poesie anne sexton

Anne Sexton – Due traduzioni inedite di Rosaria Lo Russo

Facciamo un bello sforzo di immaginazione. Siamo alla fine degli anni Sessanta, Facebook è già ampiamente in voga e la litweb è uno spazio di autopromozione efficace e consolidato, proprio come oggi. Proviamo a pensare al profilo pubblico di un poeta, anzi di una poetessa americana vivente e scrivente in quegli anni. Scegliamone una che dei social avrebbe compreso in pieno i meccanismi, usandoli come cassa di risonanza della propria identità autoriale tanto da diventare un’influencer, un caso letterario sui social e fuori. Immaginiamo che la poetessa in questione sia Anne Sexton (1928-1974): migliaia e migliaia di follower, foto profilo da icona rock in pelliccia e tacchi a spillo con la sua band, gli Her Kind. Ci possiamo facilmente figurare qualche post ben oltre i limiti della blasfemia, scritti di getto dopo due o tre Martini di troppo con l’amica Sylvia Plath; poesie mistico-erotiche incandescenti bersagliate dalle segnalazioni di haters bigotti; fluviali e scandalosi auto-esorcismi confessionali; commenti sopra le righe agli status dei poeti dell’accademia. E poi una marea di condivisioni dei video delle sue performance, i suoi celebri verbal happenings in diretta live con pollicioni e cuoricini che fiottano ininterrottamente. Insomma, non facciamo molta fatica ad immaginare una Anne Sexton che usa i social come laboratorio per la creazione e proliferazione di una vera e propria icona pop.

Tra queste migliaia di follower, immaginiamoci anche una teenager in piena crisi adolescenziale dopo la morte della madre, Madonna Louise Veronica Ciccone. La ragazza guarda insieme alla sorella le foto profilo di Sexton, e nota l’incredibile somiglianza con la madre. Madonna prende appunti sulle poesie di Live or die (1966), il libro con cui Sexton ha vinto il premio Pulitzer; la giovane cantante trova ispirazione nel personaggio eccessivo, provocante e anticonformista di Anne e, alla vigilia di Natale del 1993, manda una mail (ehm, un fax) con una poesia d’amore alla sua guardia del corpo James Albright, praticamente un plagio della poesia Love Song di Sexton. O ancora, pensiamo al profilo di Peter Gabriel, giovanissimo ed eclettico cantante dei Genesis. Incantato dal talento performativo della “Poeta Rock” e dal coraggio inesauribile delle sue confessioni, Peter legge 45 Mercy Street e nel 1986, una decina d’anni dopo il suicidio di Anne, pubblica un singolo con lo stesso titolo. Anche Kate Bush, che con Peter Gabriel ha un sodalizio artistico e affettivo, sembra lasciarsi influenzare dalle poesie di The book of folly (1972) nella composizione dell’album The Red Shoes.

Ma veniamo al punto. Perché vi ho chiesto questo sforzo di immaginazione? Dopotutto – profili Facebook a parte – le storie di Madonna, Peter Gabriel e Kate Bush sono assolutamente vere, e rappresentano solo in minima parte la clamorosa influenza di Anne Sexton a tutti i livelli della cultura popolare americana. Non è così difficile immaginare l’enorme successo che Anne Sexton avrebbe avuto sui social, con buona pace del nostro Gio Evan fresco di partecipazione a Sanremo e recordman di vendite con i suoi libri. Parliamo insomma di una diva, un’icona pop di assoluto valore letterario, capace di intercettare e anticipare molti fenomeni sociali.

Quando abbiamo chiesto delle traduzioni inedite alla poetessa, performer e traduttrice storica di Sexton Rosaria Lo Russo, lei ci ha subito fatto leggere To like, to love, una poesia datata 17 maggio 1972 e raccolta nel libro postumo Words for Dr. Y. (1978): Rosaria si è resa conto che lo spirito dissacrante delle immagini e certe espressioni di quella poesia – con qualche licenza poetica del tutto autorizzata – potevano essere letteralmente riferite anche al contemporaneo, ai tempi e ai modi di Facebook. Laiccare, Lovvare la sua originalissima interpretazione di questa poesia – ci offre Sexton nelle vesti di una folle Cassandra fuori controllo capace di anticipare di qualche decennio il vacuo teatrino delle dinamiche social dove regnano ipocrisie, invidie, ostentazioni, nevrosi, servilismi e messinscene in chiave politically correct. La seconda traduzione inedita di Rosaria Lo Russo è invece tratta da 45 Mercy Street, libro curato (epurato) e pubblicato postumo nel 1976 dalla figlia Linda Gray Sexton. The Big Boots of Pain è una sintesi dell’ultima Sexton: avida d’amore, vulcanica e disperata, in cerca di una «via della pietà» che possa dare un senso a qualsiasi cosa «avessero in mente i pianeti del 9 novembre 1928». 

Rosaria Lo Russo conosce profondamente non solo la postura e la vicenda umana, ma anche l’idioletto letterario di Anne Sexton, tanto da averlo identificato e mescolato con il proprio. Le sue traduzioni nascono alla luce di questa esperienza di conquista, che è una totale immersione nella lingua, nel dizionario e nella voce di Sexton, alla ricerca dell’identità autoriale di una poetessa altrimenti impossibile da classificare, e estremamente difficile da restituire in un’altra lingua e in un’altra cultura.

Bernardo Pacini


To like, to love

Aphrodite,
my Cape Town lady,
my mother, my daughter,
I of your same sex
goggling on your right side
have little to say about LIKE and LOVE.
I dream you Nordic and six foot tall,
I dream you masked and blood-mouthed,
yet here you are with kittens and puppies,
subscribing to five ecological magazines,
sifting all the blacks out of South Africa
onto a Free-Ship, kissing them all like candy,
liking them all, but love? Who knows?
I ask you to inspect my heart
and name its pictures.
I push open the door to your heart
and I see all your children sitting around a campfire.
They sit like fruit waiting to be picked.
I am one of them. The one sipping whiskey.
You nod to me as you pass by and I look up
at your great blond head and smile.
We are all singing as in a holiday
and then you start to cry,
you fall down into a huddle,
you are sick.
What do we do?
Do we kiss you to make it better?
No. No. We all walk softly away.
We would stay and be the nurse but
there are too many of us and we are too worried to help.
It is love that walks away
and yet we have terrible mouths
and soft milk hands.
We worry with like.
We walk away like love.
Daughter of us all,
Aphrodite,
we would stay and telegraph God,
we would mother like six kitchens,
we would give lessons to the doctors
but we leave, hands empty,
because you are no one.
Not ours.
You are someone soft who plays
the piano on Mondays and Fridays
and examines our murders for flaws.
Blond lady,
do you love us, love us, love us?
As I love America, you might mutter,
before you fall asleep.

Laiccare, lovvare

Afrodite,
mia signora di Cape Town,
madre mia figlia mia,
io del tuo stesso sesso
strabuzzando gli occhi a te
ho ben poco da dire sul laiccare e lovvare.
Ti sogno nordica, alta sei piedi
Ti sogno mascarona con due labbra gommoni rosso sangue,
e invece eccoti qui coi gattini e i cagnolini,
che subscrivi cinque riviste di ecologia
mentre setacci tutti i neri dal Sud Africa
alla Nave della Libertà, irrrorandoli di baci gommosi,
e laiccandoli tutti. Ma li lovvi? Bboh.
Ti chiedo di ispezionarmi il cuore
e rinominare le immagini.
Spalanco la porta al tuo cuore
e vedo tutti i tuoi figli seduti attorno a un falò
come frutti che aspettano di essere colti.
Sono una di loro, quella che ciuccia whiskey.
Mentre mi passi accanto fai un cenno e io guardo
la tua grande testa bionda e sorrido.
Stiamo tutti cantando, come in vacanza, e allora
tu ti metti a piangere,
vai in confusione,
ti piglia male.
E che dobbiamo fare?
Ti si bacia per farti stare meglio?
No no. Tutti che svaniamo alla chetichella.
Vorremmo tutti restare a farti da infermiere ma
siamo troppi e troppo in ansia per starti appresso.
È il cuore che svanisce
e abbiamo bocche terribili
e manine di latte.
Siamo in ansia per i mipiace.
Svaniamo come i cuoricini.
Figlia di tutti noi,
Afrodite,
vorremmo restare a telegrammare Dio
vorremmo farti da mamma come sei cucine
vorremmo dare lezioni ai medici
ma ce ne andiamo a mani vuote
perché non sei nessuno.
Non nostra.
Sei una tipa soft
che suona il piano di lunedì e di venerdì
e indaghi i nostri omicidi cercando gli errori.
Bionda signora,
cilovvicilovvicilovvi?
Dato che io l’America la lovvo,
potresti brontolarmi
prima di addormentarti.

The big boots of pain

There can be certain potions
needled in by the clock
for the body’s fall from grace,
to untorture and to plead for.
These I have known
and would sell all my furniture
and books and assorted goods
to avoid, and more, more.
But the other pain…
I would sell my life to avoid
the pain that begins in the crib
with its bars or perhaps
with your first breath
when the planets drill
your future into you
for better of worse
as you marry life
and the love that gets doled out
or doesn’t.
I find now, swallowing one teaspoon
of pain, that it drops downward
to the past where it mixes
with last year’s cupful
and downward into a decade’s quart
and downward into a lifetime’s ocean.
I alternate treading water
and deadman’s float.
The teaspoon ought to be bearable
if it didn’t mix into the reruns
and thus enlarge into what it is not,
a sea pest’s sting turning promptly
into the shark’s neat biting off
of a leg because the soul
wears a magnifying glass.
Kicking the heart
with pain’s big boots running up and down
the intestines like a motorcycle racer.
Yet one does get out of bed
and start over, plunge into the day
and put on a hopeful look
and does not allow fear to build a wall
between you and an old friend
or a new friend and reach out your hand,
shutting down the thought that
an axe may cut it off unexpectedly.
One learns not to blab about all this
except to yourself or the typewriter keys
who tell no one until they get brave
and crawl off onto the printed page.
I’m getting bored with it,
I tell the typewriter,
this constantly walking around
in wet shoes and then, surprise!
Somehow DECEASED keeps getting
stamped in red over the word HOPE.
And I who keep falling thankfully
into each new pillow of belief,
finding my Mercy Street,
kissing it and tenderly gift-wrapping my love,
am beginning to wonder just what
the planets had in mind on November 9th, 1928.
The pillows are ripped away,
the hand guillotined,
dog shit thrown into the middle of a laugh,
a hornets’ nest building into the hi-fi speaker
and leaving me in silence,
where, without music,
I become a cracked orphan.
Well,
one gets out of bed
and the planets don’t always hiss
or muck up the day, each day.
As for the pain and its multiplying teaspoon,
perhaps it is a medicine
that will cure the soul
of its greed for love
next Thursday.

Gli stivalacci del dolore

Ci sono certi aggeggi,
aghi elettrostimolanti la caduta
del corpo dalla grazia,
che fanno supplicare la s-tortura.
Li ho esperiti
e venderei tutti i mobili
i libri e il vasto assortimento
per poterli evitare vieppiù.
Ma l’altro dolore…
Venderei la vita per evitarlo.
Quello che inizia con le sbarre
del lettino o forse
con il primo respiro
mentre i pianeti ti ficcano dentro
bene o male un futuro
quando impalmi la vita
con l’amore che il destino ti fornirà
o no.
Scopro adesso, deglutendo un cucchiaino
di dolore, che il patire scende giù
nel passato dove si mescola
con il quarto del quarto di gallone dell’anno scorso
e più giù nel quarto di gallone di un decennio
e giù giù nell’oceano di una vita intera.
Io alterno
fra restare a galla e fare il morto.
Un cucchiaino dovrebbe essere tollerabile
quando non si mescolasse con le repliche
e si allungasse con ciò che non è,
l’aculeo velenoso di una bestia marina
si tramuta di brutto nel morso di squalo
che trancia di netto una gamba, perché l’anima
usa una lente d’ingrandimento.
Prendere a calci il cuore
con gli stivalacci del dolore
che corrono su e giù per le budella
come un campione di motociclismo.
Eppure una si alza
e ricomincia, si tuffa nella giornata,
e si mette addosso un capo di buona speranza
e non permette alla paura di costruire un muro
fra te e un vecchio amico
o uno nuovo, e allunga una mano
chiudendo i battenti al pensiero che
un’ascia possa mozzarla all’improvviso.
Una impara a non blaterare di questo
se non fra sé e sé e i tasti della macchina da scrivere,
che non lo dicono a nessuno finché le battute prendono
[coraggio
e si trascinano sulla pagina stampata.
Sono davvero stufa,
dico alla macchina da scrivere,
di questo andare sempre in giro
con le scarpe bagnate e poi, sorpresa!
In qualche modo la parola DECEDUTA
viene sempre sovrapposta in rosso alla parola SPERANZA.
E io che continuo a buttarmi riconoscente
su ogni nuova fede cuscinetto,
per trovare la mia Via della Pietà,
baciandola e teneramente incartaregalando il mio amore,
sto davvero cominciando a chiedermi
cosa avessero in mente i pianeti del 9 novembre 1928.
I cuscini si sono strappati,
la mano ghigliottinata,
una merda di cane si scaraventa in mezzo a una risata,
un vespaio dentro la cassa dello stereo
mi abbandona al silenzio,
dove, senza più musica,
divento uno schianto d’orfana.
Bene,
una si alza dal letto
e i pianeti non sempre ti fischiano
o smerdano la giornata ogni giorno.
Quanto ai multipli del cucchiaino di dolore,
forse è una medicina
che curerà l’anima
dalla sua avidità di amore
giovedì prossimo.


Anne Harvey Sexton (1928-1974) è stata una tra le più note poetesse e performer statunitensi del secondo Novecento. Cresciuta in una famiglia borghese e in perenne contrasto con i genitori, Sexton da giovane si è dimostrata poco incline allo studio. Nel 1947 si è sposata appena ventenne con Alfred Muller Sexton, dal quale ha avuto due figlie. Si è avvicinata alla poesia nel 1957 frequentando il “Boston Center for Adult Education”, ma decisivo è stato l’incontro con Maxine Kumin, Sylvia Plath e Robert Lowell, con cui ha condiviso l’esperienza della Confessional Poetry. Tra gli altri, ha pubblicato i libri To Bedlam and Part Way Back (1960), Live or Die (1966, con cui ha vinto il Premio Pulitzer), Love Poems (1969) e Transformations (1972). Ricchissima e al culmine del successo, Sexton – già afflitta da disturbi depressivi e più volte aspirante suicida – si separa dal marito, entrando in una profonda crisi aggravata dall’abuso di alcol e psicofarmaci. Si toglie la vita nel garage della sua casa di Boston, intossicandosi col monossido di carbonio. 45 Mercy Street (1976) e Words for Dr. Y: Uncollected Poems with Three Stories (1978) sono volumi di poesia pubblicati postumi dalla figlia Linda Gray Sexton.

Rosaria Lo Russo è autrice e performer. Ha pubblicato, per la poesia: Comedia (Bompiani, 1998), Penelope (d’if, 2003), Lo dittatore amore. Melologhi (Effigie, 2004), Io e Anne. Confessional poems (d’if 2010), Crolli (Le Lettere, 2012), Poema 1990/2000 (Zona, 2013) e Nel nosocomio (Effigie, 2016). Con Daniele Vergni ha pubblicato il libro con dvd Controlli (Millegru, 2016). Anatema è di prossima uscita per Effigie. Traduce la poesia di Anne Sexton dal 1995; ha pubblicato Poesie d’amore (Le Lettere, 1996; seconda edizione riveduta e corretta 2019); L’estrosa abbondanza, (Crocetti, 1997, con Edoardo Zuccato e Antonello S. Centanin), Poesie su Dio (Le Lettere, 2003). Il libro della follia, del 1972, è di prossima uscita per La nave di Teseo.


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