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Odissea nel Quaderno – Milleri su Franceschetti

Questo è il terzo articolo della rubrica Odissea nel Quaderno, dedicata alla recensione delle sillogi contenute nel XV Quaderno di poesia contemporanea, (a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos 2021). Questa volta ci occuperemo della silloge Testimoni, di Emanuele Franceschetti. Qui puoi leggere la prima uscita (su Diritto all’oblio di Sara Sermini) e la seconda (su La danza degli aironi di Matteo Meloni).


Recensione come doxa

Comincio subito col chiarire che le critiche che ho da rivolgere alla silloge di Emanuele Franceschetti (Testimoni, in: XV Quaderno di poesia contemporanea, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos 2021) sono idiosincratiche, provvisorie e per lo più legate a una divergenza di poetica, ovvero di politica del testo. Gli aspetti strutturali e progettuali della silloge sono stati già ben delineati dalla prefazione di Massimo Gezzi, a cui rimando per ulteriori approfondimenti. Per i miei scopi è sufficiente riportare che Franceschetti ha scritto un’opera incentrata sulla continuità possibile fra memoria e presente, fondato su modalità formali sostanzialmente italo-novecentesche (endecasillabiche, cantabili, imperniate sull’esistenzialità della prima persona), aggiornate attraverso la prosa e l’impiego in alternativa di un verso lungo ed enunciativo.


Forma e melos

La critica che ho da fare è verso ciò che in questo libro fa da riguardo, da edulcorazione, da cuscinetto fra l’orribile e la sua rappresentazione testuale. In primo luogo quella cantabilità di cui dicevo, troppo palese per non tradire una solennità da cui mi guardo e troppo poco per riscattarsi con l’ironia o l’oltraggio, come fosse un pegno da pagare alla poesia in quanto genere, come se si credesse ancora allo stile come nobilitazione, come altezza. Così la legge Gezzi nella prefazione, adottando un sguardo probabilmente più in linea con le intenzioni dell’autore, e riprendendo l’idea di forma come resistenza, e quindi impegno, sforzo. Tuttavia, per me in espressioni come “Nell’incoscienza immemore del sonno” (Stasera non era un sogno la piazza buia e seminuda, p. 178); “un codice di segni universali” (Partire da un’immagine, p. 173); “la mareggiata tacita lo scafo”((Exeunt), p. 208) o “un pensiero che ancora sopravvive / come in un negativo, come un fossile” (Ti ricordi che i vivi se ne vanno, p. 177) un’esigenza di melos prevale sull’esattezza del testo, sulla necessità, il lessico si piega a un passatismo che fa apparire il dettato derivativo. Il testo iniziale (Introitus, p. 171) che ha però l’alibi di fornire da suono per richiamare a raccolta l’attenzione, è paradigmatico in quanto alla critica appena esposta, perciò lo riporto intero:

(Introitus)

La memoria coltiva la sua lingua.
Dal fondo si riversa un sillabario,
cose insepolte che ancora significano
dietro la soglia incerta del visibile.
C’è un nome che non puoi dimenticare:
i vivi e i morti restano indivisi
nell’equivoco del tempo lineare.
La vita si contamina, persiste.

Nostalgia per la trascendenza

In secondo luogo mi sembra una debolezza la ricaduta metafisica della prospettiva di Franceschetti, a fronte di affondi asciuttamente materialistici, lucidi, disincantati. Uno di questi ultimi è offerto per esempio dal testo Brera, Pinacoteca, sala trentatré (p. 174), che riscatta la solennità con la spietatezza: “se guardi tutto questo / non cerchi l’eleganza del dettato / non conosci la pace della forma / sai solo la tua assenza”. Però poi ci sono indulgenze alla nostalgia e alla proiezione, alla narrazione, alla fabbricazione di amuleti. Appare romanticizzata l’identità che l’autore reclama con la lingua di uno che “rimpiange i campi ovunque, le famiglie di otto figli”(Leggeva il Messaggero senza occhiali, a novant’anni, p. 190), fa sospettare la vecchia “ricurva e dignitosa” a pagina 193, come la consolazione che chiude il testo: “Allora tutto questo che tocco / non è materia estranea / ad occhi chiusi tutto si fa polvere, visione”. Semmai, la materia non è estranea perché fa parte del processo che riguarda anche noi. Stona la consolazione che scrivere sia una “pena temeraria” solo perché si sa che “non salverà nessuno dalla morte” (Massimo, la pena temeraria, p. 200). In sintesi, non vedo perché tentare “un’evasione metafisica” (Il luogo dove tutto risolve deve essere una metafora, p. 205), contraddicendo in un indebolimento vicendevole i testi migliori della raccolta, e venendo a patti con un ricettacolo di speranze trovate che è inevitabilmente imparentato col kitsch.

Lucidità e disarmo

Eppure Franceschetti mi piace, non voglio dire che la speranza sia da rifuggire. Solo che mi diventata intollerabile se la si chiama per nome, evidenziandola. È bello come la fatica di trovare materialmente una soluzione pragmatica, progettuale, attiva, performativa alla propria vita emerge dal testo a pagina 204:

Ci sono cose che non posso dirti.
Potrei darti un nome,
indicarti cose in uno spazio che è di tutti,
destinarti parole non diverse da altre che già conosci.
Eppure il nome in cui ti tengo è un segno
che affonda e brucia.
Un culmine, un segreto.
Non posso dirti mia unica figura intatta
mia croce, mia lingua nascosta.
Non posso dirti il corpo
che mi resiste ancora,
corpo che non è spirito
ma terra scossa, carne spalancata.


È questo il punto: corpo che non è spirito. Il tentativo di consolare linguisticamente l’altro è restituito nella sua banalità: non c’è rivelazione, non c’è innalzamento, ma solo una mossa che si fa per sopravvivere. Preferisco quando l’autore si concentra su di sé, evitando di generalizzare o astrarre troppo, oppure dubitando delle impressioni stesse, della verità della cognizione (come a pagina 195):


Tutto questo che guardi sembra dirti che è notte fonda.
Che anche nelle case più sicure c’è un segreto di morte,
vetri sul pavimento, parole come scorie.
Domani altro dolore da schivare:
i notiziari, l’ora legale, la conta dei decessi.
E invece tu lo guardi come uno che non può
testimoniare un finale diverso per il corpo,
un altra casa, un altro essere figlio
oppure padre senza figli,
sempre inchiodato alla frontiera, sempre
nel vivo dell’enigma.

Spezzo una lancia ulteriore: parte della solennità residua è derivata anche dal capitale culturale che Franceschetti mette in campo (da Bloch a Benedetti, da Schönberg a Neri, da Durrenmat a Herzog), che è un buon sintomo di consapevolezza e ambizione, e che darà i migliori frutti quando raggiungerà un grado più profondo di occultamento (così come per la perizia formale, e lo dico anche a me stesso). In generale nella libertà delle prose si vede come l’autore riesca ad affrancarsi dalla tradizione vissuta come eredità prescrittiva (è Sanguineti, ma non ricordo la fonte). È in quelle che con un’eleganza tutta di questo tempo Franceschetti rappresenta l’esperienza di percepire un fagogitamento della vita conscia da parte di quella inconscia (Venezia, Mosca, un film…, p. 181); denuncia l’insignificanza e la necessità umanissima di tutte le attività e le diversioni che si fanno per contrapporsi al proprio vuoto (Ottobre è al termine, vorrebbe…, p. 182); rappresenta il modo in cui la morte concreta di un altro mette ordine nella mente di chi scrive e ne riduce il superfluo (terza parte di Trois pour les suicides, p. 196).

Una divagazione per chiosare

A costo della scorrettezza cambio in parte argomento: in molta poesia italiana ancora oggi resistono pudori linguistici che non sopporto più, e che i migliori prosatori contemporanei si sono lasciati alle spalle guadagnandone in freschezza grandemente. Forse è anche a questi prosatori che si può guardare per ridare alla poesia una lingua e un immaginario vivi. Il sesso, i fantasmi, la violenza e la volgarità fanno parte della nostra vita a un tale livello che è diventato ridicolo per me non portarli nei testi. Due esempi:

Walter Siti, da Troppi paradisi (Einaudi 2006):

“Se possedessimo la merce perfetta, potremmo smettere di consumare; pensare l’assoluto è uno status-symbol. Mi pare giusto, entrare in un corpo ritoccato con un cazzo ritoccato; ai problemi della post-realtà immaginaria si risponde con la tecnologia.”

Vitaliano Trevisan, da Works (Einaudi 2016):

[parlando dei genitori, nda] Pensare che, in fondo, è grazie a quella misera paga se sono al mondo. Dovrei forse ringraziarli per questo? Semmai è un motivo per odiarli di più. L’odio è insieme troppo e troppo poco. Inutile cercare di spiegare. Forse potrebbe capirmi uno della mia razza (leggi estrazione sociale), ma quelli della mia razza raramente leggono.”

Io non credo che questi autori si abbandonino al male ma cerchino l’esorcismo, una liberazione più profonda (come dicevo meno chiaramente qui per quattro poeti). Io credo che Franceschetti abbia i numeri per praticare questo esorcismo in futuro, facendo parlare le varie parti di sé senza protezioni, e credo che, per chi è della nostra generazione, questo sia il prezzo da pagare per una positività credibile. Del resto il positivo c’è in Siti come c’è in Trevisan, ma parla sempre dal banco degli imputati.


Apparato iconografico: dalla serie Nothing personal di Nikita Teryoshin, sulle fiere dedicate alle armi da guerra (fonte)

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