gufo con cerbiatto su neve - weird vibe

Bizzarroni #00 | Nessun coltello di Never Angeline Nørth

A cura di Enrico Monacelli, Marcela Isabel Navea Vera e Tommaso Garavaglia

Chiamami con un nome di merda/e il male non si accorgerà di me

(Liquami, Giovedì al fiume)

Internet è un’idea di cui sappiamo spaventosamente poco. E, almeno qui in Italia, su cui e in cui scriviamo sorprendentemente poco. Su internet scriviamo saggi, a volte anche bellissimi saggi, come se fosse un oggetto distante, ma quando facciamo letteratura lo lasciamo al margine dei nostri racconti – come se non fossimo online 24/7 e come se questo non avesse complicato tutta la nostra vita.

Altrove, specialmente nel mondo anglofono, la situazione è diversa. Dall’inizio del ventunesimo secolo ad oggi, un non-movimento, spesso chiamato alt-lit, ha tentato di raccontare il mondo contemporaneo senza fare sconti: racconti che si leggono come shitpost, creepypasta sofisticati, immaginari spappolati da campi minati di riferimenti occulti, orrori eldritici e hyperlinks, preghiere e confessioni tumblr-core.

Bizzarroni è il nostro tentativo di portare questa letteratura ultra-virtuale in Italia. Non un’ antologia o un canone, ovviamente, ma una piccola ferita nel costato monolitico della scena editoriale italiana – per farvi vedere quel che non si dice e non si pubblica. Bizzarroni traduce cose bellissime che non avete ancora letto, non cerca inediti. Bizzarroni è un nome di merda per una scommessa già persa. Bizzarroni è nuovo ed è sconcertante – sul serio. Bizzarroni è il nostro mostro di Frankestein. Bizzarroni è la vostra nuova rubrica preferita. Il racconto zero è David Lynch se avesse avuto accesso non supervisionato ad internet dai primissimi anni di vita. Si chiama Nessun coltello, l’ha scritto Never Angeline Nørth.


Nessun coltello, di Never Angeline Nørth

«Il mondo intero è un ponte molto stretto e l’importante è non avere paura».

Frase attribuita al rebbe Nachman di Breslov

Mi piace addormentarmi con i suoni dell’oceano riprodotti dal telefono. Chiudo gli occhi e mi immagino in una casa sulla spiaggia. L’odore del sale. A un certo punto la mia fantasia diventa un sogno, ma non so dire quando.
Il sale. Un cadavere viene portato a riva, è coperto di tatuaggi che prevedono il futuro. Su tutta la sua pelle ci sono quaranta, forse cinquanta ritratti di grandi dimensioni dello stesso uomo con diverse espressioni facciali. Sono realizzati in una serie di colori diversi. La magia è tutta negli occhi. I molti occhi mi dicono molte cose. I messaggi che ricevo dal corpo non sono una predizione. Sono più simili a una mappa, ai piani di qualcuno. Come se Dio avesse scritto degli appunti per sé e questi fossero poi stati divulgati sottoforma di espressioni facciali tatuate sulla pelle di un corpo senza vita arenato sulla spiaggia. La mia spiaggia.
La mia casa sulla spiaggia ha un bellissimo portico che si affaccia sull’acqua e dalla finestra della cucina sento il rumore dei delfini che giocano mentre cucino. Lascio le finestre aperte e una brezza soffia attraverso la casa, facendo danzare le tende di lino. Immagino che le tende di lino siano di corallo e che io abbia un vecchio bassotto a cui devo fare il bagno spesso per evitare che la sabbia gli entri nelle zampe e si infetti. Nel sogno non mi dispiace farlo e al cane piace l’acqua calda della vasca. Non si contorce, come altri cani. È troppo vecchio per contorcersi, ma non abbastanza per essere morto o troppo vicino alla morte.
La mappa di Dio racconta piccole delizie e sorprese che mi riempiranno la vita di gioia. È centrata principalmente su di me e sui miei immediati dintorni. C’è una parte meravigliosa sulla relazione tra il mio cane e una nuvola che si presenterà da qui a dieci anni, così mi organizzo per essere sicura di essere all’aperto per assistere a questo evento.
Nessuno viene mai a chiedere del corpo. Non è quel tipo di fantasia.

Quando mi sveglio dal sogno, sono di nuovo al bar. Il barista aveva spento i suoni dell’oceano, così alzo lo sguardo e gli lancio un’occhiataccia. Lui mi guarda con un mugugno. Non sono troppo vecchia per stiracchiarmi, e mentre lo faccio mantengo il contatto visivo con tutto il suo viso. In questa caffetteria mi odiano, ma io li amo. Anche quando spengono i suoni del mio oceano mentre dormo, li amo. Il mio amore tiene aperta questa caffetteria. Le persone vengono da me, in questa caffetteria, per il mio amore, che io do loro.
A volte comprano anche il caffè, sia per offrirlo a me in cambio del mio amore (sconsigliato: non bevo caffè) sia per berne loro stessi mentre io li amo. Io li amerò a prescindere da chi sono. Non importa se sono alti o con la faccia da orso. Non importa se hanno l’alito da caffè o altro.
Oggi è venuto un uomo a mostrarmi le sue mani. Mi ha mostrato ogni parte delle sue mani, l’interno delle dita, il dorso e la parte centrale. L’ho visto fare delle forme con le mani: un cuore, un uccello che vola, il vaffanculo nordamericano e quello britannico, due piedi con dita lunghissime e le braccia come gambe, una roccia, una chiesa/un campanile, ecc. Gli ho detto che lo amavo, e lo amavo. Ora non lo amo più, ma lui non è qui e se fosse qui lo amerei di nuovo. Sono diventata estremamente brava ad amare le persone che mi siedono di fronte. Ho amato gruppi di quindici o venti persone alla volta. Una volta ne ho amate trentaquattro. Ci stavano a malapena nella mia caffetteria. Erano un gruppo di turisti dell’Isola del Principe Edoardo. Li ho amati tantissimo. Non è più così, ma in quel momento, molto. Non credo che avrei il tempo di fare qualsiasi cosa se continuassi ad amare tutti dopo la loro partenza.
Mi premo le dita sulle tempie e accendo di nuovo i suoni dell’oceano, ma senza successo. Una donna esce dal bagno e le chiedo se è qui per essere amata. «No» mi risponde. «Sono qui per andarmene».
A questo punto interviene il barista. Salta sul bancone del caffè e mostra un distintivo sulla giacca. È giallo, a forma di stella, con la scritta “distintivo” in maiuscolo. DISTINTIVO. «Da che parte è entrata?» chiede.
«È arrivata dal bagno» aggiungo io, sperando di essere d’aiuto. Il barista mi rimprovera di nuovo.
«Quell’esterno» dice il barista indicando una fila di porte su un lato della caffetteria, «è diverso da quest’esterno», e indica la fila di porte sull’altro lato. «E potrebbe succedere qualcosa di brutto se iniziassimo a far passare la gente da un esterno all’altro. Allora, da quale esterno sei entrata?».
La donna sembra riflettere sulla sua domanda. Apre la bocca ed esce una madre single. Il barista alza un dito verso la donna e mostra il suo distintivo DISTINTIVO alla madre single. La madre single indica la serie di porte sul lato sinistro del locale, quindi il barista estrae una chiave da un portachiavi estensibile attaccato alla cintura e apre una delle porte sul lato sinistro. La madre single esce, si trasforma in falena e vola via, illuminata dalla sua luce interna. Il barista chiude di nuovo la porta e torna dalla donna.
«Allora, qual è?» dice il barista.
«Cosa succede se sbaglio?» dice la donna.
«Ha intenzione di sbagliare?» dice il barista, guardandola con sospetto.
«Il lato sinistro?» La donna fa fluttuare le parole nell’aria come se temesse di non poterle più recuperare.
«La mia sinistra o la sua sinistra?» chiede il barista, continuando a fissarla.
«La sua sinistra». Indica me. Guardo alla mia sinistra e capisco che intende il bagno. L’unica cosa alla mia sinistra è il bagno. La donna si gira e corre in bagno. Il barista resta immobile per un po’, sempre con lo sguardo fisso, ma ora sta osservando con sospetto la porta del bagno e comincia a sentirsi un po’ sciocco. Mi guarda e miagola, poi salta sul bancone per riprendere il suo posto di barista. Io rido in silenzio, ma è una risata isterica. Tutte le mie risate sono risate isteriche. Penso a come in inglese la parola “laughter”, risata, assomigli a “daughter”, figlia, ma non abbia lo stesso suono. Immagino di pronunciarle invertite Dafter. Lotter.
Dopo un po’ di tempo, la porta del bagno si apre appena e la donna fa capolino dallo spiraglio.
«Psst» mi dice.
«Pssssst» rispondo io.
«Puoi amarmi adesso?»
Annuisco, mi alzo ed entro in bagno. Quando entro in bagno, le prendo le mani e ci faccio sesso. Per alcune persone l’amore e il sesso sono la stessa cosa. Per altre persone sono l’opposto. Dopo aver fatto sesso con le sue mani, le lavo delicatamente nel lavandino. «Grazie» sussurra, anche se siamo sole.
«Per cosa?» le chiedo, anche se lo so.
«Per avermi aiutato».
«Ma io non ti ho aiutato. Ti ho fatto sentire meglio sul tuo essere inaiutabile. Ecco cos’è l’amore. Non risolve nulla. È tutto il contrario di una soluzione: è in grado di farci vivere pur non avendo soluzioni. Rende il terribile sopportabile. Quel tanto che basta per farci rimanere».
«Non lo so» mi dice. «E penso che non lo sappia nemmeno tu». A questo punto la guardo con sospetto, ma lei ha capito e comincia a guardarmi con sospetto a sua volta. La saluto mugugnando ed esco dal bagno. Quando rientro nella caffetteria, l’impianto di irrigazione è attivo, tutto è inzuppato e il barista è in piedi dietro il bancone, con i capelli bagnati appiccicati alla testa. Prendo in considerazione l’idea di tornare alla mia sedia, invece mi avvicino al bancone. Spalanco la bocca e lui si china in avanti e lancia un miagolio profondo. Mi rimbomba tutta. Mi mette la carta da parati nella bocca e vi installa un camino. Con i mattoni ci fa un comignolo che mi sbuca dalla guancia destra. Lui accende il fuoco, io lo spengo. Lui accende il fuoco, io lo spengo. Lo spingo via. Chiudo la canna fumaria. «Scusi» gli dico. Lui mi sorride come un pazzo. Torno alla mia sedia sbuffando. «Scusati» borbotto tra me e me.

Stanotte dormirò sotto il tavolo della mia caffetteria, raggomitolata come un animale. Il barista dorme spalmato sul bancone, con la testa appoggiata alla cassa come un cuscino. Lo prendevo in giro per i segni che gli lasciava sul viso quando si svegliava. Ma prendere in giro è una cosa che si fa per gioco. Facevo molte cose che ora non faccio più. Dormivo sul bancone accanto a lui.
Accendo i suoni dell’oceano sul telefono. L’ho collegato a una presa di corrente vicino alla testa. Stasera è più difficile entrare nella casa al mare a causa del comignolo che ho in faccia. È solo la fantasia e quindi cerco di smontarlo, mattone per mattone, ma i mattoni continuano a tornare al loro posto come calamite.
Quando riesco a prender sonno, onna del bagno. La immagino dormire accanto a me e, mentre il rumore dell’oceano inizia a mescolarsi ai pensieri, la immagino nella casa al mare con me. «Tesoro  la chiamo. «Tesoro, mi fai il caffè oggi? Io l’ho fatto ieri».
In realtà non ricordo se ho fatto o meno il caffè ieri, perché anche se nel mondo di questo sogno abbiamo vissuto insieme per molto tempo, non possiedo un ricordo specifico e dettagliato di tutto il tempo. Mi chiedo se non sia manipolatorio dirle che l’ho fatto ieri. Poi mi chiedo se si tratta di quel tipo di manipolazione che è carina, giocosa e trasparente o di quel tipo di manipolazione che corrode una persona. A questo pensiero segue un senso di repulsione verso me stessa anche solo per aver pensato che una manipolazione possa essere carina, giocosa o trasparente. Non riesco a capire se sono troppo severa con me stessa o meno. Rimando il pensiero a dopo e mi accorgo che lei sta già preparando il caffè. Vado da lei.
I delfini emettono i loro versi che, come sempre, fluttuano nella brezza che scuote le nostre tende di lino color corallo. La prendo in braccio. Le dico che le note interpretative sull’uomo tatuato da Dio mi hanno detto che «eravamo destinate a stare sempre insieme, mio tesoro», cosa che in questo sogno sto decidendo essere vera. Lei alza gli occhi al cielo e torna al caffè. Quando si china i suoi capelli cadono da un lato, rivelando un orecchio da mordicchiare. Alza lo sguardo verso di me, mi lancia un bacio e lo segue con un occhiolino, che io ricambio.
Sul lato ovest della casa c’è una pozza di sperma dal cui centro emerge un pene molto grande, che sprizza spesso sperma. In questo momento è molle, immerso nella sua piscinetta, così mi prendo una pausa dai miei flirt ed esco a coccolarlo un po’. Non ci vuole molto per renderlo completamente rigido (non lo chiamerei duro, perché la pelle è così morbida!) e così lo scopo un po’ e poi vado nell’oceano per lavarmi lo sperma dai capelli, dalla pelle e dal buco del culo. L’acqua salata fa molto bene alla pelle e ai capelli. Così come lo sperma. Quando il tesoro chiama il mio nome torno da lei, bagnata e salata.
Dopo il caffè andiamo con il cane a fare una passeggiata sulla spiaggia. Quando arriviamo al limite dove la spiaggia incontra la foresta, lei mi preme contro l’albero, scosta i capelli da un lato e mi offre il suo orecchio da mordicchiare, e lo faccio. Risatine da entrambe le parti.

La mattina dopo mi sveglio mentre il barista viene accoltellato e sulla mia faccia c’è ancora il comignolo. Viene accoltellato circa una volta alla settimana, da un uomo e una donna che entrano e lo accoltellano per qualche ora senza dire nulla. Evita di guardarmi negli occhi mentre succede, e io gliene sono profondamente grata. Questa storia delle coltellate va avanti da anni. Io all’inizio lo confortavo, lo amavo ogni volta che veniva accoltellato, ma a un certo punto ho dovuto smettere. Mi piace pensare a me stessa come a una donna gentile e sto male per la frequenza con cui viene accoltellato, ma cosa dovrei fare? Amarlo per sempre solo perché ci sto male e siamo nella stessa stanza? Sarebbe giusto solo se fossi in grado di amare tutti coloro che vengono accoltellati, indipendentemente da quanto mi stanno vicini. E questo non posso farlo. Troppa impegno! Il bar chiuderebbe. Sotto quale tavolo dormirei a quel punto?
Penso al mio sogno, al mio tesoro. Vado alla porta del bagno e la apro. La porta, a sua volta, mi apre. Entrambe sbocciamo, come fiori.
«Mi vedo qualcuno» dico alla porta. «Vedo tante persone» le dico.
«Io non ti vedo» dice la porta. «Sono una porta» dice.
Piango un po’ e torno al mio posto. Di fronte a me siede un uomo con un’ape in ogni narice. «Ti amo» gli dico. «Ti amo così tanto» gli dico. Lui piange e io piango con lui.
«Non posso ricambiarti» mi dice.
«Va bene», gli prendo la mano.
«Sono impegnato con qualcuno» spiega, e intanto gesticola verso un coro che in questo momento sta ordinando una bibita italiana per ciascuna delle sue bocche.
«Capisco» gli dico. «Ti amo lo stesso» gli dico.
A questo punto si china e mi sussurra all’orecchio: «Il mio coro non capirebbe se sapesse che mi ami. Anche se sapessero senza ombra di dubbio che io non ti amo, non capirebbero». A questo punto una delle sue api mi punge la guancia.
Avvicino la bocca al suo orecchio e bisbiglio un po’ anche io. «Vaffanculo al tuo coro». Lascio che le parole gli colino nell’orecchio. «E vaffanculo pure te». Faccio una pausa e torno sulla mia sedia. «Non ti amo più» dico a voce alta, sperando vagamente che il coro senta.
L’uomo piange. Mi rilasso: ho fatto tutto quello che dovevo. Disamare qualcuno è incredibilmente importante. Importante quanto amarlo. Lui mi ha reso la cosa più facile pungendomi con la sua ape nasale. Niente potrà più farmelo amare. Finché non tornerà, ovvio.
Arrivano altri clienti e io li amo tutti. Piango un po’. Questo è il primo lavoro che ho avuto in cui piangere aiuta. Gli altri lavori che ho avuto scoraggiavano il pianto al lavoro. Piangevo sempre per dispetto davanti ai miei capi quando me lo ricordavano. Rifletto per un po’ sul concetto di pianto. Così strano. Così animale.
«Sono proprio una locandina» dico più tardi a un cliente che mi attacca a una bacheca e mi legge prima di decidere che alla fine non potrà partecipare.
«Mia figlia» dice scusandosi e facendo un cenno con la testa verso la figlia, che piange mentre armeggia per intrecciarsi i capelli sul lato del cappotto. «Fa danza classica».
La immagino vorticare in piroette con le lacrime che le girano intorno, i capelli sciolti e liberi. È bellissimo. «Non preoccuparti» vorrei dire, ma non ci riesco. Sono solo una locandina.
Emetto un sospiro che mi fa uscire dalla tavola e mi fa fare una piccola giravolta. Finisco nella spazzatura. L’uomo mi ringrazia e se ne va. L’aria condizionata della caffetteria è bella forte oggi. È una bella giornata di aria forte.

La spiaggia è perfetta. Il mare è arancione, la sabbia è bianca e in cielo non ci sono coltelli. Stringo il mio tesoro e ci sediamo su una coperta a guardare le onde mentre il nostro cane gioca intorno a noi. Le tocco le mani. Le bacio. La nostra vita insieme qui è tutto ciò che avrei potuto desiderare. Non penso più alle manipolazioni, sottili o meno. Le bacio i capelli e sento che per la prima volta in vita mia non sto nascondendo nulla.
«È proprio un sogno» le dico.
«Dio, lo so» dice lei.
«No» dico io, «nel senso che questo è un sogno vero e proprio. Lo sto sognando».
«No, lo so» dice lei. «Ti stavo chiamando Dio».
«Perché?» le chiedo.
«È quello che sei qui mi dice. «Tu sei il mio Dio. Il Dio del tuo sogno. E io sono parte di quel sogno. Sono la ragazza dei tuoi sogni». Mi appoggia la testa sul grembo mentre il nostro cane morde le onde che si infrangono.
Ci penso e intanto le accarezzo la peluria sottili sulla nuca.
«Posso chiederti una cosa?»
«Dio, puoi chiedermi qualsiasi cosa».
«Allora, innanzitutto è un po’ strano essere chiamata Dio. Credo che preferirei non essere più chiamata Dio».
«D’accordo. E poi?»
«Ho una confessione da fare».
«Confessa, amore mio».
«Ho sempre voluto avere un figlio».
Il tesoro si alza a sedere e mi guarda seriamente. Studia il mio viso. Prende le mani e mi accarezza delicatamente entrambi i lati del viso con le nocche.
«Avrai un bambino. Avremo un bambino. Lo chiameremo nostro figlio» mi dice.
La guardo negli occhi. «Davvero? Qui?»
«Sì, in questo posto. La nostra casa dei sogni. Il nostro bambino perfetto» mi sorride.
Io ricambio il sorriso.
Non ci sono coltelli in cielo oggi per noi, e il nostro cane ci corre incontro eccitato, in qualche modo più giovane di prima.

Oggi è tutto il giorno che mi fa male il camino,  al lavoro. È come se qualcuno mi avesse acceso il fuoco in bocca, mentre dormivo. Il fumo mi esce dalla faccia e la carta da parati si stropiccia mentre parlo, ma non ho tempo per il dolore o la frustrazione. Un bambino. Il nostro bambino. Non vado in bagno per tutto il giorno, faccio i turni per fare la pipì fuori dalle porte. La pipì può uscire da entrambe le porte, ma le persone no. Le persone possono uscire da una porta sola. Vedo il barista che si tocca il suo distintivo DISTINTIVO ogni volta che le apro per fare pipì. Non riesco a capire se pensa davvero che me ne stia andando o se vuole solo una scusa per guardarmi fare pipì. Non ho idea se il mio tesoro sia ancora in bagno. Non so quando uscirà. Quasi non mi importa. Sento di aver ottenuto da lei ciò di cui avevo bisogno, il che mi sembra una cosa crudele da dire. Ma lei non può sentire i miei pensieri ed esserne ferita. Ritrovarla qui ora, in questo posto a pezzi, sarebbe terrificante.
Il barista mi guarda come se fossi un crimine, e la mia pipì diventa patate appena varca la soglia della porta. «Qui sono il Dio di nessuno e la ragazza dei sogni di nessuno» dico ad alta voce, mentre le mie patate cadono una a una sul terriccio proibito.


Never Angeline Nørth aka Møss Høpe Ångel, fka Moss Angel the Undying, fka Moss Angel Witchmonstr, fka Sara June Woods, fka Sara Woods, fka 

è un’artista/scrittrice/musicista/tatuatrice/artigiana/etc multimediale polinome. Il suo lavoro si occupa di cani, del modo in cui le cose si rompono quando le pieghi, dell’ebraismo, della magia, dell’estetica del disordine, del “””genere”””, dei confini che erigiamo per noi stessi e per gli altri, dei confini che gli altri erigono per noi, delle erezioni in generale, della realtà e della percezione, dei ratti, della religione, del tempo come costrutto, dei sistemi di potere e di controllo, dei nostri cuori, della comunicazione, della “””natura”””, dell’anale e della morte. Never Angeline Nørth è autrice di RAINBEAR!!!!!!!!! (Apocalypse Party, 2022), Sea-Witch (Inside the Castle, 2020), Careful Mountain (CCM, 2016), Sara or the Existence of Fire (Horse Less Press, 2014) and Wolf Doctors (Artifice Books, 2014).


Il racconto originale è apparso su The Rupture ed è accessibile qui.
In copertina e in corpo al testo le foto sono prese dall’account @grimspirit di Tumblr.