spesso paralizzati e indeboliti dalle nostre ferite. Riuscire a riconoscerle come una possibilità di visione, è uno degli insegnamenti che possiamo apprendere dagli alberi, antichi tramiti tra la terra e il cielo, con radici aperte nelle due dimensioni, proprio come noi. I due libri precedenti a questo, Libretto di transito e Pasta madre, si aprono e chiudono entrambi nel sonno (un sonno di metamorfosi e passaggio). Ho sempre riconosciuto il sonno come una dimensione di appartenenza profonda, un nutrimento indispensabile, un rifugio rispetto all’esistenza. Questo libro recente invece può sembrare un richiamo a un rapporto più diretto con la realtà, ad aprire, come si dice comunemente, gli occhi, a svegliarsi. Nella sua parte iniziale e conclusiva contiene infatti la traccia di un’esperienza fatta nei Balcani, sulla rotta dei migranti. Questa esposizione a una realtà difficile e attuale, che riguarda la collettività, è qualcosa che prima non era entrato in modo esplicito nella mia scrittura. Come nell’antica immagine della spirale che accompagna le tre pagine bianche che scandiscono questo libro (e a cui devo la presenza a un’intuizione di Fabio Pusterla), un occhio si apre dentro a un altro occhio, in una dimensione circolare, dove la fine rinvia al principio. Così l’occhio ferita che si apre nel bosco-Jungle, al confine tra Croazia e Serbia, si apre nella sezione seguente, negli «alberi maestri», e poi ancora in una relazione che «chiude gli occhi» e distrugge parti vitali di sé, e così in avanti, attraverso le varie sequenze del libro, dove torna costante l’immagine di occhi che si aprono e si chiudono. Chiudere gli occhi non è infatti soltanto allontanarsi dalla realtà, ma è anche la possibilità di entrarvi attraverso uno sguardo più profondo, come per esempio quello che si apre nella meditazione, uno sguardo capace di vedere le «luminescenze» e di «attraversare l’immagine», ossia di vedere le connessioni che uniscono tutta la materia. Nella parte centrale di questo libro, una breve sequenza è poi dedicata a Lucia, santa protettrice della vista, che ho conosciuto attraverso i suoi numerosi ritratti e che è diventata per me, in particolare grazie alla pala di Lorenzo Lotto conservata a Jesi, l’emblema di una forza originaria e inerme che resiste a ogni forma di violenza, proprio come la luce su questo pianeta.

In un componimento della sezione eponima di Tutti gli occhi che ho aperto leggiamo “tiene un ago tra le labbra / si ricuce masticando / con un filo di lacrime e saliva / punto croce, punto / perché il disegno avanzi, deglutire”. Si potrebbe pensare alla pratica di cucirsi la bocca in segno di protesta molto praticata nei vari centri di detenzione dei migranti. In Jungle, la prima sezione del libro, una prosa allude a una violenza contro una donna attraverso la figura dell’innesto di morte. È possibile secondo te, nelle due immagini assai diverse – meglio, opposte, uno stupro contro una ‘resistenza’ – che hai creato, ritrovare un elemento comune: la violenza come istanza di desertificazione umana, come ‘innesto’ artificiale che porta alla sopraffazione, al mutismo indotto, rispetto a un orizzonte naturale che va nella direzione opposta?

In effetti questo libro è attraversato dalla violenza e dal tentativo di ripararla, per quello che è possibile, di trasformarla. La violenza che subisce una donna migrante in un bosco – Jungle, raggiunge con le sue vibrazioni, su altri piani di realtà, un altro bosco, dove gli alberi insegnano che cos’è una ferita; la vediamo poi in una delle tante relazioni tossiche che, con esiti più o meno drammatici, tornano nella nostra quotidianità (così nella sezione che intitola il libro); affiora in Specchio ricurvo nella violenza rituale, narrata attraverso un’antica statuetta pagana di offerente, poi nel martirio di Lucia, e poi ancora in un’altra relazione di amore che conduce nella «camera oscura» dell’esistenza. La violenza attraversa ogni ordine e livello di realtà, da quello umano a quello vegetale e minerale, dal piano più direttamente realistico a quello simbolico. Non possiamo esserne esenti, non possiamo fuggirla: «stringo forte gli occhi non si chiudono», come dice la voce interna della donna migrante. L’unica cosa possibile di fronte alla violenza che accade è forse quella di ricordare gli alberi, il loro insegnamento e aprire un altro occhio, per continuare a crescere. E imparare a vedere «da dentro / il buio», ad abitare l’oscurità come condizione necessaria perché una visione si compia, perché possa illuminarsi il nero, quella parte di materia oscura, quella parte di noi, non ancora conosciuta.

Nell’immagine del cucirsi le labbra che avete ricordato come pratica di protesta tra i migranti, c’è anche la semplice traccia corporea di un’espressione comune, usata per esprimere lo stare in silenzio; e poi il “ricucirsi”, il ricomporre i propri frammenti, prendendosi finalmente cura di sé. Ecco, anche in questo gesto di riparazione, c’è violenza, se diamo corpo alle parole (come la poesia è chiamata a fare), sentiamo il dolore per ogni «punto» di cucitura, sentiamo che ogni sillaba pronunciata è un altro punto aperto nella carne.

Domande a Simona Menicocci

di seguito, tutte le domande rivolte specificatamente a Simona Menicocci

Le Lebensformen del testo inedito uscito di recente su lay0ut sono esseri al femminile che “lallano” e “gloglottano”, «dicono addio ai padri, alla storia, proclamano la fine di ogni militanza, dopo aver ereditato». Nemmeno creature, ma più propriamente “forme”, in quanto metamorfici agglomerati di materia, declinati nel loro farsi e disfarsi anzitutto esteriore. Questo è ciò che sembra restare, dopo un’apocalisse riassunta nel verso iniziale: “Fuori non è rimasto nulla.” Nel testo si trovano, tuttavia, tracce chiare di un desiderio politico, una sorta di rilancio al futuro provocato dal “rancore” anziché dalla “speranza” e condensato in azioni al presente, compiute da queste forme di vita, come ad esempio, l’atto di “bloccare l’estrazione di plusvalore”. L’universo distopico descritto sembra così assumere i tratti dell’utopia. Qual è il tuo rapporto con questi due termini, utopia e distopia?

Lebensformen è un testo che parla di moltissime forme di vita, umane e non umane, ma è denso di ambiguità: non solo quella di matrice antispecista, per cui i soggetti impliciti possono essere delle rosse formiche così come degli operai in sciopero, ma anche quella di senso logico, per cui il testo è pieno di contraddizioni, di cose che non tornano: da una parte fuori non è rimasto nulla, dall’altra fuori è pieno di cose, animali, piante, persone; da una parte tutto si fonda su sopraffazione e predazione, dall’altra su simpoiesi e mutualismo.

La vita in generale e le vite particolari che tento di descrivere e narrare per lampi e immagini sono a conti fatti assai penose, violente, tragiche; ma è un tragico che deriva, se vogliamo ragionare in termini leopardiani, sia da un pessimismo cosmico di base, sia da uno storico, il quale è però prodotto non da un senso di decadenza della storia o da una nostalgia per una fantomatica età dell’oro, quanto dall’esperienza della catastrofe capitalistica in atto. Allora la distopia nasce per via espressionista, un’avanguardia a me molto cara, specie per quel che riguarda il suo principio basilare: si conosce solo ciò che si deforma. D’altronde nel mondo capitalistico avanzato l’allucinazione è una forma di iperrealismo.

Invece, se proprio vogliamo parlare di utopia, è importante specificare che va intesa nel senso di un desiderio di futuro qualitativamente diverso dal presente: un’utopia concreta, come alterità radicale, come alternativa al presentismo; un’utopia senza progresso e senza teleologia, e quindi portatrice di un pensiero che, restando fermamente pessimista, non diventa cieco rispetto al nuovo e al possibile (che ovunque cova), né indifferente rispetto al vecchio e al passato (che non è mai finito); un’utopia, infine, in grado di dribblare l’ingenuità intellettualistica del pensare che la trasformazione sociale possa avvenire senza conflitto o che le scritture possano emancipare i soggetti del conflitto che a quelle scritture spesso non accedono.

A ogni modo, utopia e distopia sono entrambe due forme critiche del presente, che hanno il pregio di offrire enormi apporti conoscitivi e stimoli immaginativi perché ci mettono in una relazione differente rispetto alla realtà attuale, ci permettono di vedere meglio il mondo e quindi di criticarlo.

Nel suo libro intitolato Gli Argonauti, Maggie Nelson scrive: «Temere l’assertività. Cercare continuamente di fuggire dal linguaggio “totalizzante”, cioè dal linguaggio che procede calpestando la specificità; rendersi conto che non è altro che una forma di paranoia. Barthes aveva trovato una via d’uscita a questa giostra ricordando a se stesso che “era il linguaggio a essere assertivo, non lui”. È assurdo, afferma Barthes, provare a liberarsi della natura assertiva del linguaggio “aggiungendo a ogni frase un frammento di incertezza, come se tutto quello che scaturisce dal linguaggio possa far vacillare il linguaggio stesso”. / La mia scrittura è costellata da tic d’incertezza di questo genere.» Come ti poni di fronte a tale ambiguità nel rapporto tra assertività e scrittura rilevato da Nelson?       

Come avevo accennato anche in un saggio uscito su La balena bianca, l’errore di Barthes è stato quello di concepire il soggetto scrivente “come un luogo passivo in cui il linguaggio entra e si manifesta, […] il che comporta un venir meno di quella responsabilità etico-politica che dovrebbe invece legare l’autore alla sua opera e alle sue scelte.” Affermare che è il linguaggio ad essere assertivo e non il suo uso, o la postura del soggetto che lo utilizza, vuol dire avere una visione teologica-metafisica del linguaggio, che acquisisce così una natura trascendentale. Ma poi quale sarebbe il rapporto tra questo linguaggio con la L maiuscola e le lingue? Per fare chiarezza, quando si parla di linguaggio è bene avere presente uno schema tripartito: c’è la facoltà di linguaggio biologica, che è una potenza indeterminata, non attuale, bensì latente; ci sono poi le lingue storico-naturali: naturali perché manifestazione della facoltà del linguaggio, e storiche perché legate alla civiltà, ai modi di rendere possibile la nostra vita, ai modi di produzione e di riproduzione; infine, ci sono gli atti di parola individuali che attualizzano la facoltà di linguaggio e usano e producono la lingua.

L’assertività, dunque, non è certo una caratteristica intrinseca al linguaggio o alle lingue ma una modalità del dire, uno stile se vogliamo, perciò non ha senso temerla, come se fosse qualcosa di immanente alla scrittura, né ha senso trasformarla in una categoria da cui far discendere un giudizio di valore aprioristico rispetto alla necessità del suo uso. D’altra parte, storicamente, è stata spesso la facies assunta da una scrittura espressivista che si è posta e ancora si pone come forma verbale del vero: nel qual caso rispecchia una postura, una pratica e una comunità in conflitto con ciò che vado facendo.   

I tuoi testi sono spesso caratterizzati da un ritmo veemente, a tratti furente, come mette in luce anche Luigi Severi nella postfazione a H24. Materiali per un film (Blonk, 2021). Pensi che la rabbia costituisca uno degli inneschi necessari dei tuoi testi? In caso affermativo, come contribuisce a dar loro forma?

La rabbia è una passione che influisce su molti livelli del testo, dal ritmo incalzante alle scelte lessicali, dalla rapidità di composizione alla sintassi sincopata, dalle figure retoriche predilette (iperbole, accumulazione) al gusto gnomico. Quindi sì, la rabbia è certamente uno degli inneschi della mia scrittura (ho spesso scritto perché qualcosa mi faceva incazzare), ma non l’unico. 

Nel tuo Il mare è pieno di pesci leggiamo: “se non c’è possibilità di parlare / per alcuni con alcuni / bisogna parlare / dell’impossibilità / di questi alcuni con alcuni”. È possibile ravvisare una sorta di dialettica dell’impossibilità a cui alludi, un impossibile in qualche modo nominabile, ‘dialogabile’, anche e forse soprattutto all’interno del linguaggio poetico, e che apre il negativo, lo mette in una prospettiva comune, definibile come politica?

Il mare è pieno di pesci è un testo che ho iniziato a scrivere nell’ottobre del 2013, dopo uno dei più gravi naufragi avvenuti nel Mediterraneo. In questi 10 anni poco è cambiato, molto è peggiorato, d’altronde la barbarie non è un’eccezione ma la regola del mondo in cui viviamo. “L’impossibilità di parlare” del testo non è ontologica né universale, ma prodotta storicamente, per mezzo di precise politiche che ne sono dunque responsabili.

Questi versi vanno intesi in senso letterale, e confermano proprio quanto dicevo prima circa una doppia responsabilità etica: da una parte, il non prendere la parola al posto di chi questa non ce l’ha; dall’altra, il dover comunque porre all’interno della propria scrittura i problemi del mondo, che non vedo come non possano essere anche i nostri.


Franca Mancinelli (1981) è autrice di quattro libri di poesia: Mala kruna (Manni, 2007), Pasta madre (con una nota di Milo De Angelis, Nino Aragno, 2013), Libretto di transito (Amos Edizioni, 2018), e Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos, 2020). Una sua silloge è compresa in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012) e con introduzione di Antonella Anedda, nel Tredicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2017). Con traduzione inglese di John Taylor sono usciti per The Bitter Oleander Press (Fayetteville, New York), The Little Book of Passage (2018) – traduzione di Libretto di transito –, At an Hour’s Sleep from Here: Poems (2007-2019), e un libro di prose inedito in Italia, The Butterfly Cemetery. Selected Prose (2008-2021).

Simona Menicocci (1985) vive e lavora come insegnante a Roma. Ha pubblicato Il mare è pieno di pesci (Benway Series, 2014); Manuale di ingegneria domestica (Arcipelago, 2015); glossopetrae / tonguestones (IkonaLiber, 2017); Saturazioni (dia°foria, 2019), H24. Materiali per un film (Blonk, 2022). Dal 2015 cura, assieme a Fabio Teti, il laboratorio di scritture contemporanee Prove d’ascolto


L’apparato iconografico è tratto da Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (1964), di Stanley Kubric

snuff-box-poesia-impegno-interviste-anedda-deluca

Massimo Palma ha pubblicato Berlino Zoo Station (Cooper 2012), Happy Diaz (2015, Castelvecchi 2021), Nico e le maree (Castelvecchi 2019). Con Movimento e stasi (Industria & Letteratura 2021) ha vinto il Premio Fortini per la poesia. Ha scritto i saggi I tuoi occhi come pietre. Trauma e memoria in W.G. Sebald, Paul Celan, Charlotte Salomon; Foto di gruppo con servo e signore (Castelvecchi 2020 e 2017); e Olanda, 1945. Anne Frank e i Neutral Milk Hotel (Nottetempo, 2023). Ha curato opere di Max Weber (Economia e società, Donzelli 2003-2018), Walter Benjamin (Senza scopo finaleEsperienza e povertà, Castelvecchi 2017 e 2018), Georges Bataille (Piccole ricapitolazioni comiche, Aragno 2015), Georg Heym (Umbra vitae, Castelvecchi 2020), Fredric Jameson (Dossier Benjamin, Treccani 2022).

snuff-box-poesia-impegno-interviste-anedda-deluca

Sara Sermini lavora come ricercatrice all’Université Paris Nanterre. Ha dedicato una monografia alla figura e all’opera di Amelia Rosselli: «E se paesani /zoppicanti sono questi versi». Povertà e follia nell’opera di Amelia Rosselli (Olschki, 2019). È autrice di una raccolta di poesie intitolata Diritto all’oblio, in parte pubblicata nel Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2021).


Leggi tutte le interviste di Snuff Box!