Appunti sparsi dell’ultimo traduttore sopravvissuto al Conte Dracula

Il 26 maggio 1897 Bram Stoker pubblicava per la prima volta Dracula, romanzo archetipo sulla figura del vampiro. Flavio Santi è stato incaricato dalla Rizzoli per una nuova traduzione: quando gli chiesi come stesse andando, Flavio mi rispose di essere rimasto stupito dalla lingua. Espressionista, difficile, molto lontana dalle traduzioni storiche, che invece ne davano un’immagine tutto sommato accogliente. Se in generale si preferisce, comunque, puntare alla leggibilità contro una resa simigliante, qui Flavio recupera una sua prova traduttoria all’insegna dell’eccessivo, dal Capitolo VI, pagina di diario dell’1 agosto.


Articolo di Flavio Santi

“Polvere, gran confusione…”

Enrico Ruggeri

A ben pensarci, Dracula è una grande allegoria della traduzione. A partire dal nome stesso, Dracula, che di fatto è una traduzione dal rumeno dracul, il diavolo. La Transilvania, culla di Dracula, ha lo stesso prefisso iniziale trans– di traduzione – al di là, oltre. Così come trasfusione e traduzione – tant’è che nel primo repertorio bibliografico moderno, la Bibliotheca Universalis di Conrad Gessner (sollecitato dall’incendio della biblioteca del re ungherese Mattia Corvino, alleato del Dracula storico, fra l’altro), tradotto si dice “transfusus”. Tradurre una salma, poi. Come quella del Conte stesso. Dalla Transilvania a Londra. E ancora, tradurre in carcere – come capita di fatto a Jonathan Harker, che molto insiste su questa condizione. Traduzione come trasporto (in russo tradurre è proprio perevesti, trasportare), e in Dracula ci sono molti trasporti: su treno e carrozza all’inizio, sul Demeter, su imbarcazione ecc. E poi la traduzione come gioco di presenza e assenza: il testo di partenza è assente, presente nella resa traduttiva, esattamente come fa il Conte, che è un presente-assente. un non-morto, non-vivo, non-parola, non-testo.

La traduzione invece come specchio sembra non funzionare: infatti lo specchio in cui Dracula si specchia cosa riflette? Nulla. Perché la traduzione non è corrispondenza di forme – come nello specchio – ma semmai trasporto. E trasformazione – come Dracula che si trasforma in nebbia, topo, pipistrello…

La bellezza dei nomi parlanti in Dracula. Proprio quelli che in traduzione non torneranno mai più. Il grande insegnamento di umiltà che è, in fondo, la traduzione: confezioni un testo per sua natura provvisorio e instabile, che durerà al massimo un paio di decenni, poi invecchierà e verrà superato, spazzato via da altre traduzioni più aggiornate, moderne, attuali. La traduzione e il tempo. La traduzione ti mette in contatto con le pieghe del tempo. il tempo tuo e altrui. Dracula è anche un romanzo sul tempo, a ben pensarci. Su uno che non invecchia. Se fosse una traduzione (come quel gioco che si faceva da ragazzi, se fosse un fiore, se fosse una cosa…), il conte Dracula non funzionerebbe granché, temo. La traduzione per essere tale deve invecchiare. 

Ma sto divagando. Dicevo i nomi parlanti in Dracula. A partire dall’autore stesso, Stoker, cioè fuochista (come non pensare a Kafka?). Passiamoli rapidamente in rassegna.

Jonathan Harker, l’avvocato protagonista: dal nome biblico, Giona, con un destino segnato in bocca al mostro, e dal cognome su cui Dracula farà dell’amara ironia, invitando Harker ad hark, cioè ascoltare… La sua fidanzata Mina Murray ha la luna nel nome (Mene in greco è luna) e nel cognome, Murray, cioè raggio di luna, e a sua volta Harker le scriverà una lettera in cui le parla di raggi di luna. L’amica di Mina: Lucy Westenra, cioè Luce Occidentale – con la sillaba finale che rimanda a Ra, il dio egizio incarnazione del sole. E ancora il vorace Renfield, con quel ren– iniziale che rimanda ai reni – Renfield è ghiotto di tutto, figuriamoci di rognoni vari. Ma il più impressionante è questo (a dimostrazione che i grandi libri contengono Tutto, passato presente e futuro): un personaggio minore che incrocia il Conte di cognome fa Skinsky. Togliete la s- iniziale, please.

Dracula è esso stesso un ordigno traduttivo implacabile, formato com’è da lingue di ogni genere: le classiche (latino e greco), le slave (russo, rumeno), il tedesco, l’olandese, il turco, e poi il dialetto dell’Isola di Man in epigrafe, l’inglese imparato a tavolino dal Conte, l’inglese dei bambini, simile a una lullaby, quello degli operai degli slum londinesi, l’Ullans spiazzante e assurdamente incomprensibile di Mr Swales, fino a svariate brachigrafie e alle formule sintetiche della chimica.

A un certo punto con l’Ullans (un dialetto scozzese parlato nell’Irlanda del Nord) Dracula è come se survoltasse e arrivasse al sopraccarico di un Ulisse o addirittura un Finnegans Wake – del resto sia Stoker che Joyce erano irlandesi.

Provare per credere con questa traduzione del dialogo tra le due ragazze, Mina e Lucy, e il vecchio Mr Swales. Traduzione che non troverete in questa forma estremizzata nell’edizione BUR, in cui si è preferito seguire, nei casi più estremi, le ragioni di una maggiore leggibilità interpretativa piuttosto che quelle di una veste totalmente centrifuga com’è nell’originale.

(Piccola chiosa per comprendere a pieno lo spirito di questa resa: l’Ullans è tutto giocato su piccoli slittamenti fonici che diventano slittamenti di significato, per cui stean significa stone, my gog sta per my God, I must gang per I must go ecc., con una fortissima china verso l’equivoco dunque, magari sessuale).

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Klaus Kinski in Nosferatu (1979) di Werner Herzog

“Oh, Mr. Swales, you can’t be serious. Surely these tombstones are not all wrong?”
“Yabblins! There may be a poorish few not wrong, savin’ where they make out the people too good; for there be folk that do think a balm-bowl be like the sea, if only it be their own. The whole thing be only lies. Now look you here; you come here a stranger, an’ you see this kirkgarth.” I nodded, for I thought it better to assent, though I did not quite understand his dialect. I knew it had something to do with the church. He went on: “And you consate that all these steans be aboon folk that be happed here, snod an’ snog?” I assented again. “Then that be just where the lie comes in. Why, there be scores of these lay-beds that be toom as old Dun’s ’bacca-box on Friday night.” He nudged one of his companions, and they all laughed. “And my gog! how could they be otherwise? Look at that one, the aftest abaft the bierbank; read it!” I went over and read: “Edward Spencelagh, master mariner, murdered by pirates off the coast of Andres, April 1854, aet. 30.”
When I came back Mr. Swales went on: “Who brought him home, I wonder, to hap him here? Murdered off the coast of Andres! an’ you consated his body lay under! Why, I could name ye a dozen whose bones lie in the Greenland seas above” he pointed northwards, “or where the currents may have drifted them. There be the steans around ye. Ye can, with your young eyes, read the small-print of the lies from here. This Braithwaite Lowre, I knew his father, lost in the Lively off Greenland in ’20; or Andrew Woodhouse, drowned in the same seas in 1777; or John Paxton, drowned off Cape Farewell a year later; or old John Rawlings, whose grandfather sailed with me, drowned in the Gulf of Finland in ’50. Do ye think that all these men will have to make a rush to Whitby when the trumpet sounds? I have me antherums aboot it! I tell ye that when they got here they’d be jommlin’ an’ jostlin’ one another that way that it ’ud be like a fight up on the ice in the old days, when we’d be at one another from daylight to dark, an’ tryin’ to tie up our cuts by the light of the aurora borealis.” This was evidently local pleasantry, for the old man cackled over it, and his cronies joined in with gusto.
“But,” I said, “surely you are not quite correct, for you start on the assumption that all the poor people, or their spirits, will have to take their tombstones with them on the Day of Judgment. Do you think that will be really necessary?”
“Well, what else be they tombstones for? Answer me that, miss!”
“To please their relatives, I suppose.”
“To please their relatives, you suppose!” This he said with intense scorn. “How will it pleasure their relatives to know that lies is wrote over them, and that everybody in the place knows that they be lies?” He pointed to a stone at our feet which had been laid down as a slab, on which the seat was rested, close to the edge of the cliff. “Read the lies on that thruff-stean,” he said. The letters were upside down to me from where I sat, but Lucy was more opposite to them, so she leant over and read: “Sacred to the memory of George Canon, who died, in the hope of a glorious resurrection, on July 29, 1873, falling from the rocks at Kettleness. This tomb was erected by his sorrowing mother to her dearly beloved son. He was the only son of his mother, and she was a widow. Really, Mr. Swales, I don’t see anything very funny in that!” She spoke her comment very gravely and somewhat severely.
“Ye don’t see aught funny! Ha! ha! But that’s because ye don’t gawm the sorrowin’ mother was a hell-cat that hated him because he was acrewk’d, a regular lamiter he was, an’ he hated her so that he committed suicide in order that she mightn’t get an insurance she put on his life. He blew nigh the top of his head off with an old musket that they had for scarin’ the crows with. ’Twarn’t for crows then, for it brought the clegs and the dowps to him. That’s the way he fell off the rocks. And, as to hopes of a glorious resurrection, I’ve often heard him say masel’ that he hoped he’d go to hell, for his mother was so pious that she’d be sure to go to heaven, an’ he didn’t want to addle where she was. Now isn’t that stean at any rate”—he hammered it with his stick as he spoke—“a pack of lies? and won’t it make Gabriel keckle when Geordie comes pantin’ up the grees with the tombstean balanced on his hump, and asks it to be took as evidence!”
I did not know what to say, but Lucy turned the conversation as she said, rising up: “Oh, why did you tell us of this? It is my favourite seat, and I cannot leave it; and now I find I must go on sitting over the grave of a suicide.”
“That won’t harm ye, my pretty; an’ it may make poor Geordie gladsome to have so trim a lass sittin’ on his lap. That won’t hurt ye. Why, I’ve sat here off an’ on for nigh twenty years past, an’ it hasn’t done me no harm. Don’t ye fash about them as lies under ye, or that doesn’ lie there either! It’ll be time for ye to be getting scart when ye see the tombsteans all run away with, and the place as bare as a stubble-field. There’s the clock, an’ I must gang. My service to ye, ladies!” And off he hobbled.

«Oh, Mr Swales, mica direte sul serio! Quelle iscrizioni sulle tombe non possono mentire!».
«Balere! Forse un due tre no, le tombole che non logiano troppo, ma c’è gente in fissa che il mare è una tazzina tutta sua. Tutte balere! Ma giostrate un po’, voi che siete forestali, in sto cimicerio!». Ho annuito, pensando che fosse la cosa migliore da fare, del resto non capivo bene il dialetto che parlava. Comunque era chiaro che stava parlando della chiesa e del cimitero. Ha riattaccato: «E voi ci credete che sotto tutti sti cosi c’è gente che dovrebbe trovarsi qui, con tutte le sue costicine?». Ho annuito un’altra volta. «Balere! Ce ne sono a secchiate di sti letti da salma, che sono vuoti come il trincatoio del vecchio Dun il venerdì sera, o no?» E ha dato di gomito a uno dei suoi compagni, e quelli giù a ridere. «Fulminacci, se non è così! Ma occhiate un po’ quella, lì, dietro la panca. Ma leggetela!» Sono andata alla tomba e ho letto: «Edward Spencelagh, capitano di lungo corso, trucidato dai pirati al largo della costa di Andres, aprile 1854, aet. 30».
Quando sono tornata da Mr Swales, ha riattaccato: «E chi lo ha riportato a casanza, mi chiedo, e chi lo ha seppiolato là sotto, eh? Turgidato al largo delle costole di Andres! E mi vogliono far credere che la sua salama sta là sotto! Ah, ve ne posso nominare una dozzina, che i loro ossari stanno in fondo al mar di Grigliata» e così dicendo ha indicato verso nord, «o dove che i correnti li hanno sciati. Ce ne sono di piere qui attorno. E voi avete le lanterne buone, no?, così potete leggere finanche da qui le balere scritte in caratteri piccioli così. Quel Braithwaite Lourey, per scempio, conoscevo il padre, perdutosi col “Lively” al largo della Grigliata, nel Venti. Oppure quell’Andrew Woodhouse, negato in quegli stessi amari nel 1777; o John Paxton, negato al largo di capo Farewell un ano dopo. E il vecchio John Rawlings, che suo nonno nevicava con me, negato nel goffo di Filanda nel Cinquanta. E voi ci credete che tutti questi mecchi riveranno dritti filati a Whitby quando che le trombe tromberanno? Io ho le mie ubbie! Credetemi se vi dico che, se vogliono venire tutti qui spintandosi e facendo a vomitate, ci è una bella confusione, ci è, su quei ghiaccioli lassù a nord, e qua saremo tutti uno sopra l’altro da mane a sera, a tentare di caricarci sul groppo le nostre tombali alla luce dell’aurora sboreale». Doveva essere una battuta di spirito locale, perché il vecchio sghignazzò e gli altri gli fecero eco di gusto.
«Ma» ho replicato, «io credo che non siate nel giusto, perché partite dal presupposto che tutti quei poveri diavoli, o le loro anime, il giorno del Giudizio dovranno portarsi appresso la pietra tombale. Credete sia proprio necessario?»
«Be’, a che altro servono le tombali, sennò? Orecchiamo, sirella mia!»
«Per far piacere ai parenti, direi.»
«Per far piacere ai parenti!» Il suo tono era di profondo disprezzo. «E credete che gli faccia piacere ai perenti di sapere che sulle tombali stanno scritte tutte ste balere, e che tutti quanti qui attorno sanno che sono balere?» Ha indicato una lastra ai nostri piedi, proprio sull’orlo del dirupo, su cui si appoggiava la panchina. «Ma occhiatela, occhiatele le balere che stanno scritte» ha esortato. Da dove mi trovavo, la scritta appariva capovolta, ma Lucy, seduta più vicino, la vedeva meglio, si è chinata e ha letto: «Alla memoria di George Canon che morì nella speranza di una gloriosa resurrezione, addì 29 luglio 1873, cadendo dalle rocce di Kettleness. Questa tomba è stata eretta dalla dolente madre al caro figlio amato. Era l’unico figlio di sua madre, ed ella è vedova. A dire il vero, Mr Swales, non ci vedo proprio niente di buffo». Lucy aveva pronunciato questo suo commento con tono grave, anzi con una punta di rimprovero.
«Ah, non ci vedete niente di sbuffo! Ah ah! Ma sapevatelo che la madre dolente era una vera magera che lo oliava perché lui era storto, quello che si dice un gibbus, e lui la oliava tanto che si è sudiciato per impedirle di incazzare la sicurazione che gli aveva fatto sulla vita? S’è fatto ballar via la zucca del cranio, s’è fatto, con un vecchio ferro che gli serviva per scacciare i corbi. Ma mica l’ha usato contro i corbi, eh, no, per cacciarsi nella zucca un bugno di ballini gli è servito. Ecco come che è caduto dalle rocce. E, per quel che riguarda la speranza di una gloriosa erezione, cara sirella, l’ho recchiato io con ste mie recchie ripetere tante di quelle volte che sperava di finire all’inforno, perché sua madre era talmente biscotta che era sicura che andava in paraiso, e lui non voleva ritrovarsela tra i piedi. E allora quella tombale» e così dicendo ha preso a battervi sopra il bastone, «è o non è un sacco di balere? E non farà crepar di ridarella Gabriel, quando il vecchio Geordie se ne riverà sbavando su per il sentiero, con la tombale in bilico sul gibbus, e chiederà che gliela passano come piotta valida?»
Non sapevo che dire, ma Lucy ha cambiato argomento, alzandosi in piedi: «Oh, ma perché ci avete detto tutte queste cose? Questa è la mia panchina preferita, le sono tanto affezionata, e adesso mi toccherà continuare a sedere sulla tomba di un suicida!».
«Male non fare, sirella mia, e al povero Geordie gli farà piacere avere una sirella così carina che gli sta seduta sulle finocchia. No, no, a voi male non fare. Ma come che io vengo qua a sedermi da più di venti ani ormai, non mi è mai capitano niente. Non dovete prendervela tanto a cuore per quelli che stanno sotto di voi, e tanto meno per quelli che sotto mica ci stanno! Volete che vi dico io, quando che sarà il momento di aver purè? Quando che le tombali le vedrete scopar via di corsa, e qui resterà un buco che sembra un campo di stoppie. To’, sonano le sex, devo mandare. I miei osceni, sirelle.» E se n’è andato via zoppicando.

Flavio Santi vive tra la campagna pavese e quella friulana. Ha tradotto autori classici (tra cui Hermann Melville e Francis Scott Fitzgerald) e contemporanei (Wilbur Smith e Ian Fleming tra gli altri). Insegna all’Università dell’Insubria di Como-Varese. Autore di numerose raccolte di poesia (l’ultima Quanti per Industria&Letteratura) e di diversi libri di prosa (con Aspetta primavera, Lucky, Socrates, 2011, è stato candidato al Premio Strega). Nel 2016, per i tipi di Mondadori, è uscita la prima indagine dell’ispettore Drago Furlan. Molte sue opere sono tradotte in diverse lingue, dall’inglese all’indonesiano. È tifosissimo dell’Udinese, e coltiva un piccolo orto.


Leggi le traduzioni di Flavio Santi da James Merril, Divine Comedies.

Foto in copertina: “Ambiente spaziale a luce rossa” (1967), di Lucio Fontana